"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
La chiamano civiltà Venerata in India e nelle
antiche culture descritte qui da Elémire Zolla Da animale sacrificale a oggetto delle mattanze
"igieniche" di oggi
Freud,
Jung, psicologie di
ogni sorta, ormai non servono più. Perché le psicosi non sono più di noi,
degni figli dell'homo sapiens, ma delle mucche che da miti ispiratrici "di
vigore e di pace" al cuore di Carducci
sono diventate di colpo le sole, vere, spietate "pazze" del nuovo
Millennio. Altro che pazzi! Noi intelligentissimi siamo: trasformiamo gli
erbivori in carnivori e li ingrassiamo a forza di "ceneri" di carcasse
infette, di scarti di macellazione, perfino di placente umane essiccate. Poi,
per diventare più sani, forti e virili ce li mangiamo "al sangue", a
fettine con le patate, nelle trattorie della domenica, alla fiorentina, alla
milanese o alla palermitana, su piatti ancora caldi di lavastoviglie. Quanto
all'encefalopatia spongiforme noi, proprio, non ce la meritavamo. E per questo,
in mattatoi lontani dai nostri "occhi innocenti", giustiziamo, carne
sopra carne, le mucche, i loro mariti, i loro figli. Fino a ieri, però, prima
ancora di essere "pazze" le mucche erano da sempre state
"sacre". E in nome di questa sacralità, già nell'Ottocento, due
ambasciatori indù mandati in Inghilterra, al loro ritorno in India vennero
considerati talmente impuri dal loro contatto con gli europei che soltanto una
nuova nascita simbolica poteva ridare loro la vita. Per rigenerarsi, annotò Frazer
nel suo Ramo d'Oro, gli impuri indiani dovettero rivalersi sul macello
europeo strofinandosi a una statua d'oro puro, raffigurante il potere femminile
della natura nella forma di una vacca. Tutt'oggi, ci conferma il grande umanista
e studioso di religioni Elémire
Zolla, "un indiano della casta bramina dà per scontato che una persona
normale debba sentire riverenza verso questo animale, il quale dà tutto
offrendo se stesso in un sacrificio totale e perenne a favore dell'uomo. La
vacca in India è essenza del dono supremo, è incarnazione del dono divino,
della vita stessa e non c'è parte di essa che non abbia funzione sacrale;
perfino i suoi escrementi servono ad accendere il fuoco. Per le strade,
paralizzate dalle folle, la vacca ha il primo posto e nessuno si sognerebbe di
molestarla, di ostacolarla. Da qui le proibizioni che ne derivano: è un grosso
insulto, ad esempio, entrare in una casa bramina calzando scarpe di pelle di
mucca o di toro e il divieto di mangiare carne di mucca in India è dato per
qualcosa di istintivo assolutamente incomprensibile per un europeo.
Uccidere o mangiare una vacca per un indù sarebbe un delitto abominevole quanto
l'omicidio". Come simbolo dell'ahimsa, ossia della non violenza fondata
sulla sacralità della vita, l'induismo ha tramandato la sacralità della vacca
anche ai buddhisti che, come nei templi della Thailandia del Nord, la offrono al
Buddha modellata in piccole statue di terracotta. Le immagini sacre della vacca
e del suo misterioso fluido vitale, risalgono, però, ai culti arcaici della
genitrix, a quelli delle Grandi Madri paleolitiche dalle multiple e abbondanti
mammelle scoperte e studiate dall'archeologa lituana Marija
Gimbutas. Da queste discende Iside, nell'antico Egitto ritratta come donna
dalla testa di vacca. Sull'Egitto, rileva però Zolla, "abbiamo prospettive
infinite e pochissime notizie.
Certa è la presenza nei templi egizi della mucca come eloquente principio della
fertilità della terra, di fecondità, quale presupposto indispensabile alla
vita. La stessa statua della Diana multimammia di Efeso ripropose l'archetipo
della mucca sacra. L'uomo greco e romano l'assimilarono, poi, al primo latte, al
primo cibo ricevuto", Ripreso dall'Oriente e dalla civiltà cretese (si
pensi anche al mito del Minotauro ucciso da Teseo) il culto della mucca sacra
rivive, così, nell'Odissea attraverso il celebre episodio delle sacre vacche
del Sole: per averne uccisa una, dopo sette giorni di digiuno, la ciurma di
Ulisse fu punita da Zeus che "stese sulla concava nave un fosco nembo, e si
ottenebrò di sotto il mare". Dioniso, ancora, veniva rappresentato spesso
in forma di capretto o di toro secondo la diffusa simbologia che lega questi
animali alla vegetazione, agli spiriti tutelari del grano. Lo stesso ciclo del
latte si legava, in antichi culti quali quelli sumeri, ai cicli meteorologici, a
quelli astrali, al fluire del tempo cosmico in cui si dispiega quello della vita
umana. Il dio Enlil, per i Sumeri, era il "Signore dei venti e
dell'uragano", il "Dio del corno", fratello di Inanna, la
"Grande Vacca" simbolo della vegetazione. La vacca, nota qui Zolla,
"prima di tutto dà il latte e se non lo dà soffre. Essa è quindi
congegnata per consegnarci questo principio fluido che è la base di ogni tempo,
di ogni vita". Così accade nelle culture folkloriche dell'Europa orientale
dove, ancor oggi, si rappresenta la vacca come una donna vestita di spighe e
fiordalisi. Questa è, spiega insomma Zolla, "l'enorme messe di dee
affiorate dall'Ucraina alla Grecia che testimoniano una civiltà matriarcale
imperniata su un culto della vacca che precede l'invasione indoeuropea. E fra
gli indoeuropei erano i Celti ad avere un forte rispetto della mucca. La stessa
corrida ha basi celtiche, anche se oggi figura come retaggio degradato e
mostruoso di antichi rituali sacrificali e propiziatorii". La vacca,
prosegue Zolla, "si offre agli uomini e, per questo, gli uomini l'hanno
sempre consacrata agli dei. La vacca vuole essere munta per riversare sugli
uomini il latte quale dono divino e nutrimento supremo. E nel concorso a
simboleggiare il fondamentale principio di vita è chiaro che la vacca ottiene
il primo posto". Primo posto come dono sacrificale reso agli dei o - come
fra gli Egiziani che scongiuravano sulla testa di un toro gettata sul Nilo tutti
i mali che altrimenti sarebbero ricaduti sopra di loro - come capro espiatorio.
Le scene sacrificali, dove sono le virtù sacre dell'animale a essere consacrate
in banchetti rituali, commemorano eventi mitici, ristabiliscono il patto con
l'aldilà e contribuiscono al buon funzionamento del cosmo, della natura, della
società. Dall'antico Egitto all'Islam che obbliga i musulmani partecipanti all'ayd
el-edha (la "grande festa del sacrificio") a sgozzare gli animali
facendo colare a terra il sangue, ricettacolo dell'anima: fino alle odierne
popolazioni Nuer del Sudan di cui l'antropologo inglese Evans-Pritchard
riporta la relazione intima di simbiosi per la quale "gli uomini e le
vacche formano un'unica comunità del più stretto tipo" e ogni forma di
macellazione costituisce evento religioso. La nostra messa a morte delle mucche
non ha più nulla di sacro o di sacrificale. Ce ne rendiamo conto accostando le
vacche celesti dei graffiti preistorici alle foto di questi giorni dove le ruspe
sollevano pesanti corpicini e li scaricano sui camion. Questa è la morte
"igienica" inflitta dalla zootecnia del Duemila: senza sangue, senza
vittime, senza sacerdoti, senza scandali. Per noi la mucca non è viva, non ha
corna, non ha cervello, non ha muggiti, non ha narici fumanti, non ha occhi
bianchi che riflettono la luna, non ha cuore. Per noi le mucche sono fettine
cellofanate, pallide apocalissi del supermercato. Non le mangiamo più e le
contiamo sui banchi freddi della nostra memoria, questa sì, impazzita.