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1. Professor Zolla, qual è la strada che l'ha condotta dall'americanistica, da Lei insegnata, alla frequentazione, così intensa e significativa, dell'India? Potrei rispondere che la cultura americana sia legata fatalmente all'India fin dagli inizi, fin dalla prima metà dell'Ottocento, quando arrivò in America un indiano che adattò l'Induismo all'atmosfera inglese, accolto dagli Americani come un grande propugnatore dell'unitarismo, la grande novità religiosa di quegli anni. Da allora poi si sviluppò il pensiero di tutti quegli Americani impegnati nell'esplorazione dell'India come, per esempio, Emerson. Ma sarebbe una risposta falsa, puramente culturale, poiché non c'è un rapporto fra il mio interesse per la letteratura americana e il mio interesse per l'India. Senza accorgermene avevo scritto parecchi saggi sulla letteratura americana sicché, quando si liberò un posto all'Università di Roma, mi trovai a insegnarla. Dunque fra i due settori non ci sono rapporti, per me. L'India appartiene a un discorso molto più vasto di quello nel quale si include lo studio della letteratura americana. Nella cultura indiana ho trovato la risposta alla mia esigenza di conoscere una filosofia perfettamente razionale, ma non nel senso meschino dell'Illuminismo europeo, bensì nel senso più pieno: capace di dare risposte, fondate esclusivamente sulla coerenza logica tra i concetti, alle domande fondamentali che sorgono in cuore a chiunque osservi la vita. Ovvero: «Che cos'è la realtà?»; «Che cos'è l'io?».
2. In cosa consiste la «Liberazione in vita», di cui parla nel suo libro Le tre vie? Com'è possibile rinvenire all'apice del sistema di conoscenza indiano un concetto come questo, che prevede l'abolizione della conoscenza stessa? La «liberazione» non consiste nell'esclusione della conoscenza: è la conoscenza portata al suo fine ultimo, cioè a una totalità nella quale non c'è più bisogno della tecnica concettuale. Il fatto di essere andati oltre la tecnica concettuale, per intuire direttamente la realtà, per fondersi nella realtà, per non distinguere più fra l'io e il soggetto d'osservazione, non significa rinunciare alla conoscenza. Significa goderne pienamente, perché rinunciare alla tecnica che occorre per ottenere un oggetto, non vuol dire che non si abbia più la padronanza dell'oggetto. Definire cos'è la «liberazione» è, a un tempo, molto facile e molto difficile. È facile definirla perché chiunque ha esperienza della liberazione almeno due volte al giorno: quando si sveglia e quando si addormenta. Infatti il momento in cui, cessando l'attenzione della veglia si trapassa nel sonno, e il momento in cui dal sonno si esce e si riaffronta la veglia, rappresentano un'intercapedine fra i due ordini dell'esistenza nella quale si è perfettamente liberi, poiché non si è soggiogati dalle leggi della coscienza di veglia, né si è nell'ignoranza del sonno. È ben altra cosa riuscire ad espandere questo spazio, cioè riuscire ad allargare nel pieno della giornata questa libertà di cui si è goduto per un frammento di istante. Per ottenere ciò si può anche sacrificare tutto. Un indù pio, in genere, sogna di poter partire un giorno, tanto da considerare tale partenza l'apice della sua esistenza. Ancora oggi, in India, capita di assistere a uno spettacolo straordinario, rappresentato dal momento in cui un uomo che ha avuto grandi cariche, che ha avuto una parte importante nella vita della comunità, dopo aver messo al mondo un certo numero di figli e aver provveduto al loro avvenire, decide di lasciare la vita laica: dunque si sveste, si copre con abiti molto semplici, si allontana dalla famiglia e si rifugia nella foresta. Questa non è il luogo pauroso che ci si potrebbe immaginare, ma è un luogo in cui tutto è a disposizione: se si ha bisogno di mangiare, si fa cadere una noce di cocco, o si spacca un altro frutto; c'è l'acqua da bere che scorre. Finalmente isolati da tutti, si può meditare e ci si può effettivamente liberare: questo è il fine della vita di un indiano. Altri uomini, invece, decidono di liberarsi subito, quindi si staccano prima dalla famiglia ed entrano nella condizione di asceta o sadhu. In India è possibile incontrare molti sadhu che si dedicano a una vita errante o che si stabiliscono in un determinato luogo. Alcuni sono soltanto dei truffatori, altri no: basta guardarli negli occhi per accorgersi immediatamente che hanno raggiunto quella «liberazione» difficile da definire. Tuttavia è possibile attingere al significato di questo concetto anche attraverso un'analisi linguistica del termine: «Liberazione» in sanscrito si dice «Moksha»; l'origine indoeuropea di tale parola è «Meuk», termine che indica tutto ciò che scivola su un terreno troppo liscio, troppo piano. Pertanto, se si va alla ricerca dell'origine di questa parola, si arriva a concepire la liberazione come lo scivolare lieve di un danzatore.
3. Quali sono le tre vie indiane che portano alla liberazione? La prima è la via della conoscenza. Tale via si attaglia all'uomo privo di fede che si fonda solo sul modo della conoscenza, nel modo più puro e rigido. Si distanzia dai propri sentimenti, fondandosi solo sul ragionamento, sulla valutazione, senza alcun elemento di disturbo. Chi percorre questa via riesce a modificarsi seguendo la propria ragione, la conoscenza pura. Il sistema più perfetto basato sulla conoscenza si chiama «Advaita Vedanta» «conoscenza non duale»; la dualità è la formula entro cui l'uomo percepisce l'esistenza, come bene-male e maschio-femmina. Per tale filosofia questo modo di percepire è falso poiché non esistono dualità: tutto va visto triadicamente, ossia la saggezza indiana invita a introdurre un terzo termine che medi fra i primi due, opposti: così la realtà comincerà a essere più duttile e vera, partendo dal presupposto che la verità non si lascia ingabbiare tra due opposti. Le dualità, quindi, non attengono al funzionamento della ragione, alla logica che lega i concetti. Esiste un'altissima logica indiana, forse resa ancora più perfetta dai grandi logici buddhisti: su questa logica si basa la via della conoscenza. Ma la maggior parte degli uomini non si appaga della conoscenza e vuole rispondere ai propri sentimenti, quali che siano. Esiste un'altra via di liberazione che consiste nello spingere alla massima intensità i propri sentimenti: ciò si ottiene volgendo quelli d'amore verso un dio, fino a smarrirsi, ad esistere solo nell'adesione al dio: è la via della «devozione», o «bhakti», nata grazie ad alcuni poeti del Tamil, per diffondersi in tutta l'India: ogni regione e ogni lingua dell'India ha una letteratura bhaktica, devozionale, paragonabile alla letteratura e alla via mistica europee. La terza via è considerata «ereticale» dal più degli indù: la via «tantrica», le cui prime testimonianze di pose risalgono addirittura al 3000 a. C.. Negli scavi di Mohenjodaro vennero rinvenute delle statuine di uomini seduti sui talloni uniti premendo sul perineo per produrre una condizione fisica usata nel Tantra per determinati fini. La pratica tantrica prevede anche uno yoga, diverso dal classico, fondato sull'idea essenziale per cui si ottiene la liberazione facendo svolgere il nodo del serpente avvolto intorno al coccige. Questo serpente, chiamato «Kundalini», incarna tutti i sentimenti fondamentali e inconsci dell'uomo, sentimenti fonte di un'energia quasi soprannaturale che si può scatenare grazie agli esercizi di questo yoga. Si tratta di contratture violente dell'addome, spingendo con forza nella direzione dove si suppone sia avvolto il serpente, sì da scatenarlo. In tal modo il serpente si ergerebbe lungo la colonna vertebrale fino al cervello, trasformando radicalmente l'uomo, che attingerebbe la liberazione. Il Tantra prevede anche degli accoppiamenti rituali che avviano alla suprema liberazione. Tali rituali hanno luogo tra il maestro e una o più donne: l'uomo dovrebbe riuscire, nel momento supremo dell'avvitamento tantrico, a proiettare all'interno dell'uretra il flusso del seme, dando luogo a un'intima trasformazione. Non si tratta, comunque, di una pratica puramente maschile, poiché la donna ha il primato nel Tantra, in quanto è lei a guidare il rito. Il Tantra prevede anche un abbandono completo di tutte le leggi morali, compresa la divisione in caste, tanto che veniva praticato in segreto, in templi oramai abbandonati. Questa è la terza via predisposta per l'uomo che non rientra nella società, animato da sentimenti troppo violenti per potersi inquadrare nella vita civile, ma capace di una profonda filosofia. Non è un caso che Abhinavagupta, uno dei massimi metafisici indiani dell'XI secolo, fosse un maestro di Tantra.
4. In India la liberazione è unica o triplice e differenziata come le vie che a essa conducono? Il concetto indiano di liberazione sembra retrocedere dall'esperienza fino a una dimensione che pare assomigliare alla appercezione kantiana: a Suo avviso, esiste qualcosa di analogo al concetto indiano di liberazione nella metafisica occidentale? In India la liberazione è unica e si definisce in termini uguali in tutti e tre le situazioni, anche se nel caso della via devozionale la liberazione avviene attraverso la finzione della divinità che viene a soccorre il devoto. Dunque non esiste un ripartizione per gradi: non si può dire, per esempio, che chi conosce puramente sia superiore a chi si profonde in devozione o a chi pratica il Tantra. Quando si considera la liberazione, si arriva a un piano sul quale questo tipo di suddivisioni cade. D'altra parte è vero che, in un certo senso, la filosofia indiana insegna a distinguere, a scegliere, perché invita o all'assoluta conoscenza o all'assoluta devozione o al Tantra, in quanto non esiste una scuola filosofico-religiosa che avviluppi tutte e tre le possibilità. Personalmente ritengo che non ci sia un occidentale che abbia definito con precisione la liberazione, tuttavia sono stati formulati dei concetti abbastanza prossimi dai grandi metafisici religiosi tedeschi che hanno distinto fra l'Urgrund e l'Ungrund. L'Urgrund è infatti il fondamento primordiale dell'esistenza, che è distinto ed è inferiore all'Ungrund, cioè al non fondamento. In questa prospettiva chi parte dall'Ungrund, cioè dalla mancanza di fondamento, si trova assai prossimo al concetto di liberato in vita. Quindi un grande mistico come Meister Eckhart è indubbiamente prossimo al concetto di liberazione indù. Infatti, quando egli si spinge al di là dell'idea di Dio, si trova esattamente dove si trova il liberato in vita. Al contrario, ritengo sia un errore vedere una somiglianza fra la appercezione, l' «Io penso» e la liberazione indiana, perché la liberazione va al di là dell' «Io penso», passa da un tempo determinato all'infinito, toglie di mezzo l'essere e arriva al vuoto. Di vie occidentali alla liberazione ce ne son poche e discutibili: ritengo che Meister Eckhart sia quello che si è avvicinato di più a un apprendistato liberatorio; vi sono inoltre alcuni passi di Antonio Machado che sono andati assai vicini a enunciare la condizione del liberato. Perfino le pagine straordinarie di Heidegger nel libro su Nietzsche, dove parla dell'eterno ritorno, pur avvicinandosi alla definizione di liberazione, non mi persuadono, così come non sono persuaso da William Blake, il quale parla del superare le dualità nell'avvicinarsi al divino.
5. A Suo avviso anche la medicina indiana, l'Ayurveda, concorre all'instaurarsi dello stato di liberazione? L'Ayurveda è un sistema di medicina e di farmacia completo, assai affine all'alchimia occidentale, in quanto è fondato sull'idea di liberazione. Il fine ultimo dell'uomo è anche il fine della medicina, ovvero la medicina non avrebbe senso se non si proponesse di far giungere l'uomo alla liberazione. Senza questa chiave non credo che si possa avere una cognizione precisa dell'Ayurveda. L'Ayurveda, dunque, è costituito da un insieme di insegnamenti. C'è, per esempio, un insegnamento molto preciso sul massaggio, che ha una funzione e un'importanza enorme in India. Non è un caso che uno degli insegnamenti che impartisce la madre alla figlia, quando deve sposarsi, è proprio come massaggiare l'uomo, fino a trattarlo come un serpente da snodare. C'è poi la farmacopea, la parte che più mi ha affascinato dell'Ayurveda, perché entrare in un laboratorio farmaceutico indiano è come entrare in quei vecchi laboratori alchemici europei che oramai non esistono più, fatta eccezione del castello di Heidelberg. Invece in India qualunque laboratorio farmaceutico è un luogo di meditazione, dove i metalli vengono lavorati in maniera sorprendente. Marco Polo afferma che i «Bregomanni», i Brahmani, non prendono quasi cibo, salvo che una volta al mese, quando assumono una mescolanza di zolfo e mercurio: tali sostanze sono veleni, ma trattati da un grande farmacista ayurvedico possono divenire fonte di salute. Per quanto si potrebbero avere dei dubbi in proposito, è pur vero che vi sono dei recenti studi, registrati sull'annuario delle ricerche mediche in Europa pubblicato ad Amsterdam, sulla capacità del mercurio, assunto non in dose velenosa, di produrre un aumento dell'immunità. I metodi per togliere la velenosità al mercurio sono molto complicati e durano molto tempo; probabilmente erano noti all'alchimia europea praticata ancora nel Seicento, mentre in India sono, ancora oggi, una pratica quotidiana. In India, per seguire un corso di Ayurveda all'Università, bisogna anche frequentare il dipartimento di Rasa-shastra, ovvero di alchimia: un sogno che in Europa si è cessato di coltivare da qualche secolo.
6. Molti studi sull'India, quali quelli di Malamoud, concordano nel riconoscere l'importanza dell'alimentazione nell'attingimento della consapevolezza, dell' «Io sono indù». Secondo Lei, in India, in quale misura la dieta contribuisce alla definizione della persona? Il cibo in India ha un'importanza maggiore che in Occidente in quanto definisce la persona, perché la persona è la sua dieta. I ristoranti più incantevoli che si possano frequentare in India, sono quelli dei bramini. In tali locali, dove è esclusa la carne e il pesce, si mangiano soltanto verdure trattate nei modi più fantastici. Ma i bramini rappresentano soltanto una parte della popolazione: altri non potrebbero mai nutrirsi a questa maniera. Ad esempio un guerriero, uno ksatriya, ha bisogno di energia, di forza e quindi di pimenti violenti e carni robuste. Egli dunque vive in un altro mondo perché segue un'altra dieta. Un agricoltore o un mercante, invece, non hanno bisogno di dedicarsi allo studio, né di irrobustire il corpo per combattere in battaglia; il loro fine è la voluttà, la voluttà più semplice, quindi si nutriranno di quella gran festa di cibi che viene ammannita nei comuni ristoranti indiani. Quindi in India sussiste, attraverso il cibo, una ripartizione dell'uomo che segue la ripartizione di natura.
7. Malamoud parla del pensiero indiano nei termini di un pensare rituale. Ma gli Indiani, oggi, come vivono il lavoro in accordo con questo pensare rituale? Entrando in una qualsiasi casa è possibile acquisire le chiavi dell'anima indiana. Si tratta infatti di piccoli reami, di case-tempio, dove la donna e l'uomo collaborano strettamente a eseguire certi rituali, semplici nelle case delle caste inferiori e sempre più elaborati allorché si arrivi nelle case della casta bramina. In accordo con questo pensare rituale, il lavoro è intonato ai riti che si compiono. Per esempio, il rito bramino prepara al lavoro tipico di tale casta, ovvero lo studio, cosa che, d'altra parte accade anche agli Ebrei, i quali pensano che lo studio sia alla base della vita. L'Ebreo ricco, infatti, si attiva per mantenere coloro che si dedicano esclusivamente allo studio, mentre l'Ebreo povero segue il consiglio di colui che ha dedicato la vita allo studio. Allo stesso modo, anche lo studio degli Ebrei è molto simile a quello dei bramini, in quanto è basato su un testo, sull'analisi esasperata di quel testo e sull'esecuzione di certi riti che risalgono a quel testo. Ogni lavoro, alla fin fine, in India, è qualcosa di più di una semplice esecuzione di un'opera manuale. Anche il lavoro più umile, come la fabbricazione d'un mattone, si può intendere come un lavoro che congiunge la terra all'acqua, che dunque riesce a manipolare gli elementi. Pertanto, in ogni attività c'è un riscontro intellettuale, che diventa anche un riscontro religioso, perché in essa ha luogo una comunicazione con gli dèi che presiedono a tale lavoro. Quindi c'è sempre una trasfigurazione della realtà immediata, della realtà manuale. Fino a che punto poi ciascuno si immerga in questa trasfigurazione, è un discorso molto complesso. Ma un esempio lo si può trarre semplicemente dal passato stesso dell'Europa. È difficile dire fino a che punto il traghettatore europeo si pensasse come san Cristoforo, il traghettatore della leggenda cristiana: tuttavia è probabile che si trattasse di un'esperienza viva, che il traghettatore riscontrava, in maniera intuitiva, osservando gli affreschi sulla parete della propria chiesa.
8. La mortificazione e l'estasi sembrano caratterizzare, anche oggi, la religiosità indiana, compresa quella più popolare e spontanea. È così? Osservando un rituale indiano, ci si trova di fronte a comportamenti che eccedono la nostra esperienza di Europei come, per esempio la facilità con cui gli Indiani in pellegrinaggio, a un certo punto, si mettano a rotolare verso il tempio. Si tratta di un'esperienza lontanissima da quello che si poteva ancora percepire, per esempio, negli Abruzzi raccontati da d'Annunzio. Un tempo, a Benares, ci si rotolava con furia, con rapimento, fino a farsi troncare su una mannaia la testa, che veniva poi gettata nel Gange. Finché gli Inglesi non lo proibirono, durante le grandi feste dell'Orissa, la gente si buttava, nella furia del rapimento, sotto le ruote dei carri che portavano le effigi degli dèi. Tuttavia, attualmente, rimangono tracce molto vivaci di questo passato. Colpisce soprattutto la facilità all'estasi delle folle indiane. Tale estasi si potrebbe definire come un movimento dell'uomo, il quale è talmente attratto dalla visione che lo circonda, fino a immedesimarsi in quella, fino a non distinguersi più e quindi a raggiungere l'abolizione dell'io. Osservando un Indiano in estasi, si nota l'occhio che si ritrae dietro la palpebra e un lieve tremito delle membra. Ciò è possibile notarlo perfino ai concerti, dove accade spesso che, a un certo momento, le fanciulle allunghino le braccia e le facciano tremare, mantenendo gli occhi sperduti, senza pupilla.
9. Qual è il rapporto con gli elementi naturali nell'India di oggi? In India, di fatto, vi è una classe che non diverge per nulla dalla classe che si incontra per le strade di Londra o di Edimburgo: quindi, il rapporto di tale classe sociale con gli elementi della natura è lo stesso di quella europea. Forse è nella vita di villaggio che c'è una maggior facilità a tener conto degli elementi, a immergersi in essi. Tale immersione avviene perché non c'è quella fiducia, che gli Occidentali danno per scontata, nell'io: l'Indiano sembra infatti più facilitato a evadere dall'io, a non distinguersi dall'acqua che scorre, dalle nuvole che fluttuano nel cielo o dai venti che colpiscono la pelle. C'è una sorta di comunicazione naturale con la natura, che cancella il lavorio della mente; questo è possibile notarlo facilmente osservando la gente che guarda uno spettacolo naturale, come lo scorrere delle acque di un fiume o addirittura le onde del mare. L'acqua, inoltre, è un elemento religioso. Per gli Indiani, infatti, le acque possono purificare, possono cancellare i peccati. Questo è il mistero dell'acqua del Gange, l'acqua più torbida, più motosa, che io abbia mai visto e che, tuttavia, per gli Indiani è la fonte di purificazione massima.
10. Qual è la differenza tra il modo indiano di trasmettere e di ricevere la cultura e quello occidentale? Nella trasmissione indiana della cultura c'è molta più forza rispetto a quella occidentale. L'indù, fin da bambino, partecipa alla celebrazione dei riti della casa e quindi entra nel mondo vedico. Questa partecipazione a una vita rituale non è frequente in altri Paesi. L'Indiano entra nella tradizione già a un anno, quindi non c'è quella distanza, fra la natura dell'uomo e la sua educazione, che si è in qualche modo imposta in Occidente. Nelle scuole dei villaggi indiani i bambini prestano all'insegnamento un'attenzione diversa rispetto a quella dei bambini occidentali. Infatti, in tali scuole l'insegnamento consiste semplicemente nell'accostarsi a una persona più adulta, più capace, come è sempre stato nella storia. In Occidente, invece, c'è una scuola che schiaccia il bambino, che reprime quasi tutti i suoi istinti più vivaci, tutte le sue tendenze più naturali. Questo vuol dire che, in Occidente, i bambini, per lo più, vengono assassinati dalla scuola. Dopo aver spiegato i motivi del fascino che esercita su di lui la cultura indiana, Elémire Zolla chiarisce il significato dell'espressione «Liberazione in vita», che consiste di fatto nella conoscenza portata al livello più alto; per chiarire il concetto, Zolla ricorre all'esperienza induista e all'etimologia della parola «liberazione» che in sanscrito è «moksha», dalla radice indoeuropea «meuk» che indica ciò che scivola su un terreno liscio. La liberazione si raggiunge seguendo tre possibili vie: la via della conoscenza, fondata sulla negazione della dualità e sull'introduzione di un terzo elemento, mediatore tra i due opposti; la via devozionale, che comporta una scelta di piena adesione con una divinità; la via tantrica, considerata «eretica» da gran parte degli indù, che prevede la pratica di esercizi yoga e di rituali di accoppiamento che consentono il raggiungimento della liberazione. Queste tre vie si escludono a vicenda, ma hanno pari dignità. In Occidente nessuno ha formulato concetti prossimi a quello indiano di liberazione, fatta eccezione per Meister Eckhart. Anche la medicina indiana, o ayurveda, affine all'alchimia europea del passato, rimanda al concetto della liberazione in vita. Anche l'alimentazione assume un aspetto fondamentale, in quanto il cibo definisce la persona: oltre alla rigorosa dieta vegetariana dei bramini, esistono forme alimentari complete di carne e pesce destinate, per esempio, alla casta guerriera o scelte per pura voluttà da altre classi, come i mercanti. Anche all'interno della casa, indipendentemente dalla casta di appartenenza, si ritrovano determinati rituali presenti anche nell'attività lavorativa; infatti, qualsiasi lavoro è una forma, più o meno complessa, di comunicazione con gli dèi che presiedono le varie attività. Zolla si sofferma sugli asopetti più forti del misticismo indiano, accennando a rituali e forme estatiche addirittura vietate dalle autorità britanniche per la loro cruenza. Per quanto riguarda il rapporto con gli elementi della natura, forme di una più genuina identificazione con questi, sono facilmente visibili lontano dalle grandi città; ha particolare rilievo l'acqua, l'elemento purificatore per eccellenza. In conclusione Zolla accenna all'educazione dei bambini indiani, che partecipano fin da piccoli alla celebrazione dei riti.
Da: http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=83
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