Tra il 1954 ed il 1955 usciva la trilogia di J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings, il maggior studioso di letteratura anglosassone e medievale aveva scritto a sua volta un'epopea secondo le regole del genere cavalleresco, diventando il servitore appassionato delle forze stesse che aveva sentito pulsare nei versi di uomini morti da più d'un millennio. Macpherson nel '700 aveva immaginato un bardo scozzese vestendosi dei suoi ruvidi gaelici panni, ma la sua era una frode, un fingersi antico, agitato da selvatiche furie e malinconie. Altri avevano giocato con l'antico parodiandolo, Mark Twain e J.B. Cabe" si erano rassicurati sulla loro eccellenza di uomini evoluti e coscienti a cospetto delle leggende e dei cicli cavallereschi dei loro compassionevoli avi. Tolkien con costoro non ha niente da spartire, e nemmeno compone una favola romantica, magari riatteggiata come gioco surreale, tanto da mostrare di stare alle regole di buona creanza dell'avanguardia che tanto intimidiscono i timidi. Tolkien commise una lunga infrazione alle regole, specie a quelle che presiedono all'ancora (per poco?) vigente studio accademico delle letterature antiche. Esse vogliono che il filologo o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo ufficio all'opera di schedatura universale, nel quadro d'una Burocrazia-come-Essere-che-si-svela-a-se-stesso. Guai a far rivivere l'antico (uccidendo il moderne). In The Lord of the Rings Tolkien viceversa riparla, in una lingua che ha la semplicità dell'anglosassone o del medioinglese, di paesaggi che pare d'aver già amato leggendo Beowulf o Sir Gawain o La Mort Arthur, di creature campate tra il mondo sublunare ed il terzo cielo, di essenze incarnate in forze fantastiche, di archetipi divenuti figure. Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno di prammatica. «Non è la sua un'opera staccata dalla realtà? Non è forse un'evasione?». Vi sono momenti di noncuranza, di distrazione, nei quali si tralascia l'ottimo consiglio di Nietzsche, che la vera critica sia un distogliere lo sguardo, e si parla perfino alla massa dannata. Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba' di replicare che, certo, una fiaba è un'evasione dal carcere e aggiunse: chi getta come un'accusa questa che dovrebbe essere una lode commette un errore forse insincero, ccomunando la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione a fenomeni sociali. «Non si possono ignorare le realtà presenti, impellenti, inesorabili!», dicono ancora i custodi della degradazione. Realtà transitorie, corregge Tolkien. Le fiabe parlano di cose permanente: non di lampadine elettriche, ma di fulmine. Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti. Esiste una fiaba suprema, che non è una sottocreazione, come altre, ma il compimento della Creazione, il cui rifiuto conduce alla furia o alla tristezza: la vicenda evangelica, in cui storia e leggenda si fondono.' La fiaba e la religione sono state sciaguratamente scisse e sempre vanno tentando di riabbracciarsi e rifondersi in uno (e per religione Tolkien intende: «il divino, il diritto al potere, distinto dal possesso del potere, l'obbligo di culto»). Le fiabe, Tolkien insegna, hanno tre volti, quello mistico che guarda al soprannaturale quello magico indirizzato alla natura, e infine lo specchio di scorno e pietà che offrono all'uomo. La triade della terra, del cielo e dell'essere in cui s'incontrano, definisce la sottocreazione o microcreazione che è la fiaba. Ma di fiabe, più o meno in questo senso, c'è una sporade nell'Inghilterra recente. Robert Graves non ha rinarrato la vicenda degli Argonauti con un empito che gioca nel contempo sui tre piani? E Chartes Williams non ha voluto fondere una partita magica di tarocchi con una vicenda quotidiana? E john Cowper Powys non ha tessuto tante fiabe gallesi, non ha riraccontato quella di Ruggero Bacone? E anche George Mac Donald non ha fatto accenni esoterici tra invenzioni favolose per l'infanzia? E C.S. Lewis non ha composte una trilogia fiabesca? Ma una differenza sottile e radicale, come fra la notte e il giorno, discrimina Tolkien, segnatamente da Graves e Williams e Powys: egli non cerca la mediazione fra male e bene, ma soltanto la vittoria sul male. I suoi draghi non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare. In un Powys sempre ritorna l'immagine dell'ermafrodito, come stato di mescolanza, d'ibridazione satanicamente fruttuosa, sempre si assiste a una calata negli inferi non per debellarli ma per farsi contagiare, sì da ricevere una diabolica energia. In un Graves sempre si torna a venerare una Madre Bianca che è sorgente di energia tutta terrestre. In breve, ci si ritrova nell'atmosfera consueta, moderna, erotica, intrisa di confusione, androgina, che fu inaugurata da Blake, che è stata nella scorsa generazione formulata da jung. La fascinazione che sprigiona da Tolkien proviene dal suo completo ripudio di questa tradizione sinistra. La sua fiaba non celebra il consueto signore delle favole moderne, Lucifero, ma San Michele o Beowulf o San Giorgio. E accetta il destino di sconfitta che è inevitabile per l'eroe solare: vincitore è l'Anarca, come già nel Giardino, ma tanto maggiore è dunque la purezza di chi lo combatte. Si è con lui agli antipodi di Powys che esalta un venturo Messia dell'era dell'Acquario, goffo, violento, puerile, svergognato, che oltraggia l'ordine dei sessi, della religione e della famiglia stessa. Si è agli antipodi di tutto ciò che in qualche modo si rifaccia anche a meno sinistre dottrine, anche soltanto a quella «provvisoria accettazione delle energie e delle passioni pericolose» che Keats suggeriva. Come per Powys il numero sacro per eccellenza è il quattro, per Tolkien è il tre, trinitario, che non accetta la presenza del demonio. Anche quei favolisti della mano sinistre sanno cose abbastanza nascoste, conoscono il potere immenso dei puri pensieri, anch'essi compongono fiabe e accedono ad archetipi, eppure sono inconciliabili con la schiera dei favolisti della Tradizione benigna e luminosa: Tolkien o C.S. Lewis. Non è esaltante che pure in tempi dediti al culto del Caos, abbiano levato la voce anche questi ultimi, e che la tradizione da loro cantata abbiaavuto anche un altro servitore, dedito a narrare le opere della tenebra, Montagne Summers? Qualcuno, a sentir parlare della creazione di una nuova epopea cavalleresca, ha scosso la mano dicendo che preferiva leggersi epopee antiche vere. Obiezione encomiabile, se Tolkien non avesse scritto appunto qualcosa di uguale alle epopee antiche, di altrettanto vero. Infatti ci vuol poco a sentire che egli sta parlando di ci'o che tutti affrontiamo quotidianamente negli spazi immutevoli che dividono la decisione dal gesto, il dubbio dalla risoluzione, la tentazione dalla caduta o dalla salvezza. Spazi, paesaggi uguali nei millenni, ma da lui riscoperti in occasioni prossime a quelle che noi stessi abbiamo conosciuto. Sull'elsa delle spade immemoriali dura ancora il calore di un pugno, sull'erba immutevole è passata un'orma da poco, e quella presenza così prossima potrebbe essere la sua o la nostra. Non a caso The Lord of the Rings è diventato così popolare, i bambini vi si ambientano subito e i dotti godono tanto a decifrarlo quanto a restare giocati da certi suoi enigmi puramente esornativi. Si rimane stretti in una maglia ben tessuta, fatta dei nostri stessi tremiti, inconfessati sospetti, sospiri più intimi a noi di noi stessi. Perché opera di così impalpabili forze, The Lord of the Rings si divulgò smisuratamente, senza bisogno di persuasioni o di avalli, perché parlava per simboli e figure di un mondo perenne oltre che arcaico, dunque più presente a noi del presente. I personaggi sono come Melkitsedek, senza padre né madre anche se si occupano intensamente di genealogie; non sai di dove traggano sussistenza: sono fisionomie peraltro inconfondibili in mondi senza data. Il romanzo piglia inizio in una contrada abitata da esseri abbastanza simili a villici inglesi con forte vena celtica piuttosto che a uomini in genere; sono piccoli, come Celti. Tolkien li chiama Hobbits, e si può pensare a gente che corra la cavallina dei suoi estri o bobby-borse. Estri bonari e casalinghi, ispirati dai Lari: gli Hobbits sono amabili, buffi, profondamente seri (e la quiete domestica non è un modesto accenno a una quiete divina?). Essi somigliano gli avventori di ideali locande di un'ideale campagna inglese, o i membri di un club pickwickiano; sono quasi deliberatamente svagati, dediti quasi per impuntatura a privatissime frivolezze quando si trovino sull'orlo della catastrofe, a celie e divagazioni nel cuore d'una tragedia, pronti a sacrifici e ardimenti e dure resistenze, purché sia dato di affrontarli con aria distratta e lievemente comica. Ci aggiriamo dunque nera loro terra pettinata e pacifica; uno di loro, apprendiamo, Bilbo, ebbe in tempi remoti un'avventura con un sozzo abitatore di grotte, viscido divoratore di pesci bianchicci che guazzano nelle melme sotterranee: Gollum, cui involò un anello simile a quello dei Nibelunghi, che rende anche invisibile chi lo infili. Un giorno Bilbo sparisce, lasciando l'anello all'amico Frodo. A costui si presenta un mago, Gandalf, che gli svela il destino nel quale egli è caduto o assurto. Quello è l'anello della forza assoluta, della Tenebra che Shakespeare avrebbe chiamata «l'universale lupo»; spetta infatti al Signore del Male, il quale lo cercherà per poter radiare dal mondo le ultime vestigia di incurante bellezza. E' l'anello dell'abisso informe, dotato di un potere ben maggiore dei tre anelli degli Elfi, la triade o trinità che suscita e nutre le forme dell'universo. Sarà sconveniente spezzare l'atmosfera di dolce e puerile semplicità rammentando la cosmogonia di Boehme spirito (ovvero: la materia potenziale, il suo intimo succo animatore, lo spirito o profumo che la soffonde, ovvero: il corpo, l'anima e lo spirito; il Padre il Figlio e lo Spirito)? E sarà necessario rammentare che così, in Boehme, riemergeva la cosmogonia nordica che poneva all'inizio il gelo, e aveva la sua Triade? Una delle poesie del romanzo insegna: Tre anelli per i re degli Elfi sotto il cielo, Sette per i signori dei nani nelle aule di pietra, Nove per gli uomini votati alla morte, Uno per il Signore tenebroso sul cupo trono Nella terra di Mordor dove posano le ombre. Un unico anello per reggerli tutti e trovarli E adunarli e legarli nel buio, Nella terra di Mordor dove posano le ombre.Al tre, numero dello spirito e della germinazione d'ogni forma, si aggiunga il quattro, numero della materia e si avrà la completezza, il sette (il numero di Minerva sapiente e delle arti liberali), proprio dei nani costruttori; il nove è il numero della redenzione dell'uomo, seconde già Dante insegnava. I significati d'un simile unico anello sono quanti si voglia. Può ben essere il segreto terribile cui accenna Louis-Claude de Saint-Martin nella prefazione all'Aurora di Boehme, dove presagisce che le scienze naturali scisse dalle divine troveranno il modo di far dellagrare il fuoco essenziale d'ogni cosa. Potrebbe essere anche un segreto più sinistro, la conoscenza della plasmabilità assoluta dell'uomo sociale, una capacità di rendersi invisibile, nel regno delle forze infere, per dominare, di lì, gli uomini. Frodo è iniziato a questi sgomenti da un Merlino redivivo, Gandalf, cui sono note le forze che reggono e si disputano la terra. Molti i suoi antenati, stando anche alla sola Inghilterra ottocentesca: il Saladino del Talisman di Sir Walter Scott, Zanoni e Mejnour nello Zanoni di Sir Bulwer Lytton. Fuor d'Inghilterra, s'intende, lo larno del Wilhelm Meister. Per tornare a tempi prossimi, a Yeats parve d'incontrarne qualche replica a Londra. Ed il fratello di Jivago gli somigliava. L'anello conferisce una vita perpetua e infonde un tedio sconfinato al mortale che lo infili al dito, il quale però non cresce, non ottiene maggior vita, prosegue soltanto, in un mondo di larve, in un crepuscolo sotto l'occhio del Maligno che lo divorerà, dunque è l'elisir del Septimius Felton di Hawthorne. Quali segreti, per un povero Hobbit! Frodo non desidera capirli, ma Gandalf incalza con verità vieppiù intollerabili. Il Male s'incarna di ciclo in ciclo in forme diverse, ma resta uguale e mira alla schiavitò universale. «E perché vorrebbe aver tutti schiavi?», geme Frodo. «Per mera malizia e oscura vendetta», replica Gandalf. Il potere del Male si va dilatando via via, un tempo gli Elfi reggevano robusti, gli uomini ancora non s'erano straniati da loro, ma ormai ogni traccia elfica è per svanire. W.H. Auden non ha sopportato la visione, e in un articolo comparso sul «Critical Quarterly» ha protestato: non esistono esseri che ubbidiscano al Male assoluto, la loro presenza nell'opera di Tolkien gli spiace, «non mi rallegrano, perché la loro esistenza sembra significare che è possibile che una specie dotata di parola e perciò capace di scelta morale sia maligna per natura». Se le concezioni di Tolkien fossero meno velate, questa voce di protesta diventerebbe un coro: un'umanità dagli occhi quasi spenti non regge a luci troppo gagliarde: non tollera l'idea che esistano santi, carismatici che perseguano il bene (il divino, non le buone azioni) fine a se stesso, perciò nemmeno può ammettere l'esistenza d'un satanico, consapevole esecutore di un male senza secondi fini. Che qualcuno ami la degradazione, si voti ad essa inilessibilmente, ne ordisca la trama con dissimulazione, sofferenza e prudenza, questo è troppo per l'umanità che assiste affascinata, come uno scoiattolo sotto lo sguardo del serpente, alla demolizione sistematica dell'arte, della grazia contemplativa, della vegetazione stessa, di tutto ciò che è elfico al mondo. L'intelligenza maligna che conduce quest'opera di rovina è non meno sovrumana di quella divina che s'infuse nel genio degli edificatori. Ma per conoscere sperimentalmente la presenza del Male è necessario aver fatto almeno qualche passo sulla strada della purificazione. Auden discerne dunque il criptogramma dell'affresco di Tolkien e torce lo sguardo. Come mai il gran stuolo di lettori viceversa gode a farsi insinuare nel cuore un messaggio così ostico alla moderna miseria? Non se ne accorge? O forse se ne accorge, e perciò ama la storia dell'anello, che parla d'una verità repressa, ma ben nota nel profondo dei cuori, anche a coloro che ripetono come intontiti le consuete e le stolte negazioni del peccato originale e del suo artefice, anche se voci macchinali ripeteranno che nessuno è del tutto maligno, che perfino in Lucifero brilla un filo di bontà. Ma bando al ricordo di menzogne, se il destino propizio concede invece di occuparci dell'Anello. Gandalf narra a Frodo come l'anello forgiato col fuoco dell'abisso cadde in mano di Gollum, come costui in tempi remoti fosse un essere attratto verso le radici, gli inizi, verso le profondità dove covano i semi delle piante. Era dunque dannato alla conoscenza tutta materiale, incapace di comprendere come le forme siano l'essenza delle cose, come nella foglia e nella radice si sveli la verità della pianta, la sua integra figura; i rami nelle nervature, le fronde nei lobi, le radici nell'attaccatura. Gollum aveva scordato le foglie, le cime, i bocci che si aprono all'aria, cioè la destinazione delle cose che ne sono il principio, l'entelechia. La forma s'incarna e plasma, non è sprigionata dalla materia, insegnava ancora Goethe. Gollum è al polo opposto, non immagina nemmeno più che sia l'imperfetto a rinviate alla perfezione, che il fiore sia l'immanente, invisibile, dominante destino nel ruvido seme materiale. Benché uomo tutto assorto nelle scienze naturali e perciò dimentico del primato delle forme sulle sostanze, Gollum ha in sé un cantuccio ancora del tutto indenne, dove filtra come per una fessura un fioco lume, dalla luce del passato: «as througli a chink in the dark; liglit out of the past». Non è il servo assoluto del Male. Gollum è troppo meschino; il destino dell'Anello non può coniluire nel suo destino: tende al Male totale. Il fato dell'Anello s'intreccia si con quello dei suoi detentori, ma, insegna Gandalf, di là da essi vige una forza maggiore, la Provvidenza, cui si può alludere dicendo che Bilbo e Frodo dovevano impadronirsi dell'Anello, e non per volontà di chi l'aveva forgiato. Gandalf sa congiungere gli eventi come perle su un filo, e la luce che glielo consente è la nozione del Male assoluto, incarnato, operoso. Dinanzi agli ometti che non intendono questa logica egli è ansioso e spazientito. Con Frodo ha un momento di furia, quando questi gli domanda se tiri a indovinare o veramente sappia, e gli risponde che non verrà a rendere conto proprio a lui delle proprie azioni. Eppure è reso immensamente mite dal carico di conoscenza che si è addossato e, quando Frodo esclama che Gollum meriterebbe la morte, esclama che forse sì la meriterebbe, ma quanti che muoiono meriterebbero di vivere, e chi non è padrone di rendere la vita ai morenti non presuma di largire la morte ai vivi, essendo i fini ultimi celati alla vista perfino del più saggio. Anche Gollum è connesso al destino dell'Anello, il cuore avverte che quel vincolo si rifarà sentire, che Gollum rientrerà nella vicenda, in modi che non si possono prevedere fausti o deleteri. Frodo parte per distruggere l'Anello e scopre che gli amici bonaccioni che lo accompagnano per la prima parte del tragitto (dove si sente inseguito già da certi foschi cavalieri inviati dal Male) hanno tutto indovinato e sono decisi a scortarlo fino in capo al mondo, al vulcano maledetto. E' una compagnia di Hobbits dunque che varca la frontiera e s'inoltra in una temibile foresta per non seguire la strada maestra, dove scorrazzano i cavalieri infausti. Un albero li attrae sotto le sue ombre e all'improvviso li rinserra nelle sue radici; resterebbero schiacciati se non comparisse il genio del luogo, un ilare Silvano: Tom Bombadil, che cantando disincanta la morsa di legno, liberandoli. Egli è il padrone della contrada, non il suo proprietario, perché la proprietà sarebbe un peso da cui la sua leggera e leggiadra natura rifuggirebbe. Conosce i segreti delle piante e delle pietre, e svela ai viandanti che l'albero che li ha ghermiti ha un cuore marcio ma una forza verde, e con il suo spirito assetato e grigio dirama le sue filiformi radici per tutta la terra del bosco, irretendo ogni pianta. Un altro pericolo incombe: le pietre fredde cattureranno a loro volta i compagni e soltanto i canti solari di Bombadil varranno nuovamente a liberarli. Di là della foresta si stende la marca di frontiera, il paese di Bree, dove l'ultima locanda si apre ad accogliere gli Hobbits. In essa Frodo si lascia andare alla baldoria della compagnie che gremisce il salone (o non sono gli sguardi pesanti di certi forestieri a squilibrarlo?) e si infila l'Anello, sparendo, gettando in tutti l'allarme. La notte i cavalieri del Nemico metteranno in libertà i muli degli Hobbits, i quali fuggiranno tra gli improperi degli abitanti. Hanno però acquistato uno strano, cupo compagno, Aragorn. Con lui s'avventurano nelle lande desolate e grazie a lui sopravvivono a un primo atroce attacco dei cavalieri. In che consiste l'attacco? In un trasognato piombare nel male: Frodo non per speranza di fuggire, non nella convinzione di compiere checchessia di bene o di male, ma come sentendo semplicemente di doverlo fare, si infila l'anello. Quale rappresentazione perfetta della tentazione! I cavalieri neri non sono forse uguali al maggiordomo e alla governante sinistra di The Turn of the Screw? Frodo rimane ferito alla spalla, attraversato da un terribile gelo, che soltanto le erbe di Aragorn attenueranno; Aragorn così entra nella sua piena fiducia; è stato finora tenuto in sospetto, come è naturale che desti un lieve allarme chi percorra le terre pericolose sul confine tra l'umano e il soprannaturale. Ancora un altro assalto di cavalieri nemici viene respinto, ma sulle soglie oramai del reame di Rivende", un luogo esente da ogni ombra, un riparo di estasi e leggiadria. Frodo vi sarà assistito da Gandalf, vi ritroverà Bilbo, che vi si è ritirato per comporre poemi e annali. Nelle conversazioni fra gli abitatori di Rivendeil affiorano altre verità. Aragorn osserva che «i semplici sono esenti da preoccupazione e timore, e semplici vogliono restare, e noi dobbiamo restare segreti affinché essi restino come sono». Gandalf annuncia che il capo dell'ordine dei maghi, Saruman, è diventato ligio al Nemico: i suoi manti che sono sempre parsi candidi si sono svelati contessuti di tutti i colori dell'iride, ed egli ha proclamato: «Il bianco! Serve per incominciare. Ma il panno bianco si può tingere. La pagina bianca si può coprire di scrittura, e la luce bianca si può spezzare». Come il capitolo sul bianco, colore dell'innocenza che si ribalta in lebbra e morte, in Moby Dick, questa rivelazione minaccia di far cadere nella terribile confusione onde male e bene si fondono, l'uno e l'altro paiono intrecciati in modi inestricabili. Ma Gandalf avverte che se il bianco non è più tale vuol dire che è sparito, non già che sia confuso e infuso nel suo opposto, e chi infrange una cosa per scrutarla (analizzi il candore per scoprirvi altre cose) ha abbandonato la strada della sapienza. Che resta degli inganni così cari ai mediatori di bene e male, di salute e malattia, di divino e diabolico, così frequenti nel secolo scorso e in questo? Infatti Saruman non perdona a Gandalf d'aver smascherato la sua falsa sapienza di mediatore fra bene e male, fra virtò e vizio, ha tentato di imprigionarlo, e soltanto per la sua amicizia con le aquile (col puro spirito?) Gandalf ha potuto mettersi in salvo ed è ora qui con gli amici. Saruman s'illude di poter collaborare con il Signore del Male, fatale dominatore della nuova era, e suggerisce di tener segreti i pensieri , deplorando nel cuore le nefandezze inevitabili, confidando che sotto qualsiasi regime del Male i sapienti potranno sopravvivere e lentamente giungere alle leve di comando, poiché infine anche la dominazione del Male si dovrà proporre «Conoscenza, Legge, Ordine, le cose che finora abbiamo procurato invano di attuare, ostacolati piuttosto che assistiti com'eravamo dai nostri deboli o inerti amici. Non è necessaria, non ci sarà un'alterazione dei nostri fini, ma solo nei mezzi». Eppure, una volta salvi dalle lusinghe del Male, dalla voce di Saruman, che si potrà mai fare contro un futuro schiacciante? Gandalf mette in guardia dal voler affrontare il male con le sue armi, dall'usare l'Anello; l'unico modo di vincere sarà di perseguire un fine che il Maligno non potrà mai credere, che non ha nulla a vedere con l'acquisto del potere, che per il Maligno è dunque pura follia. Se ci si propone di distruggere l'Anello si sarà sotto un ammanto che coprirà perfettamente ogni mossa, renderà del tutto enigmatici. La «follia secondo il mondo» è pur l'unico scudo. La furbizia di Saruman, con le sue arie da complotto di maghi, non è poi di qualità meno misera di quelle battute della protagonista di Rosemary's Baby di Ira Levin, la quale, guardando il mostricino partorito dopo il connubio con Satana, il cui occhio felino è esattamente uguale a quello del Male assoluto di The Lord of the Rings, sussurra: «Non può essere tutto malvagio, non potrebbe esserlo. Anche se mezzo Satana, era pure per metà suo, per metà un essere umano decente, ordinario, sensato... Se ella avesse operato contro di loro, esercitando un'iniluenza buona per contrastare la loro, maligna...». Sarà senza speranza che Frodo, in una compagnia accresciuta dalla presenza di un principe, Boromir, d'un nano, d'un elfo e di Gandalf, si metterà in cammino. Anzi, non solo senza speranza, ma con certezza di ineluttabili scadimenti, poiché se l'Unico Anello sarà catturato dal Male, tutti ne saranno schiavi, ma anche se si riuscirà a farlo sparire nelle fiamme del magma, i tre anelli degli elfi che comprendono, fanno, curano, mantengono le cose della vita, perderanno vigore. Il percorso è aspro, per valichi di montagna infestati dai lupi, a fianco d'un lago dove un mostro è in agguato, dentro una caverna e dentro le radici della montagna infestate dagli Orc, gli esseri più completamente satanici. Per uscire nuovamente all'aperto Gandalf deve lottare contro un immane mostro e nella lotta pare soccombere, cadendo con quello in uno strapiombo. Priva della sua guida, la compagnia raggiunge infine la terra degli Elfi, dove la regina Galadriel mostra a Frodo lo specchio magico di certe acque, dove si palesano con cose desiderate anche altre, non richieste, che furono, sono e forse avverranno. E' la distesa della propria fantasia epurata e resa oggettiva, profetica, mondo d'immagini non più soggettive. In essa appare, a sgomento e orrore, l'Occhio del Male, cerchiato di fiamma, giallo, attento, con una fessura nel mezzo, pupille spalancata su un nero abisso, sul nulla. Anche la regina degli Elfi vede quell'occhio e leva un braccio candido e allarga la mano verso l'Oriente come a respingere lo sguardo orribile; intanto splende in cielo la stella Vespero (Earendil la chiama Tolkien, con il suo nome anglosassone) e il suo raggio cade sul dito della regina, inargentando l'anello d'oro, facendone luccicare la pietra, quasi a dire che lui, Vespero, vi è incastonato, uno dei tre anelli elfici. I compagne si congedano dal paese di canti e di estasi, ripigliando il cammino insidiato. E l'insidia maggiore è celata nel loro mezzo: «in nulla si manifesta più chiaramente il potere del Signore Tenebroso che nello straniamento che divide l'un dall'altro coloro che ancora lo contrastano». Boromir, il principe, propone a Frodo di usare l'anello per combattere il Male, e, avutone un rifiuto, lo assalta. Boromir morirà, mentre Frodo fugge, solo, lasciando alle spalle la compagnia. Lo raggiungerà il suo amico Sam, semplice e devoto, e insieme si avvieranno verso i reami della desolazione. Il secondo libro della trilogia, The Two Towers, narra come la compagnia così ridotta debba inseguire una masnada di Orc i quali hanno rapito due degli Hobbits, come questi si salvino in una antica foresta e vi incontrino Treebearci, un pastore d'alberi, un'anima puramente e possentemente vegetale; come la compagnia che IA va cercando s'imbatta, in quella medesima foresta, in Gandalf redivivo e con lui vada a liberare il re di Rohan dai sortilegi del suo consigliere Grima, asservito a Saruman. Grima ha isolato il re, l'ha persuaso di non essere capace di fare più nulla, facendogli sentire un invincibile languore. Gandalf lo scioglie da quella soggezione: «Ecco! Sei giunto a un pericolo ancor maggiore di quello che l'ingegno di Grima intesseva nei tuoi sogni. Eppure ecco! Non sogni più. Vivi». Il re vive e assume la sua parte nella lotta contro le forze preponderanti del Male. Gli appaiono ora leali amici coloro che durante l'infatuazione maligna gli sembravano irritanti («a occhi che guardano di sbieco, la verità può mostrare un volto distorto»). La battaglia contro gli Orc è aspra, ma la vittoria arride su quella truppa ghignante e turpe allorquando Treebearci giunge in soccorso con i suoi alberi secolari, simili alla foresta che atterrisce Macheth. Saruman è imprigionato, Gandalf ne spezza il potere, ma le lusinghe dello stregone sono state temibili fino all'ultimo, poiché la sua voce è quella d'un buon cuore ferito da offese immeritate, e chi la ascolta di rado saprebbe riferirne le parole, ci si ricorda solamente che essa è deliziosa ad ascoltarsi, pare dir cose sagge e razionali, destando il desiderio di mostrarsi, senza esitazione, altrettanto razionali, consentendo. Frodo e Sam s'inerpicano intanto per le montagne che cingono il regno del Male assoluto. C'è un essere che da tempo li sta inseguendo, Gollum, affascinato ancora e sempre dall'Anello. Frodo lo affronta e soggioga, obbligandolo a scortarli fino a una galleria nella montagna che cinge il temibile regno. Il mostro delle caverne, Shelob, piomba sui due amici e ferisce Frodo; una pattuglia di Orc s'impadronisce di lui. Sam, rimasto solo, si mette, invisibile grazie all'Anello, a inseguirli. Frattanto il Signore del Male ha scatenato le sue truppa innumerevoli contro il reame di Numenor, retto dal vecchio re Denethor. Soltanto l'arrivo tempestivo delle truppe di Rohan potrebbe salvarlo. Questa incerta battaglia sospesa al filo d'un momento decisivo è il tema della terza parte della trilogia, The Return Of The King. Il re Denethor impazzirà nel colmo della mischia, isolato nera sua rocca. Soltanto la presenza di Gandalf evita il crollo e dopo la vittoria che vede congiungersi sul campo i cavalieri di Rohan, la compagnie capeggiata da Aragorn e gli uomini di Numenor assediata, una nuova dinastia, con Aragorn, salirà sul trono. La designazione è semplice: Aragorn mostra di saper guarire i feriti: «Le mani del Re sono mani di guaritore. E così sempre si è potuto stabilire chi fosse il legittimo sovrano». Una spedizione capeggiata da Aragorn e Gandalf va incontro al Nemico, senza speranza alcuna, nell'unico intento di distrarlo mentre Frodo tenta d'accostarsi al vulcano. La disperata impresa riesce: crollano le difese del Male, Frodo giunge, dopo essere stato liberato da Sam, a far sparire nelle fiamme l'Anello. Sarebbe finita l'avventura, se, per simmetria, Tolkien non avesse aggiunto, come Omero una lotta contro i Proci all'Odissea, un funesto ritorno alla terra degli Hobbits, dove Saruman è riuscito a ispirare una tirannide che spegne tutte le virtò naturali del popolo. La lugubre atmosfera, l'organizzazione cupa d'ogni atto, sono perfette rappresentazioni dei tanti regimi oppressivi che il secolo ha prodotto. Poiché la fiaba deve concludersi per il bene, l'arrivo dei reduci scioglie l'incantesimo; la vita ripiglia a scorrere nel modo usato, anche se la dolcezza di vivere non tornerà mai più qual era prima.
Da: http://mikeplato.myblog.it/archive/2009/07/06/la-prefazione-del-signore-degli-anelli.html