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L'esperienza sciamanica alle origini della spiritualità d'Occidente di Elémire Zolla
Peter Kingsley nacque nel 1953 a Londra, dove studiò al Warburg la Grecia arcaica. La sua mente fu attratta da Elea, la nemica di Atene, affine ai Persiani. Per lui Atene è il punto di degradazione della Grecia sciamanica primordiale, scoperta da Meuli. Nel 1996 usciva dalla Oxford University Press il suo Ancient Philosophy, Mistery and Magic; prima si era dedicato, fin dal 1993 sul "Journal of the Warburg and Courtal Institutes", a ricerche sul Pimandro e l'ermetismo, perseguiti fino alla Turba philosophorum. Aveva raccolto e rimediato gli studi di S. Dalley (The Legacy of Mesopotamia, Oxford 1998) di Burckert, Pugliese Carratelli, Colli e Torelli. Il "Museum Helveticum" fu la rivista più considerata, a partire da Meuli. Kingsley è adesso emigrato in Canada, dove insegna, nella Columbia Britannica, alla Simon Fraser University. Memorabile tra le sue opere è In the Dark Places of Wisdom, tradotto per Marco Tropea da Silvia Laria come Nei luoghi oscuri della saggezza, redatto in uno stile brevissimo, profetale. Incomincia cosi: "Questo libro non parla di fatti reali o di storie inventate, ma di qualcosa d'ancor più inconsueto, al cui paragone ciò che consideriamo realtà altro non è che finzione. Il libro non è quello che sembra, allo stesso modo in cui non lo sono le cose che ci circondano. Dalla sua lettura comprenderete che parla d'inganno: l'inganno del mondo in cui viviamo e l'inganno che esso nasconde". Che cosa intendiamo di ciò che ci circonda? E' come se fossimo stati amputati e preservassimo un lancinante ricordo delle membra avulse. "Qual è l'oggetto ultimo dei nostri desideri?". Tale il quesito essenziale dell'opera, conclude l'autore. E di colpo passa al primo capitolo, "Antenati". Se si ha fortuna subito ci si accorge che si è tirati e deformati dall'incalzare dei desideri: riempiamo a forza il loro spettacolo di finzioni, trovate, pseudoraffinatezze, che dovrebbero variare all'infinito questa distesa tediosa di desiderio, ma di fatto la rendono ancor più tediosa. Alla radice dell'occidente c'è una tradizione spirituale celata, concepita dai fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e cancellata con cura, sicché ben pochi ne conoscono oramai, i nomi stessi, salvo i rarissimi che sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione del futuro soltanto guardando al passato. Partiamo perciò dagli uomini che furono gli antenati degli antenati. "Il passato siamo noi" e perfino il nostro domani è un passato che si ripete. Tale punto di partenza è lo stesso che sorprese il giovane Nietzsche, la percezione di un tempo tripartito come finzione: il vero tempo è un flusso che ci solleva al di là dei momenti risaputi, dove presente, passato e futuro si amalgamano e innalzano. Focea, o città delle foche, era un borgo situato sopra Smirne. Nel VII e nel VI secolo a.C. i Focesi esplorarono oltre Gibilterra; già stavano al termine della via della seta che si spingeva fino in Cina attraversando la Persia e l'India, sicché furono amici dei Persiani, i nemici di Atene. Davanti a Focea s'innalzava l'isola immensa di Samo, patria di Pitagora, che intorno al 530 a.C. andò in Egitto e a Babilonia a imparare la matematica e la metafisica astronomica. Ha sorpreso rinvenire nelle rovine del tempio a Era in Focea oggetti liturgici bronzei legati al culto della dea Gula, la Guaritrice babilonese, oltre ad altri oggetti liturgici indù. Alla fine del secolo V a.C. Babilonia entrò a far parte dell'Impero persiano e vi immigrarono personaggi dall'India e dall'Anatolia. I Greci in contatto con la Persia differivano radicalmente dagli Ateniesi. Tuttavia avvenne che i Persiani diventassero avidi dei loro territori, sicché i Focesi migrarono in parte e domandarono consiglio all'oracolo di Delfi, leggendolo male come invito a sbarcare in Corsica. Fondarono Elea o Velia e la difesero con valentia dagli assalitori, però poi incontrarono un suddito di Posidonia che illustrò una diversa lettura dell'oracolo: ubbidirono alla sua differente lettura. A Elea nacque Parmenide, del quale Platone forni un ritratto menzognero all'inizio del IV secolo a.C., quando il concetto di tempo incomincia ad alterarsi e incomincia a diffondersi l'invenzione babilonese d'un tempo suddiviso in giorni di 24 ore. Platone dirà di Parmenide: "Noi non riusciamo a comprendere le sue parole e ancor meno il suo intendimento nel pronunciarle". In un altro dialogo parla di dover uccidere il padre Parmenide. Il parricidio è il più atroce e repellente dei delitti, fa rabbrividire. Di fatto è una confessione: Platone vorrebbe uccidere Parmenide. Parmenide era l'autore d'un solenne poema in esametri. Narra che lo scortano donne lucenti, figlie del Sole, provenienti dal regno dove tutti gli opposti si versano l'uno nell'altro, confondendosi: il regno dell'abisso e della notte tutelato da Giustizia, dove si arriva appena morti. Ma con un carro guidato da giumente come loro provenienti dalla notte, le dee figlie del Sole lo conducono nella notte, prima che muoia. Lo portano a contatto con l'aldilà, con il territorio della morte. In direzione delle immani porte che sbarrano la strada: basta schiuderle e si è nel luogo dove dalla luce nasce la tenebra, e questo vige per tutti gli opposti immaginabili. Ma il trasferimento avviene con un fischio che ne forma l'essenza, come aria che attraverso una canna vuota vibri al modo d'un serpente che si ridesta. Lo produce, e qui Parmenide sosta per esprimersi con cura, il fischio sinistro che esce dalla pressione di due rotanti cerchi posti sui due lati delle ruote, fino a dove s'innalzano le porte immani che fischiano del pari con lo stridere dei loro cardini. Al di là delle porte giunge ad accoglierlo la Dea offrendogli la destra, con un gesto di amabile accoglienza. Inoltre lo rassicura: non è stato attratto dalla sorte maligna, ovvero dalla morte. Chi giunge a questo luogo mortuario senza essere morto prima dà prova di essere iniziato. Lo chiama kouros o ragazzo, figlio, eroe, iniziato. E anche phõIarchos, custode di rifugio, di luogo deputato alla letargia, dove il cuore quasi non batte più. Strabone descrisse la Caria, dove s'innalzava Focea, come sparsa di luoghi del genere, all'apertura dell'Ade, del regno di Plutone e di Proserpina, dove si conducevano animali malati che avessero bisogno di una tranquillità radicale, semivivente, quasi non più vitale, Lì si sognava e si poteva guarire mercé un sogno guaritore. Era la catàbasi, l'immersione nel regno prossimo alla morte, dal quale era possibile ritornare in vita riabilitati alla salute. Ma sorprende lo stile del racconto. In quattro versi quattro volte ritorna il verbo "condurre", ora al presente ora al preterito, così come vi compare la parola oímos e oimé, "via" e "racconto", come se fossero legati e alternativi. Tecnica rettorica iterativa e ambigua e prettamente sciamanica. Sul suono soverchiante della "canna vuota" - che è denotato con syrigmós, il sibilo del serpente che si ridesta (lo stesso della kundalini indù) - i papiri magici egizi informano che questo è il suono dell'armonia astrale. Apollo e dopo di lui Asclepio sono collegati al serpente. E un'esperienza capitale, la vita antica ne garantiva la costanza e il pieno significato. Nel folto dell'erba all'improvviso freme il serpente verde e ci si ritrova allarmati, paralizzati, immobili. Difesa e strategia non sono concepibili in questa immobilità: si è bloccati, già mezzi morti, il fischio del serpente ci avvince, siamo virtualmente sacrificati, trafitti. San Sebastiano inerme già siamo noi, ci inarchiamo sotto le fitte tracciate fatali e fischianti, assopenti, siamo nell'Ade. Se ne può tornare sciamani possenti.
Da: http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/010819f.htm
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