"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
La domanda è fra le più sconvolgenti,
perché a volerla portare fino in fondo, si deve giungere a trovare il nucleo
della luce in uno splendore nero, anteriore al fulgore solare. Una torsione che
molte menti non vorranno mai compiere. Tanto che sulla luce le idee sono quasi
sempre confuse e contraddittorie. Esaminiamo ciò che sulla luce si è pensato in
Israele. La Genesi fa operare un Dio che all'inizio, per prima cosa crea la luce
di contro alla tenebra e la trova buona. Compare così la prima coppia di opposti
che lottando suscitano la realtà, ma essi sono anteriori alla luce che noi
vediamo, poiché il sole sarà creato soltanto al quarto giorno del Genesi. Dunque
la luce primordiale è anteriore a quella visibile, la tenebra primordiale
anteriore a quella che ci aggredisce e circonda la notte. La coppia lucetenebre
sarebbe, alla luce della Qabbalah tarda di Sfat, il primo segno che Dio ha
cominciato a ritrarsi su se stesso, lasciando uno spazio libero teso tra luce e
buio. La Qabbalah dirà che l'azione emanativa di Dio nel mondo si può anche
denotare come un'azione restrittiva che apre il mondo all'essere lungo due linee
distinte, una di luce, che ìrraggia via via sapienza, misericordia, vittoria,
un'altra opposta, di luce soverchiante, acciecante, che sembra nera, fatta via
via di conoscenza, violenza, gloria. A questo punto per il pio l'opposizione fra
tenebra e luce diventa apparente. La meditazione cabbalistica si concentrò sul
fuoco che arde un legno e distinse nella vampa la parte inferiore, la radice
nera che sta aggrappata al legname e lo divora per poi espandersi in un bagliore
rosso, il colore dei crepuscoli accesi, e infine affinarsi dal giallo al bianco,
quando scompare, diventa invisibile, ma bruciante. Su questo spettacolo
meraviglioso i cabbalisti hanno meditato nel secoli. Nella pratica ebraica c'è
una grande festa della luce che cade al Natale dei popoli circostanti in Europa,
il genetliaco del sole che fu poi attribuito al Cristo. Gli Ebrei la chiamano
festa della dedicazione, e non si concentrano sulle linfe che ora salgono nei
tronchi degli alberi, ma sul fatto che quando Mosè dedicò l'altare a Dio vi
scese dai cieli una luce che deflagrò. Per celebrarla si accendono candelabri o
lampade e sotto la loro luce nulla di profano si deve compiere.
Radicalmente diversa fu la concezione
della luce fra i cristiani. Davvero non si vede come possa conciliarsi il
dettato del Vangelo di Giovanni col Genesi. Per l'Ebreo Dio come potenza
creatrice pose i cieli e la terra informe, una distesa di acque tenebrose su cui
aleggiava lo spirito divino, quindi separò luce da tenebra, giorno da notte. Il
Dio di San Giovanni è consustanziale alla "parola", grazie alla quale tutto fu
fatto all'inizio e "in" essa era la vita che fu luce agli uomini e che le
tenebre mai hanno ricevuto. 1
teorici cristiani ne ricaveranno che Dio fosse trino, composto di un Figlio e di
uno Spirito oltre che di se medesimo quale Padre. La luce gli è intrinseca, non
è dunque creata. Fra l'ebraismo ed il cristianesimo c'è un contrasto violento,
il Dio di Israele crea la luce primordiale, anteriore al Sole, il Dio trino dei
cristiani ha in sé la luce come suo carattere essenziale. Alla fine del lungo
esercizio di conciliazione fra San Giovanni e Genesi la meditazione cristiana
culmina nel Paradiso perduto di John Milton. Il poema incomincia descrivendo
l'inferno dove sono precipitati gli angeli ribelli, un carcere orrendo, una
vasta fornace le cui fiamme tuttavia non spandono luce, ma diffondono una
"oscurità visibile". Che significa l'ossimoro? Forse qualcosa di simile
all'oscurità in cui si orientano i pipistrelli vaganti con i loro radar nella
notte? E' un'oscurità angosciata, la visione non vi si accende, le fronde non ne
traggono la loro verzura. Dopo i due primi canti, il terzo invece si apre con
un'esclamazione di festa, un'esplosione di luce: Hail holy light: Salve sacra
luce! La luce primordiale è sacra, primogenita, direbbe un seguace del Genesi
ebraico, ma un cristiano tenderebbe invece a vederla come un raggio coeterno
dell'Ewrno, poiché Dio è luce. Milton non osa decidere, la luce primordiale per
lui è of heavenfirst-born, primogenita del cielo, come aveva detto Roberto
Grossatesta nel Medioevo: la prima forma corporea, ma potrebbe anche essere of
th'Eternal co-eternal beam, raggio coeterno dell'Eterno, come si può già leggere
nella Sapienza, dove Dio è chiamato luce eterna. Dopo aver proposto le due tesi
contraddittorie, Milton fa una domanda curiosa, May I express the unbIamed?
Posso esprimere ciò che non è incolpato? E' un modo di domandarsi se possa
esprimere Dio e il primo atto creativo. 0 è anche un modo di suggerire che
soltanto l'incolpato si può esprimere? Continua il canto disteso sulla luce:
"Dio è luce e fin dall'eternità ha sempre dimorato nella luce inaccessibile,
effusione brillante di brillante essenza increata. 0 si preferisce sentir
parlare di una corrente eterea la cui sorgiva è indescrivibile? Prima del sole,
prima dei cieli tu luce fosti e alla voce di Dio avvolgesti come di un mantello
il mondo delle acque scure e profonde che sorse, strappata al vuoto infinito e
informe". Credo sia lecito e giusto affermare che la melodia maestosa di Milton
copre una confusione, sommerge nella sua piena lirica il contrasto insanabile
del Genesi e del Vangelo giovanneo.
All'inizio delle riflessioni cristiane
apparve un testo sublime, la Teologia mistica dello Pseudo Dionigi l'Aeropagita
e fu assunta tra i documenti fondamentali, da essa presero l'avvio le
innumerevoli meditazioni mistiche sulla luce nei secoli. Parte da Dio come
Trinità, cui si rivolge però col rigore di un metafisico ebreo, dicendo: "Tu sei
aldilà dell'essere, del divino, del bene". Ci costringe così in apertura ad un
regresso aldiqua di questi concetti sui quali siamo fondati; sbarazzati dei
quali, dobbiamo dire di trovarci dinanzi al nulla. Se siamo in grado di reggere
a queste spoliazioni, ci troveremo in una caligine lucente, in un
silenzio parlante. Lo Pseudo Dionigi dà per attinta questa condizione iniziatica
e aggiunge:" Quanto più fitta è la tenebra, tanto più risplende e altamente
irraggia; quanto più è impalpabile e invisibile, tanto più inonda di mirabili
splendori le menti senza sguardo per le cose sensibili". Si propone qui un'idea
di Dio come caligine raggiante, posta aldisopra dell'essere, né anima, né
spirito, né parola, né pensiero. Ma portandoci a questo livello, lo Pseudo
Dionigì non sta forse tradendo il testo giovanneo? Se Dio non è parola, se non è
luce, che rapporto avrà mai con quel Dio consustanziato di parola e di luce? In
realtà il Dio dello Pseudo Dionigi sfugge alle parole, alle nozioni, non è
tenebra e non è luce, semmai è tenebra lucente, luce nera. Lo Pseudo Dionigi
conclude: Trecisiamo infine quest'ultima cosa, né affermazione né negazione sono
degne di Lui. Che anzi, sia che si possa affermare, sia che si possa negare, noi
nulla affermiamo o neghiamo di Lui". Come dirà verso la fine della Scolastica
Nicola di Autrecourt, 'Uo è" e 'Uo non è" esprimono lo stesso significabile,
alterando soltanto i significanti ('V', "non é"). Quale assurdo, a questa
altezza metafisica, parlare della luce di Dio! Eppure perfino della luce nera
ben pochi mistici nei secoli osarono mai parlare. Fu interessante nella
Cristianità la sopravvivenza di una nozione di luce ereditata dall'esoterismo
antico: la luce sarebbe il quinto elemento dopo terra, aria, acqua, fuoco e
avrebbe un carattere seminale, procreativo e compaginante, servirebbe a
connettere l'anima al corpo. Questa luce che è seme, etere, forza connettiva
sarebbe sepolta nella materia, da cui l'alchimia si sforza di estrarla. Roberto
Grossatesta ne approfondi il concetto: la luce illuminante è un punto inesteso,
ma emana e forma una sfera, per poi n'tornare nella sua inestensione, le cose
del mondo sono materia che partecipa a questa prima forma esemplare in vario
modo e gradatamente. Dalla sapienza antica giungeva la dottrina platonica, che
faceva precedere la luce visibile da quella intelligibile, che i neoplatonici
facevano coincidere con l'uno. Da questo promana la luce solare, come lume da
lume. Il mondo antico insegnava dunque a orecchie non sempre aperte che
anteriore alla luce che illumina il mondo esiste una luce mentale, nera.
Ma per intendere il pensiero occidentale
sulla luce occorre andare dietro al pensiero greco, esplorare i detti dei libri
sacri iranici, impostati sull'idea che da un re sacro emani una luce abbagliante
che fa tutt'uno col suo destino glorioso, con la sua qualità di vincitore, una
luce che fa trionfare, come la futura Nìke greca, dominare, come il futuro
Michele cristiano, fa vedere tutto ciò che nel mondo accade. Non è la luce che
scende dal sole o dalla luna, questa emana direttamente dal cuore del sovrano e
gli circonda la testa, si chiama xvar na parola legata a hvar, sole. Ritroviamo
la stessa radice indoeuropea suel nel sanserito, nella parola svar, e nell'India
troviamo la spiegazione più accurata della luce e della sua genesi. Esiste una
luce visibile, che irraggia il giorno, ma esiste una luce
più fina, che proviene dalla mente stessa e delinea le figure dei sogni
notturni. Questa è la luce più intrinseca all'uomo, anteriore all'esterna. Se la
realtà visibile è un'illusione, un sogno, la sua luce sarà meno reale di quella
dei sogni veri e propri. La Brihadaranyaka Upanishad (IV 111) spiega che
l'intelletto emana l'essenza della luce come puro fulgorejyotih e in essa sta
l'essere, atman. A distanza di millenni queste riflessioni ci appaiono ancor più
evidenti: sappiamo che onde (un'esigua frazione dello spettro elettromagnetico)
lambiscono il cervello, che le trasforma in immagini. Fuor della mente esistono
soltanto queste onde minime che registriamo sulla retina, ma la luce proviene da
noi. Sicché la luce che traccia le figure del sogno è anteriore ontologicamente
alla luce che delinea la realtà della veglia. La luminescenza del sogno è la
prima forma della luce. Al sommo si deve porre l'intelletto puro o lume nero,
che si esprime proiettando il lume dei sogni prima e poi la luce diurna
esteriore. La Kena Upanishad dice che l'essere creatore, brahamn è un lampo, un
batter di palpebre. Nella Brihadaranyaka Upanishad il re discorre con un
sapiente ed estrae nel più semplice dei modi la dottrina della luce. "Qual è la
luce che muove l'uomo?", domanda, e il saggio risponde prima il sole, e quando
esso manchi, la luna e quando anch'essa manchi, un fuoco acceso. Ma senza
nessuno di questi lumi esterni e visibili, da che cosa sarà mosso l'uomo? Da un
discorso che gli dia luce. E quando non ci sia nemmeno un discorso? liuomo si
reggerà nel buio e nel silenzio, mercè il suo semplice essere, che è la luce
coinvolta nei soffi che lo reggono, emananti dal cuore dove la luce cova
nascosta (IV, 3, 1-7). Una luce nera. Ancor prima di queste dimostrazioni
filosofiche c'era stata la verità vedica, espressa in forme mitiche, ma profonde
e ancor oggi vive nei riti quotidiani dei fedeli indù. Giorno e notte erano
vedicamente due aspetti del cosmo, che si unificavano nell'Androgino o Torovacca,
l'Intermedio che fu emanato dalla voce divina. Il cosmo è retto da una colonna
che si esprime col nome di Aum e nella forma della luce come occhio e fuoco
uniti. Nome e forma sono due principi che reggono ogni realtà. Meditando sul
nome Aum si comprenderà dunque il significato della luce. 1 trattati di
meditazione insegneranno questo esercizio: ci si concentri sul proprio cuore
immaginandolo come un loto inclinato. Si opererà su questa forma, sollevandola,
e quindi guardandole dentro. Dovrà emergere dal suo cuore la luce. Si vedrà al
centro la lettera A, il disco solare, la veglia; approfondendo la lettera U, il
disco lunare, il sogno; approfondendo ancora la lettera M, il sonno senza sogni.
Ma chi medita a fondo procede aldilà di questa triade, fino a quella che si è
chiamata una catalessi, una consapevolezza nel sonno, uno stato di liberazione e
nel loto del cuore si dovrà vedere il vago mormorio, l'estinguersi della M, la
luce nera. Costante ritroviamo la scoperta di questa luce nera aldisotto dei
fulgori diurni nella tradizione greca, in quella indù, ma anche nella filosofia
persiana, dove nei secoli si è svolta con precisione incantevole e Henry Corbin
la seppe esporre ad un Occidente ignaro e confuso.
E' come se la xvar nah dei tempi zoroastriani si trasmettesse ai filosofi
dell'epoca islamica: Qotboddiri Shirazi chiarnerà xvar nah la luce che dalle
Intelligenze immateriali scende nell'anima mercè gli esercizi spirituali svolti
con la volontà ferrea di attingere i piani soprannaturali dell'essere. Questa
luce attinta nella meditazione è un elisir, è il nimbo dei re antichi, è la
folgore divina. La tradizione islamica era fondata su un raptus coranico ìntorno
alla luce, alla sura XXIV: "Dio è la luce dei cieli e della terra e si
rassomiglia la sua luce a una nicchia in cui è una lampada e la lampada è in un
cristallo ed il cristallo è come una stella lucente e arde la lampada dell'olio
di un albero benedetto né orientale, né occidentale, il cui olio per poco non
brilla anche se nessun fuoco lo tocchi. E' luce su luce".
Al Ghazali scrisse un sublime trattatello su questo passo, interpretando la
nicchìa come la sensibilità dell'uomo, la lampada come lo spirito profetico e il
fuoco come lo spirito divino, mentre Dio soltanto è in se stesso luce. Quando
questa luce scende nel cuore sfolgora la lampada. Il cristallo è
l'immaginazione, che va purificata e corretta finchè diventi pura trasparenza
immaginale degli archetipi. I: albero è lo spirito ragionante e l'olio che se ne
trae è lo spirito profetico. Impregnato da Plotino, Al Gliazali afferma che la
parola luce data a cosa diversa da Dìo è una pura metafora senza realtà. Ma la
prima accezione, volgare, dì luce designa ciò che è visibile e rende visibili
altre cose, come sole, luna, fuochi; la seconda accezione, propria di chi abbia
elevatezza, designa la facoltà visiva. Ma cè una terza accezione, la più
veridica, per cui la luce è la facoltà intellettuale, che tutto vede. U occhio
merita la parola luce più della luce, l'intelletto ancor più dell'occhio (e luce
è Dio!). Forse fu Sohrawardi il filosofo che ne seppe parlare con la massima
precisione e poesia, specie nel Racconto dell'arcangelo imporporato. "Dov'è la
fonte di vitaT' Egli si domanda, e risponde: - Mettiti i sandali di Elia profeta
e avviati fiducioso là dove si ha piena coscìenza della tenebra. Quando di
tenebra sarai tutto circondato e serrato, quando sarai confitto nella notte,
avrai fatto il primo passo. Seguiranno stupefazioni e strazi, poichè da questo
punto di vista la realtà si capovolge. Ma alla fine attingerai la fonte e lì
scorgerai il lume. Non scappare, ma bagnati ìn quella luce, Dopo non potrai più
essere colpito o insudiciato. Immergiti in quella luce e dirai: "Dinanzi a me le
letture si allontanano Presso di me i sensi si aguzzano". Si potrebbe recitare
anche un altro passo di Sohrawardi: "Eleva la salmodia della luce, Soccorri il
popolo della luce, guida la luce alla lucC. Infinito tema è questo della cerca
nella tenebra. Lo riprese Najmí Kobrá, Egli esorta a chiudere gli occhi e a
vedere così la luce. Dice: Tuoi vedere, ma l'oscurità della tua natura ti sta
così addosso che ti impedisce la vista interiore. Se vuoi vedere la luce tenendo
gli occhi serrati, comincia con l'allontanare o diminuire qualcosa nella tua
natura". Occorre lottare nel farlo, salmodiando, finchè si vedrà la nube nera
del male diventar rossa e infine sbianchire. Alla fine sfolgora una luce verde,
la luce smeraldina della conoscenza, emanante dal cuore. E' la stessa luce
d'origine cordiale di cui ci parla il buddhismo himalayano, concretandola in una
figura di fanciulla sfolgorante, la Tara verde, traghettatrice verso la
liberazione. Un allievo di Kobrá, Najm Rázi (nato nel 1256) parlò più a lungo
dei colori accesi nella vista interiore. Prima è il bianco dell'abbandono, poi
il giallo della preghiera, il turchino della benevolenza, il verde dell'anima
pacificata. E' forse lo stesso verde dì cui parlava come termine ultimo
dell'ascesa Kobrá; ma Rázi aggiunge dopo di esso la luce glauca della certezza e
la rossa dell'intelletto attivo, divino. Infine giunge alla luce nera, alla
settima tappa, la suprema, dell'amore estatico, al fondo entusiasta e urlante
dell'anima. Nera è la maestà che incendia e annienta, dìce Rázi, la suprema
teurgia, l'aldilà dei sei colori, della bellezza, il sublime che fa esistere, in
cui pullula la fonte della vita. Lahiji nel Roseto del mistero insiste
sull'annientamento di noi stessi che avviene nel nero smagliante, nella notte
fonda e abbagliante, nel mezzogiorno tenebroso. Sarà superfluo citare le notti
mistiche dell'Europa secentesca, che propongono la stessa verità: dal nero
assoluto sprigiona ogni luce, prima del sogno, quindi della realtà. Per
raggiungere questo luogo spirituale supremo, occorre fare un viaggio pericoloso.
Osò parlarne con la massima precisione Ibn 'Arabi, dicendo che per farlo si deve
diventare animali: spogliarsi della ragione umana e ridursi alla percezione
della fiera, soltanto a questo patto si avrà la visione degli archetipi supremi.
In Ibn 'Arabi è consegnato ad una pagina delicata e sottile il messaggio
ripetuto con costanza in tutte le civiltà sciamaniche. E' un messaggio che
s'intreccia a quello che ci arriva dagli sciamani Iglulik del Labrador, che,
Rasmussen riferisce, si isolavano nella tenebra in attesa che la luce erompesse
dal loro interno, e sapevan tramutarsi nelle varie belve della loro terra e del
loro mare. E' lo stesso messaggio che ci lasciano i romitì tibetani sequestrati
ìn stanze buie in attesa dì scordare la differenza tra tenebra e luce,
concentrandosi sulla luce emanante dalle proprie viscere. Lo stesso messaggio
infine emerge dai maestri taoisti, intenti a far fiorire fl loro addome, a farlo
accendere di lumi. Così essi interpretavano il detto di Lao zi:"Riempi il ventre
e svuota il cuore", Visitavano nella fantasia paradisi dove gli alberi di vita e
le acque cristallline fornivano cibo e bevanda da tramutare il nero ventre in
mille luci, assorbivano gli effluvi degli astri, finché il fegato produceva un
ragazzo vestito dì verde, legato agli occhi; il cuore, legato al sangue, un
ragazzo vestito di rosso; i polmoni ed il naso un ragazzo vestito di bianco; la
milza legata a digestione ed escrezione un ragazzo vestito di giallo; la
cistifellea legata al vigore dei soffi un ragazzo vestito di ogni tinta, un
arlecchino; i reni infine, al fondo del corpo, un ragazzo vestito di nero. 1
maestri taoisti insegnavano anche ad assorbire i raggi del sole, facendoli
scendere nei piedi e salire alla testa, fino a restame
arrossati in volto, simili ad un astro. 0 facevano scendere il soffio solare del
cuore, salire quello lunare dei reni e li fondevano insieme.
Abbiamo colto cenni al culto della luce
nell'occidente diviso tra la tradizione ebraica e la cristiana e poi nei vari
mondi, il persiano, l'ìndù, il cinese. Dovunque emergono delle verità
universali, da tutti riconosciute per poco che la mente abbia meditato a fondo.
La luce è un'illusione, sia l'esteriore, che ogni crepuscolo ci toglie in un
bagliore rossastro, sia l'interiore che disegna le immagini del sogno e della
meditazione profonda nella mente. Ma se si accetta la tenebra totale e ci si
immerge in essa, si vedrà finalmente la sua luce nella fonte della vita, dice
l'immaginoso Persiano. In parole diverse ripetono unanimi questa sequela gli
sciamani, i sapientì ìndù e i maestri platonici.