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La fondazione del discorso sapienziale in Elémire Zolla (Hervé Cavallera)
Non si può intendere
appieno il significato e il ruolo di Elémire Zolla all'interno del pensiero
della seconda metà del XX secolo se non ci si sofferma su un aspetto in lui
prevalente: quello di offrire, in un tempo consumato dalla velocità, un
discorso sapienziale che egli, nella sua vastissima cultura, àncora sia alla
tradizione occidentale sia a quella orientale, da lui rielaborate in un
itinerario intellettuale personalissimo di fronte a dei mutamenti sociali
che gli rendono il presente, e in particolare l'Occidente, sempre più
estraneo. Da questo punto di vista, il contributo di Zolla è quello di
ripresentare la voce di una sapienza imperitura, celata dalle frenesie del
mondo contemporaneo, ma a tratti affiorante, e con forza, per coloro che
sappiano intenderla e coglierla. Pertanto l'apporto di Zolla deve essere
inteso per aver giovato in maniera molto esplicita alla rifondazione del
discorso sapienziale in Italia, laddove questo è ridotto, soprattutto nella
seconda metà del secolo XX, a piccoli gruppi di iniziati. In questo caso
Zolla non svolge un'opera di divulgazione, bensì scrive indipendentemente
dalle conventicole di iniziati, sicché le sue opere hanno una circolazione
notevole anche tra i non addetti ai lavori. In questo saggio si cercherà di
individuare, attraverso la disamina dei suoi primi volumi, le premesse, le
radici per così dire, del suo concetto di sapienza su cui egli andrà
sviluppando la sua "filosofia perenne", propria delle opere della piena
maturità.
1) L’intellettuale e la
tradizione
In un volume che suscita
non poco scalpore per la sua critica radicale al mondo contemporaneo e alla
società dove ormai si è affermata l'industria culturale, oggetto degli
strali di Horkheimer e di Adorno, Zolla recupera il messaggio della Scuola
di Francoforte sostenendo che il compito dell'intellettuale deve ormai
essere quello di criticare la realtà sociale. «È necessario soprattutto
avvedersi (ciò che molti ancora ripugnano a fare) che la civitas diaboli non
si avvale più delle vecchie armi, dall'oscurantismo reazionario al
dogmatismo ecclesiastico all'astrattezza terroristica rivoluzionaria, ma per
la sua persecuzione fanatica della libertà e dell'umano non ha più bisogno
di chiedere soccorso a sofismi plausibili, ovvero a un'arma infida fra le
sue mani, poiché ormai dispone di un apparato industriale, un'Alcina che
quietamente seduce le sue vittime sussurrando: "Io ammazzerò il vostro
tempo"». Il punto essenziale è allora quello di non far ammazzare il tempo,
ossia di non far ammazzare il soggetto nel tempo. In altri termini, Zolla si
rende ben conto che le caratteristiche del nuovo tempo, del capitalismo
avanzato che si sta aprendo alla postmodernità, sono quelle di trasformare
l'uomo in fruitore di merce in una ambiguità senza precedenti. Da un lato
l'uomo crede di essere libero e quindi decide di disporre liberamente di se
stesso. Ma tale libertà è semplicemente una finzione per il semplice fatto
che egli è determinato nei suoi comportamenti dai mass-media, dalle leggi
del mercato. Lo sviluppo, che i decenni che verranno accentueranno, è già
chiaro in Zolla, con una particolare avvertenza: tutto questo è una
conseguenza diretta del pensiero illuministico che riducendo tutto a ratio
ha generato come conseguenza estrema il sadismo. «Dopo l'illuminazione
l'uomo si muoverà senza grucce, ripulirà le stalle d'Augia della vita
interiore e della sua società, fino alla più micidiale sterilità. (…) Le
menti assottigliate si convertono in immani e ferine, la vittoria assoluta
sulla natura si riduce ad asservimento dinanzi alla natura. Sade condusse
agli estremi la morale dell'efficienza, la cui regola suona: "le coeur est
la faiblesse de l'esprit"». Ecco: la sterilità della ragione ridotta a mera
efficienza genera il male, l'usare il prossimo sempre come mezzo e mai come
fine.Ciò comporta, ed è un ulteriore passaggio di cui Zolla rimane convinto,
l'affermarsi del fantasticare come dissipazione, mancanza di disciplina.
«Oramai i sogni a occhi aperti non sono più soltanto il vizio della
solitudine e dell'ignavia, ma una merce che senza pudore viene prodotta e
spacciata sotto specie di vicende cinematografiche o televisive o di
canzonette o di irreali romanzi. A tutti è concesso di essere viziosi, nella
civiltà moderna, così longanime; purché i vizi sieno prefabbricati. La
longanimità verso i vizi si paga con la degradazione dei vizi stessi, da
privati a collettivi». Nell'antichità, aggiunge Zolla, quando i movimenti
dell'anima non erano istinti, impulsi, scariche emotive, il fantasticare era
opera «di uno spirito di tenebra: chi si favoleggiava potente e satrapico
era detto in preda al demonio della superbia, chi si ammanniva scene
erotiche era considerato vittima del démone della lussuria, chi comunque si
attediava con frasi e figure vacue era reputato sofferente di accidia, cioè
colpito dal démone meridiano. L'attribuzione ai démoni di queste tentazioni
interiori consentiva almeno di alienarle, di strapparle al buio tepore
dell'intimità».La scelta di campo è come fatta. La sterilità del pensiero
produce, paradossalmente e dialetticamente, la fantasticheria come vano
vagare per poi concretarsi, quando può, nella perpetrazione del vizio. Di
fronte al disordine, alla mera fantasticheria potenzialmente distruttiva,
alla sterilità del pensiero che genera mostri e vizi collettivi, Zolla sente
sempre di più necessario il recupero di quella sapienza che si pone per se
stessa come l'antitesi radicale ad un mondo che non riesce più a
controllarsi ed è dominato dalle leggi del mercato. Si tratta di una
determinazione concettuale rilevante. Se la società è questa, se la società
è la dissoluzione, per salvarsi occorre uscire da questa società, passarvi
dentro e non esserne toccato. Essere nel tempo e fuori del tempo. Si capisce
molto bene che la decisione, maturata negli anni del benessere economico,
della società di massa, di una realtà sempre più legata all'economico e
all'edonistico, non può che essere intesa come controcorrente (ed in effetti
lo è) ed astratta. Negare il presente è uscire fuori della storia, optare
per la reazione, diventare un passatista, tutto secondo le logiche di una
cultura fortemente ideologizzata e secolarizzata. In effetti, ciò che Zolla
colpisce è appunto il concetto stesso di secolarizzazione, di un mondo ormai
chiuso nella dimensione della temporalità che gli anni della Contestazione
avrebbero detto come l'unica possibile. Viene così a prodursi, gradualmente
ma con forza, una lacerazione, meglio una frattura tra Zolla e il suo tempo.
Nella liquidazione talvolta sprezzante che Zolla fa dello storicismo vi è il
paventare che tutto possa essere giustificato nel tempo e, pertanto, negato
nella sua vera identità in nome dell'immediato come libero sfogo del
desiderio mercificato. La liberazione dai condizionamenti del tempo diventa
in tal modo l'unica possibilità per sfuggire ai sofismi e agli inganni. Un
modo, l'unico modo di salvarsi ritrovandosi. Di qui, inoltre, la critica
verso un certo modo di intendere la psicoanalisi. In quanto terapia
destinata a conciliare l'uomo con il mondo, essa, infatti, non è altro che
l'accettazione di questo mondo come l'unico possibile entro cui occorre
integrarsi. «Morbosa è, anzitutto, nella psicoanalisi volgare, la mancanza
di un'idea dell'uomo normale, l'assenza, cioè, d'un centro, e ancor più
morbosa la rude teoria che vuole sano colui che non abbia atteggiamenti
critici verso la società in cui si trovi a vivere». Chi si discosta è
espressione di una patologia; al contrario tutto deve essere ricondotto alla
normalità. Il problema è allora rendersi conto che proprio la riduzione
della normalità ad accettazione acritica del presente è ciò che dev'essere
contestato, laddove invece l'individuo, sia come singolo sia come massa, è
esposto alle leggi dell'industria culturale, alle leggi del mercato, ossia è
un soggetto falsamente pensante, preda di un sistema che volendo essere
liberatorio, lo soffoca consegnandolo totalmente ai condizionamenti di
quello che si sta manifestando come mercato globale, in cui le stesse
emozioni vengono suggerite, indotte, dirette. Adorno e Horkheimer (e
indubbiamente non solo loro) hanno colto le ambiguità del presente e si sono
come fermati di fronte alla constatazione. La teoria critica non può
trasformarsi in prassi se non negandosi e diventando pertanto essa stessa
una forma di quel dominio che i due pensatori tedeschi hanno con coerenza
contestato. Adorno ha efficacemente illustrato il suo modo di intendere la
filosofia. «Forse fu insufficiente l'interpretazione, che promise il
passaggio alla prassi. Non si può prolungare teoricamente il momento, al
quale fu connessa la critica della teoria. La prassi, aggiornata a tempo
indeterminato, non è più l'istanza d'appello contro la speculazione contenta
di sé, ma per lo più il pretesto con cui gli esecutivi strozzano, come vano,
il pensiero critico del quale avrebbe bisogno una prassi che trasformi il
mondo. Dopo che la filosofia è venuta meno alla promessa di coincidere con
la realtà o dell'imminenza della sua realizzazione, è costretta a criticarsi
spietatamente». Zolla sente stretto e non essenziale tale modo di porsi, che
pure è palesato in Eclissi dell'intellettuale, e sceglie un altro percorso
che conduce a fare i conti con il misticismo. Del 1963 è la grande antologia
I mistici dell'Occidente.Nella Nota introduttiva all'opera, in netta
contrapposizione alla vulgata psicoanalitica, Zolla rivendica la scoperta
della normalità dell'io, meglio: dell'adeguazione dell'io alla norma tramite
il misticismo. «L'io del mistico non coincide con l'immagine di sé o nozione
della propria persona, perché il mistico non è affatto privato di questo
fondamentale dato dell'orientamento. (…) Sicché la morte dell'io a cui tende
il mistico è la morte della personalità corazzata, preoccupata della propria
immagine; e la sua rinuncia al discorso è la stessa del terapeuta che sa
quanto sia inutile una conoscenza esclusivamente raziocinante e discorsiva
dei vizi psicologici». La mistica è iniziazione.La tesi di Zolla è di
estremo interesse. «Il misticismo è la ripetizione, in una civiltà non più
corale, dell'esperienza iniziatica: è un ritorno della tradizione in senso
proprio, ricordo involontario di cosa sepolta. (…) Il misticismo distacca
dalla fonte stessa delle società moderne: dal desiderio di accumulare
ricchezza e prestigio sociale». È il ritorno ad uno stato d'animo arcaico in
cui il soggetto si trova all'interno di un organismo come parte di un
organismo e non pretende di uscire dallo stesso infrangendo le regole e,
quindi, peccando. Zolla individua nel cattivo individualismo,
nell'egocentrismo non solo l'errore della società contemporanea, ma della
condizione umana. I tempi presenti non hanno fatto che giustificare,
razionalizzandolo, un comportamento, un modo di essere - l'egocentrismo
appunto - che una volta si riconosceva come una devianza, uno sconvolgimento
dell'ordine, cagione di male. L'avidità del possesso, dell'apparire, del
dominio, che il presente eleva a caratteristiche della persona di successo,
l'avidità di tutto questo è l'antisaggezza, il lato oscuro di cui si avvolge
il tempo nel suo precipitare le cose e gli stessi individui a merce. Al
contrario, «una volta estinta la sete di prestigio, di ricchezza, di
sicurezza, svaniscono tutte le malattie che vanno di conserva, torna una
spontaneità negli atti che rende insensati i problemi della volontà,
dell'adeguazione faticosa ad un sistema di leggi. Infatti il mistico torna
allo stato anteriore all'emanazione di leggi, quando il costume sorreggeva
l'uomo senza che egli se ne avvedesse». Nella interpretazione che ne dà
Zolla, l'età dell'oro è pertanto ciò che è prima delle leggi, la cui
presenza serve a bloccare che il male diffuso si espanda. Il mistico
conosce, meglio intuisce e ricostruisce uno stadio precedente in cui ciò che
ha senso lo ha indipendentemente da un divieto o da una prescrizione.La
condizione del mistico è entrare in una comunità ove le regole poste
dall'esterno non hanno più importanza perché prevalgono quelle interiori.
Per questo ci si trova di fronte ad una iniziazione, come una volta avveniva
per le iniziazioni tribali in cui si accettava il tutto come determinante il
bene comune. «L'iniziazione aveva per fine di eliminare la paura dei
disastri, sostituendola con la riverenza verso la divinità; i moderni hanno
interpretato la quiete dei primitivi iniziati come un'impassibilità ottenuta
attraverso una tempra aspra della volontà. (…) L'illuminazione è lieta, e
rende così intensa la vita da somigliare al solo tripudio concesso al non
iniziato, l'amplesso; i moderni hanno interpretato le metafore erotiche come
indizi di uno sfogo sessuale represso. Il mistico si pone fuori del mondo
della competizione per il prestigio e la potenza, cioè acquista potenza
sulla potenza; i moderni e i degenerati fra gli antichi hanno scambiato
questa pace per una ricerca di poteri pratici». La rivoluzione scientifica
della modernità ha frainteso il concetto di iniziazione, che, invece,
richiede «prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della
repressione della natura, poi la configurazione della propria vita
nell'ordine anteriore alla modernità». Nel momento in cui la modernità sta
per scivolare nella postmodernità, Zolla solleva le ragioni forti di un dato
anteriore alla modernità. Ne segue il recupero dei simboli con i quali gli
antichi leggevano ciò che si manifestava nella natura. La conoscenza
discorsiva isterilisce la conoscenza stessa, a cui può soccorrere solo la
scienza della metafora. Così Zolla si sofferma sui princìpi zodiacali e
rileva che le coppie di opposti sono complementari e la complementarità si
risolve nella mediazione e, a sua volta, «in greco il rapporto di mediazione
viene chiamato Logos, cioè Verbo, si dice che il logos tra infinito e finito
è l'unità perché 1/n = n/ , al modo stesso che il logos fra 20 e 2 è 10, che
il Logos fra Dio e l'uomo è l'uomo divino o, come dice Platone, il giusto:
Dio/Dio-uomo = Dio-uomo/uomo. Alla stessa stregua fra Sole e Terra il logos
è la Luna, fra inverno ed estate l'anno zodiacale, fra donna e uomo il
coito, fra morte e vita la malattia, fra dolore e gioia la saggezza mistica
o giustizia perfetta». La sapienza è allora la capacità di modulare e ciò
comporta appunto la mediazione come accettazione del sacrificio. «La
crocifissione dell'innocente giusto è il simbolo per eccellenza: essa dice
che l'unico modo che ha il male di toccare il bene sta nella tortura
estrema. Nel sacrificio Dio, padre del giusto, è il termine che bisogna
supporre se si vuol mediare, pensare insieme il giusto e gli ingiusti. Il
sacrificio era un momento necessario della vita antica e riesce pressoché
incomprensibile oggi; erano estranee ad esso le nozioni che gravitano nel
suo campo per una sensibilità moderna, come quella di atto mesto, spiacente
e privativo da compiersi con tensione della volontà». Naturalmente la
mediazione così intesa non può essere riducibile a formula. Di qui la
necessità della metafora, dei simboli. La vera sapienza è sapere simbolico.
«Dopo aver misurato la croce (cioè capito che non c'è misura adeguata se non
l'infinito o lo zero, al loro incontro), le altre opposizioni diventano
apparenti; come dopo un incontro sublime ogni frequentazione diventa
insulsa, si è invulnerabili, guariti dalla preoccupazione quotidiana,
dall'ansia, figlia del futuro, e dall'inibizione paurosa, figlia del
passato». L'incontro sublime genera l'estasi. La mediazione, continua Zolla,
viene insegnata per iniziazione a miti, quindi è una intuizione; ma anche in
questo caso occorrono delle precisazioni. Per intuizione mistica non bisogna
intendere l'affermazione del senso comune o lo stereotipo sentimentale,
bensì l'andare oltre le determinazioni del discorso, organizzando la
conoscenza secondo un modello ottico. La conoscenza discorsiva, puntualizza
Zolla, è un'organizzazione mentale in cui sempre di più ci si discosta dai
sensi sì che lo stesso discorso «diventa del tutto superfluo alla
conoscenza». Diversamente la conoscenza mistica è una conoscenza della
natura acustica del reale, come in qualche modo affermarono i pitagorici, è
un sentire in cui vi è l'assenza di opposizioni e si torna all'uno.È chiaro,
a questo punto, che la sapienza è sì un sentire ma un sentire che è
decodificare con l'occhio della mente, pertanto importa il sapere non
l'ignoranza. Non è irrazionalità. È un modo di porsi in maniera radicalmente
differente da ogni altro modo di relazionarsi, di aprirsi e di intendere il
mondo. Per queste ragioni occorre chiarire il senso della tradizione.
2) Il segreto della
sapienza.
Nel momento in cui Zolla
introduce il misticismo come vera via per la conoscenza e lo articola come
intelligere acustico, sentire matematicamente mediando le opposizioni, non
può non ripensare l'intera morfologia della spirito, cosa appunto che fa in
un libro che appare nell'anno fatidico della Contestazione.Zolla ritiene che
corpo, ragione e anima, che sono le parti o funzioni che l'uomo in genere si
riconosce, costituiscono per molti la loro infelicità. «A queste tre sue
parti tributa perfino tre rispettivi culti: il materialismo, lo scientismo o
razionalismo, che proietta dinanzi a sé la sua ombra. L'utopia dell'uomo
macchina, e infine l'irrazionalismo o sentimentalismo». Per lo studioso
dovrebbe essere facile rendersi conto che si tratta di una visione
estremamente limitata e fallace. «Il corpo, la psiche e la ragione si
nutrono soltanto di parvenze in divenire, di storia, ma la ragione,
adoprando le mere regole della coerenza, dovrebbe pur concludere che è
insensato asserire: "Tutto è contingente" (con le varianti: "Tutto è nella
storia", "Tutto diviene") perché nel tutto si dovrebbe includere anche
questa proposizione che, non potendo essere assoluta né eterna, impone la
smentita di se stessa. Inoltre la ragione deve riconoscere di rifarsi a dei
princìpi di coerenza di per sé evidenti, per esempio che una cosa non può
essere esistente e inesistente nel contempo. Tali princìpi o assiomi non
sono dimostrabili, essendo la fonte delle dimostrazioni, ma non sono nemmeno
irrazionali, perché, se lo fossero, non potrebbero impartire una razionalità
di cui sarebbero privi; saranno perciò a dirsi sovrarazionali». In questo
Zolla spiega la presenza di una quarta parte nell'uomo, quella
sovrarazionale.Si potrebbe osservare che la sua spiegazione più che una
intuizione è una dimostrazione nel senso cartesiano. L'osservazione sarebbe
corretta con l'avvertenza, però, che Zolla non avrebbe potuto fare
diversamente, dato proprio l'aspetto discorsivo e non rivelativo
dell'argomentazione. In questo caso, il primo capitolo de Le potenze
dell'anima svolge un ruolo propedeutico. Non si dimentichi, d'altronde, che
Zolla sta percorrendo un discorso sapienziale che non è pervenuto ancora
alla comunicazione di sé. Direi che in queste prime opere è fortemente
presente la pars destruens e quella propedeutica che implicano
l'utilizzazione del discorso tradizionale. Di fatto Zolla, proprio alla luce
dell'affermazione della indiscutibile presenza del sovrarazionale, arriva a
precisare: «al di sopra della ragione si trova dunque il suo lume,
l'intelletto, chiamato anche Sapienza, perché come assaporando (sàpere)
coglie in modo immediato il suo oggetto; oppure Spirito, cioè atto di
respirare, perché sta alla ragione come il respiro agli esseri viventi,
commisurato a ciascuno a seconda del suo grado di vitalità. Lo si paragona
anche ai raggi del sole che comunicano luce e calore senza però confondersi
con gli oggetti che lambiscono, perché analogamente proviene dall'essere
assoluto e si comunica agli esseri relativi». L'intelletto è, quindi, la
parte dell'uomo che coglie i princìpi supremi e la sapienza si raccoglie,
celandosi e manifestandosi insieme, nelle metafore. Attraverso metafore si
esprimono i movimenti interiori, come il sorgere di una passione. Così il
vento e l'ombra sono metafore significative: «se la metafora del vento, del
soffio luminoso e sonoro raffigura una vita interiore umana purificata,
attiva, libera dalle passioni contingenti, spesso, a raffigurare l'opposto,
cioè la possibilità o parte oscura e suggestionabile dell'uomo, vale la
metafora dell'ombra (o, trasponendo all'acustico, dell'eco)». E l'uomo ha un
destino e un custode: «l'esultanza, l'ardimento di chi si sa in buona
guardia e ben guidato, costituisce nell'uomo una disposizione superiore allo
stato consueto all'anima e all'animo; il luogo dell'interiorità dove si
incontra i proprio custode e il proprio destino, e dunque la sapienza, è il
più alto e soave».Le potenze dell'anima è un libro di estremo interesse in
quanto è un libro chiarificatore. Direi che occupa nella produzione di Zolla
un posto chiave in quanto potrebbe essere inteso come una introduzione al
suo pensiero, dopo che le opere precedenti hanno tracciato dei sentieri da
percorrere dinanzi al rifiuto del presente. L'ampiezza della prospettiva di
Zolla si manifesta interamente sia nella parte prima, dedicata
all'antropologia dell'uomo infelice e dell'uomo felice, all'anatomia
spirituale, alle terapie della psiche e alla poesia, alle metafore
dell'interiorità e al destino e al custode, sia nella parte seconda che
illustra la suddivisione dell'uomo nelle civiltà cinese e lamaista, egizia,
indù, israelitica, greco-romana, cristiana. Parlando di quest'ultima, vi è
una chiara indicazione del demoniaco che è opportuno riportare: la più
chiara segnatura del demoniaco è «il sentimentalismo, che ostenta una
sviscerata vocazione al perdono e alla comprensione umana; il motto delle
perversione è nihil humani a me alienum puto (che sarebbe ottimo se fosse la
premessa di: "perciò sto in guardia contro il mio cuore"; la conclusione
sottintesa è viceversa: "perciò tollero ogni vizio"). C'è una sensibilità
stilistica che scevera l'accento vago, sforzato o melenso del male, ma
esiste anche un metodo razionale che lo riconosce dalla sua strategia
perenne: sempre esso, per imporsi, divide ciò che è organicamente unito.
Diavolo vuol dire Separatore (dia-bàllein è l'opposto di syn-bàllein,
"mettere insieme", cioè di "simbolo"). La diabolicità scinde con fredda
svenevolezza il sentimento dall'intelletto, la fede dalle provvidenziali
cristallizzazioni della dottrina e del rito, la carità dalla contemplazione,
il contenuto dalla forma, tentando di giocarli l'uno contro l'altro». Così
nella tradizione cristiana, continua Zolla, il demoniaco non tollera «il
superamento dell'erotismo, i concetti di peccato originale e di dannazione
eterna, il rigore delle definizioni teologiche, la ieraticità distante del
rito, l'idea di una diffusa pratica dell'iniquità fine a se stessa». Il male
è demagogico, parla di mistica ma non pratica l'ascesi, predica una carità
umana e non teologale. È una pagina importante e per più aspetti. La
datazione storica, innanzitutto. In pratica Zolla riconduce al demoniaco
molti comportamenti non solo diffusi nella società cristiana occidentale ma
altresì tra numerosi sacerdoti cattolici del dopo Concilio. Significativa la
battuta contro la carità umana invece che teologale, ossia contro tutto un
comportamento che sarebbe stato destabilizzante non solo politicamente ma
interiormente. In questo la posizione di Zolla è implicitamente assai severa
contro l'Occidente, contrapposizione a cui col tempo Zolla, pur senza
cambiare parere, sarebbe ufficialmente rimasto indifferente, come si
conviene a colui che sa. Il fatto che nel testo la vis polemica sia più
esplicita si può spiegare sia col riferimento a quel difficile periodo di
transizione e di violenza sia appunto per il carattere introduttivo del
saggio. Al di là di tutto questo, l'altro aspetto interessante è la
connotazione della diabolicità con la separazione. La separazione è opera
del maligno. Qui il discorso di potrebbe spostare sul ruolo delle passioni,
per nulla caritatevoli, ieratiche, contemplative, bensì attive,
sentimentali, violente, avide. Non a caso Zolla cita Alexander Pope: «Vice
is a monster of such frighful mien / As to be hated needs but to be seen;
But seen too oft, familiar with its face, / We first endure, then pity, then
embrace». A furia di convivere con il vizio si finisce con l'abbracciarlo.
Così la passione. Comprendendone le ragioni, la si accetta e la si
giustifica, quando non la si attua. Per questo Zolla diffida del detto di
Terenzio, troppo volto al perdono e quindi alla convivenza col vizio. Direi
che nel saggio è presente, più che in altre opere, una forte vena
moralistica, di un moralismo però sempre intellettualmente vigile allorché
la natura del peccato è colta nella lacerazione dall'unità. Al bagliore di
un Occidente che viene disfacendosi Zolla pubblica nel 1971 Che cos'è la
tradizione. Il volume è diviso in due parti. La prima è "La liberazione
dalla storia"; la seconda è "La tradizione eterna". Dalla interpretazione
del versetto biblico, Bere'shiyh bara' Elohim et ha-shamain we et ha-aretz,
tradotto non correttamente "Dio creò all'inizio il cielo e la terra", Zolla
individua il problema della rigenerazione: «in Bere'shith bara' Elohim è
contenuta l'idea del sacrificio come ritorno all'origine dell'essere: se
l'uomo vuole in qualche modo attingere uno stato divino, creativo, dovrà
sacrificare, cioè ripercorrere il cammino cosmogonico alla rovescia,
riconsegnare il creato al Creatore, distruggerlo». Il significato celato si
rivela a chi sa leggere: per conoscere Dio l'essere deve sacrificare se
stesso nella sua singolarità, riportandosi tutto a Dio. È l'indicazione
mistica, a cui si perviene coniugando insieme cultura e sapienza. Opera
dell'intelletto, che deve interpretare anche i simboli. Zolla ha ormai
chiaramente compreso ove si possa trovare la strada della verità. Di qui la
sua critica all'asservimento alla scienza proprio del mondo contemporaneo.
«Il mondo moderno ha la sua religione, cui ogni altra è costretta a
piegarsi, ed è il culto della scienza, oggetto di muto ossequio. I suoi
sacerdoti, gli "esperti", non hanno bisogno, salvo eccezione, di ricorrere
al braccio secolare per riscuotere decime e omaggi e obbedienza dal volgo e,
come quasi ogni clero, coi potenti stanno in un rapporto raramente di
parità, spesso di sottomissione astiosa». Non che Zolla non si renda conto
del valore della scienza; quello che critica inesorabilmente è la
scientificità anticontemplativa che eleva l'umanità ad oggetto di culto,
secolarizzando in pieno il mondo. La sua, negli anni postsessantottini
brucianti e gravidi di torbidi, di violenza e di sangue, è la rivendicazione
del contemplativo dinanzi alle richieste economicistiche delle piazze. «Più
non si concepisce ormai un pensiero contemplativo, che non sia imperio
profetico né programma legislativo (…) né consiglio o comando alla società;
si teme e si evita ogni movimento speculativo, come chi si cucisse le
palpebre perché con gli occhi non afferra né modifica materialmente gli
oggetti. Machiavelli osservò nelle Istorie fiorentine che gli uomini sono
più pronti a desiderare ciò che non possono ottenere che a pigliare ciò che
sta a loro portata; nel presente caso, a fruire della lucidità. È buffo che
rinuncino a impetrarla soltanto perché non serve a nulla di praticamente
sociale, come se la vita stessa, oltre che a produrre trasformazioni
chimiche, servisse ad un qualche fine pratico».
Sono parole durissime, soprattutto se rapportate al clima degli anni in cui sono state lette. Nei giorni in cui le folle studentesche, operaie o quant'altro, ideologicamente dirette, inneggiavano a Mao, Marx e Marcuse quali profeti dell'imminente mondo venturo, la voce di Zolla appare tremendamente aristocratica nel momento in cui dice a chiare lettere che il senso della vita e il suo significato non hanno un fine pratico. È veramente un uscire dal mondo, da un certo mondo almeno, ricordando che la molla dell'utile non è altro che opera diabolica, ultimo momento di una tragedia che ha già avuto i suoi effetti nella ghigliottina illuministica. In questo particolare momento Zolla appare come un filosofo che rincontra ciò che è sempre stato: la tradizione.
3) La tradizione
Zolla lamenta che tre
sono i dogmi che chiudono gli occhi dell'uomo contemporaneo.
Il primo è l'incuria, se non proprio il disprezzo, per l'immutevole, per l'essere, per gli oggetti armoniosi. È la cosiddetta fede nello storicismo, in cui lodevole diventa il provvisorio dissipando l'aura. È la fine dell'idea stessa di natura: «in tutte le sfere della vita non resta alcun criterio per discernere la diversa qualità degli avvenimenti o degli oggetti e pertanto la qualità viene ridotta a quantità, e invece d'un giudizio che misuri il grado d'approssimazione dei fatti contingenti ai valori perenni domina l'utopia, che distrugge il senso dell'eterno con il rinvio al futuro. (…) Molti accettano questa diagnosi ma parlando del crollo dei valori, neanche fosse, esclusivamente, un fatto e non un atto; i valori crollano allorché l'uomo, non come atomo quantitativamente trascurabile, ma come qualità irripetibile e singolarità universale, rifiuti ad essi il suo ossequio». Il filosofo interviene con decisione su un problema che esprime in quegli anni un dibattito assai interessante, soprattutto tra coloro che difendono i valori della società cristiana e coloro che colgono il senso di una svolta storicamente significativa. Da parte sua, la scelta di Zolla è al di qua del dibattito. I valori sono ed esprimono l'essere che non è del tempo. Il secondo dogma è quello che afferma l'uguaglianza degli uomini, ed è legato ad un sentimentalismo diffuso. «La frode si consuma a questo modo: allorché taluno rilutti ad ammettere l'uguaglianza spirituale di tutti (che imporrebbe in primo luogo una definizione dei caratteri specificamente umani), lo si accusa di favorire l'oppressione dei poveri, il privilegio dei violenti e, cosa abbastanza singolare, quasi nessuno respinge il ricatto, in parte perché l'uomo moderno è sentimentale nella misura stessa della sua brutalità, in parte causa la disarmante incongruità dell'accusa». Si tratta, del resto, di uno degli immortali princìpi dell'89 fatto proprio dall'ideologia comunista che domina il decennio e alla quale pressoché tutta la cultura ufficiale aderisce, anche se non manca chi si rende conto che si tratta di un successo prossimo al declino. Da parte sua Zolla annota pungentemente: «l'Uguaglianza pone sul trono un re di smisurata e disincantata tirannide: la formula statistica che serve a stabilire la media. L'uomo medio statistico diventa il Redentore, la cui imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai singoli di espiare il peccato di possedere una fisionomia».Il terzo dogma è quella sorta di attivismo perenne che si riferisce alla domanda "che fare?", ove non è importante la risposta, ma, in una società che riscopre Nietzsche, l'azione in se stessa. Chi è il noi che deve fare? «Chi è quel noi se non un io assetato di potenza e mascherato di filantropia? Un io che si proietta in una figura collettiva, in una statua simbolica coperta di nebbie».Per uscire dal porto delle nebbie del presente Zolla propone di tornare alle norme di natura: il ritorno al primato della contemplazione come massima virtù. «Quiete, contemplazione, gioia, cielo sono legati a un sol nodo nel sistema di intuizioni sacre che regge le nostre lingue. Ram- in sanscrito è il rallegrarsi, aram- il godere e quindi l'acquietarsi; ha uguale radice il nostro "eremo". Il gotico autja, "felicità" corrisponde alla quiete contemplativa dei latini, l'otium. Quiete e tranquillità sono il corrispettivo dell'avestico šyata, "felicità" (q latino corrispondendo a sibilante). Il gallese llonyd significa "quieto", e llon "gaio". E "contento" non equivale a "contenuto"? Scopo dei riti è infondere quiete; "eucaristia" in inglese si dice houst, in gotico "sacrificio" si dice hunsl: il loro corrispettivo protoslavo (l'aspirata germanica corrispondendo a sibilante) è sviat', "santo", collegato col sanscrito anta "tranquillo". Zolla, che riprende le note metafore dell'anima come la parte sensitiva dell'uomo soggetta alle passioni, dello spirito come la parte che coglie i nessi intellettuali, della mente come la parte capace di riflessione metafisica, giunge ad una definizione di contemplazione che ricorda la condizione spinoziana del sapiente. «Contemplazione è in primo luogo il movimento onde ci si affranca dalla preoccupazione per le circostanze contingenti, dalle passioni e dagl'interessi, individuali o collettivi che siano. Contemplando si cessa di dire "io" o "noi", quindi si osserva in quanto ci attornia la distinzione fondamentale tra gli aspetti transitori e l'immutevole, e ci si accorge che nella misura in cui si affissa l'essere le passioni si placano, si gode di una perfetta indifferenza. Allora si identificano l'eterno e la quiete, si afferma che quello si riflette nell'uomo attraverso questa. Si impara così a subordinare gerarchicamente il transitorio all'eterno e, interiormente, si statuisce come valore supremo la propria quiete, indifferenza, sovranità, sollevandosi al di sopra delle passioni disordinate, per filantropiche che siano o si pretendono». È un'immagine del sapiente in cui confluisce la saggezza orientale e occidentale e che consente di pervenire ad intendere la Tradizione. Ora se per tradizione si intende ciò che si trasmette quasi radice indimenticabile di un serie di eventi, la Tradizione per eccellenza «è la trasmissione dell'oggetto ottimo e massimo, la conoscenza dell'essere perfettissimo». E più oltre:«la Tradizione è la trasmissione dell'idea dell'essere nella sua perfezione massima, dunque di una gerarchia tra gli esseri relativi e storici fondata sul loro grado di distanza da quel punto o unità. Essa è talvolta trasmessa non da uomo a uomo, bensì dall'alto; è una teofania. Essa si concreta in una serie di mezzi: sacramenti, simboli, riti, definizioni discorsive il cui fine è di sviluppare nell'uomo quella parte o facoltà o potenza o vocazione che si voglia dire, la quale pone in contatto con il massimo essere che gli sia consentito, ponendo in cima alla sua costituzione corporea o psichica lo spirito o intuizione intellettuale». La definizione è molto chiara: indica la presenza di una gerarchia delle cose al cui vertice c'è l'essere assoluto, il quale può essere colto, intravisto mediante l'intuizione intellettuale. Tenendo presente ciò, segue che riti, simboli, definizioni discorsive possono sollecitate l'intuizione, anche attraverso la rivelazione che l'Essere fa di sé. Pertanto la Tradizione non è mai tutta raccolta in testi scritti, ma può essere individuata là dove si manifesta pur celandosi. È la legittimazione della conoscenza attraverso le metafore, i segni. Di qui la critica di ogni sapere e comportamento pragmatico, che mira al successo immediato nel tempo e trascura il significato dei fini. Ecco allora una battuta caustica: «accanto agli alveari o formicai dell'industria, i falansteri del vizio e della vertigine: questa la polarità inscritta nelle avvisaglie dell'avvenire prossimo». Verso il proprio tempo Zolla è inclemente e si espone alle accuse di chi lo intende in quegli anni come un reazionario.D'altra parte vi è un altro problema. Visto che nella storia del sapere vi sono molte tradizioni, qual è la Tradizione? La risposta di Zolla è significativa in quanto si muove al di là di ogni confessionalismo, pur non respingendo alcuna fede, in quello che sarà appunto il carattere sincretista del suo pensiero che riconosce una Verità comunque essa si manifesti. L'importante è che il disvelamento venga riconosciuto. «L'esperienza del divino, e la moralità che ne proviene come sua ombra, può calarsi in diversi destini, senza che l'incontro esplicito o consapevole con il Cristo ne debba far parte, e che viceversa un tale incontro, ma del tutto privo di forza trasformatrice, può certamente appartenere ad un destino dannato». In conclusione, «il piano comune a ogni tradizione, universale, è l'uguale idea dell'uomo come essere che si completa soltanto, di là dal proprio corpo e dalla propria psiche, nell'intelletto attivo, nella beatitudine. Così parla la tradizione cristiana, che si ritrova come raggiungimento della neshamah in quella ebraica, della bodhi in quella indù, dello ‘aql in quella islamica, e via enumerando nei linguaggi d'ogni tradizione a noi nota». Alla luce di tale affermazione Zolla scrive delle pagine suggestive sulla antica città perfetta entro cui trovava centralità lo spazio delle celebrazioni e dei riti ove si rivelava il divino, pagine a cui seguono quelle sul satanismo. È, a questo punto, interessante notare che Zolla reputa stregone «colui che con un'ascesi simmetrica a quella della santificazione perfeziona il proprio male». Satana è chi vuole il male e chi si disperde nel tempo, diventandone preda, allontanandosi dalla contemplazione del massimo bene. La triade infernale è «la simulazione della carità, la quale vuole prima sfamare poi trasformare lo spirito; della speranza, la quale si getta in ogni esperienza; della fede la quale crede al regno ecumenico dei popoli. Satana propone l'umanitarismo, la fiducia, la volontà di migliorare il mondo materiale». È facile cogliere in queste parole l'individuazione del mondo contemporaneo come il regno di Satana a cui deve essere contrapposto il gran criterio della Quiete che impedisce le distrazioni rovinose, la smania di mutamenti. «Il reale è un bene e pienamente reale è soltanto il presente. Tuttavia chi guarda al passato può, se non fantastica, afferrare qualcosa di determinato. Soltanto chi guarda al futuro è esposto in pieno alla satanica irrealtà, al massimo di non-essere, perché il futuro è la temporalità schietta e irrimediabile, il luogo della speranza e del timore, l'ignoto, ciò che non somiglia affatto all'eterno, mentre il presente, se portato con rassegnazione o lodato, si illumina di indizi o primizie d'eternità. (…) l'Evoluzione, l'umanesimo scientifico e in genere le dottrine che inchiodino al futuro sono satanicamente incoraggiate: tema, avarizia, lussuria, ambizione sono radicate nell'avvenire, mentre la gratitudine e la lode sono volte al passato e l'amore è tutto presente». Sono parole durissime contro un tempo che esalta il mutamento. Il divenire come regno del male, come espressione del male. Civitas diaboli ove si diffonde l'incubo della fratellanza. «Si vuole instaurare, spesso con la violenza delle armi, uno Stato in cui non vengano più levate mura di chiostri ma invece si spargano conventicole vagabonde dove vigano la comunione dei beni e la promiscuità erotica nonché l'ubbidienza cieca ai capi». A tutto questo occorre opporre il gran criterio della Quiete contro cui si accanisce la violenza degli esseri satanici. «Soltanto l'idea della Quiete come fine supremo, in sé e per sé, è netta di sangue. Essa non garantisce la pace materiale, dalla sua proclamazione può scaturire tutto ciò che forma il retaggio dell'uomo caduto, discordia e strage. (…) La quiete è la perla caduta nel fango: peggio per chi, invece di raccoglierla e forbirla, la lascerà, nel fango». Ma se la Quiete è essere al di là, si può davvero stare al di sopra della mischia?La risposta di Zolla è che la forza e il potere dimorano presso i deboli e gli umiliati di oggi che diverranno i forti di domani. « Così dunque si volge la ruota del tempo, calano i potenti e i miseri emergono. Il Magnificat è la meditazione politica ultima». È la rivendicazione della Quiete che sa attendere sopportando le violenze del tempo.Che cos'è la tradizione è un libro importante all'interno della biografia intellettuale di Zolla. In primo luogo è un volume che lo mette fuori del suo tempo, se non proprio contro il suo tempo. Lo scrittore di successo è ormai considerato come un campione della reazione. Il suo concetto di tradizione lo schiera fuori delle conventicole alla moda. Appare come un pensatore della destra conservatrice. Bisogna tuttavia precisare che il concetto di tradizione di Zolla non a nulla a che fare con quella di Evola, la quale richiede un impegno politico nel tempo. La quiete di Zolla è veramente fuori del tempo, in una dimensione contemplativa di natura mistica in netta contrapposizione con l'ideologia del decennio. Inoltre Che cos'è la tradizione può essere inteso come l'ultimo libro propedeutico, in cui Zolla spiega ancora dei concetti necessari per intendere il suo modo di leggere la realtà. Non che non sia un libro sapienziale; ha ancora un intento introduttivo, chiarificatore. I volumi successivi avranno un'altra qualità, entreranno direttamente e senza ulteriori spiegazioni nel mondo delle verità celate e pure evidenti.
4) Passato e presente
Nella Prefazione alla
ristampa (1998) di Che cos'è la tradizione Zolla ricorda il tono polemico
con cui il libro "contrario a come penso oggi" nacque. «Ero a quel tempo
sfiorato, impensierito dalla depravazione circostante, tanto da volerla
fugare; raccattai ciò che nella storia dell'Occidente poteva apparire
limpido e fermo e ne feci il centro d'un mandala nel quale tutto si
rischiarasse e il disordine allentasse la presa», riconosce che il libro fu
avversato ("pagai un prezzo"), e fissa un ritratto durissimo del momento
storico che seguì il 1968. «Fu peraltro uno sconvolgimento ordito con
impeccabile cura e dilagò di botto nell'universo. Sua avvisaglia
raccapricciante fu la rivoluzione culturale in Cina. Mao Tse-tung scatenò in
bande compatte la massa studentesca contro tutto ciò che il comunismo aveva
risparmiato, residui della vita felice, gerarchia universitaria,
professionale, familiare. (…) L'arte cinese si falcidiò, quella tibetana
quasi si estinse. Le abitudini più innocue furono soppresse. In breve,
s'instaurò l'inferno. (…) L'America raccolse la rivoluzione culturale; si
scatenò una ferocia metodica in tutte le università, giovanotti programmati
alla dissipazione si sparsero in tutti gli Stati. Questa furia fu esportata
con il suo repertorio di luoghi comuni stralunati, di balorde invettive, e
perfino con le ricette per esplosivi grevemente tradotte dall'inglese nelle
università giapponesi, africane, sudamericane, europee». Pur ricalcando il
giudizio storico, Zolla afferma che il libro era contrario a come egli pensa
alla fine degli anni Novanta. Perché? Perché era poco rispettoso della
Quiete auspicata e, infatti, negli anni seguenti i suoi saggi si sarebbero
disinteressati delle questioni contingenti del tempo, talvolta toccate solo
di sfuggita.Nel 1975, sempre presso Bompiani, appare Le meraviglie della
natura. Introduzione all'alchimia. È un'opera dotta ed inusuale nella sua
interpretazione dei numeri (il quattro e l'imponderabile, la triade e l'uno,
il settenario, dal sette al dodici, il nove), nel suo soffermarsi sugli
archetipi come colori e come ritmi, nel rapporto tra vangeli e alchimia.
Zolla omai introduce, senza alcuna mediazione, in quello che gli sprovveduti
chiamano mondo magico. «L'alchimia incomincia a un passo più in là [della
descrizione chimica e biologica], allorché si penetri l'interna compagine
d'un corpo a sorprendervi i segni immediati delle sue forme formanti,
riparatrici, mantenitrici, direttamente all'opera, sollevando il velo della
sua apparenza sì da carpire il segreto con cui la sua forza formante, lo
spirito, si organizza e plasma la materia dandole, invisibile artefice, via
via i giusti, impalpabili colpi di pollice. Occorre afferrare il momento
dello stato nascente, l'essenziale gemmare, cestire, occhieggiare del corpo
vegetale, minerale o metallico sotto l'impulso del suo spirito». L'alchimia
è la scienza degli imponderabili, propria del sapere iniziatico in cui si
sviluppa la capacità trasmutatoria propria dell'alchimista. «Così il Genesi
(…) narra che all'origine il verbo-seme di Dio generò e impregnò la prima
matrice, o misuratrice o sapienza o idea del cosmo, così procreando il cosmo
visibile; questo a sua volta è la matrice dell'uomo-donna Adamo, che il
verbo-seme di Dio genera penetrando nel cosmo visibile. Ma affinché Adamo
seme-matrice, Androgino, sia simile in tutto a Dio creatore, al verbo-seme
di Dio, Dio ne divide il seme o luce dalla matrice Eva, o ombra (o fianco o
costa), e in questa matrice o Eva, Adamo genererà uomini, come il verbo-seme
di Dio nel cosmo-matrice generò lui». Così i tre maghi portano oro, incenso
e mirra che significano amore e regalità, orazione e sacerdozio,
mortificazione e medicina, e nel Medioevo, per fermare un cavallo che fugge,
si recitava la formula magica: «Caspar te tenet / Balthasar te ligat /
Melchior te ducat. / Gaspare-sapienza, che porta l'incenso, afferra, scorge,
individua; Baldassarre-Potenza, che reca la mirra, lega; Melchiorre-Luce,
che dona l'oro, guida». Gli accostamenti conducono alla spiritualizzazione
del reale. «L'alchimia tratta gli spiriti dei metalli, e non le loro morte
materie, e dunque conduce a cogliere lo spirito degli uomini e lo vuole
perfezionare». E lo spirito è luce. «La luce è la prima manifestazione del
Verbo: questa certezza è l'essenza della fede, perché basta l'osservazione
attenta a notare che tutto è luce più o meno espansa, mentre, disse san
Paolo, soltanto "mediante la fede comprendiamo che i mondi sono stati posti
da una parola di Dio, sicché dall'invisibile originò il visibile". Luce e
vita sono il seme e la matrice dell'Intelligenza creatrice, ovvero il Fuoco
plasmatore di questo mondo, insegnano gli scritti ermetici. "Vita" è la
matrice o sapienza, la lunarità, l'umido radicale o mercurio, ossia
l'albero, della vita appunto, che va fecondato dallo zolfo o luce. Il Cristo
dice: "Io sono la luce del mondo, chi mi seguirà avrà il lume della vita"
(Gio. VIII, 12). Egli è il Sole, anzi è la fonte del sole, che rende
vivificante la vita. La vita è sapiente organicità, equilibrio delicato,
intelligenza in atto; la plasma l'organo più vitale e delicato, misuratore
perfetto: la matrice. Ma come l'intelligenza è mossa da un'ispirazione, la
matrice da un seme, ad attuare le sue capacità, così la vita del cosmo
chiede luce per avviarsi: la natura ha bisogno di un inizio trascendente
alle sue opere. La luce del mondo è il regno degli archetipi a cui ogni cosa
si ispira. (…) L'archetipo è la vita vivente e vivificante; invece l'oggetto
che lo rispecchia è già vissuto». Il discorso è ormai sapienziale e rivolto
agli iniziati, che non sono coloro che hanno bisogno di inusitate
propedeutiche, ma capacità di intuizione. Zolla è partito, all'inizio della
sua speculazione, dalla critica al mondo contemporaneo su stimolo degli
scritti di Horkheimer e di Adorno. Il volgersi dei tempi lentamente lo
persuade che la battaglia contro la violenza e il soggettivismo e il
relativismo, mal diretti dalle ideologie e dalle tecniche, è una battaglia
perdente. Solo che si perde nel tempo, non nella verità. La verità è fuori
del tempo, e della verità parlano i sacri testi dell'antico sapere, sia esso
cristiano sia induista sia buddhista e così via. Lo cercarono gli alchimisti
nel Medioevo. Il problema è allora quello di far partecipe l'ascoltatore
attento che la verità si può ancora attingere fuori del crepitìo della
contemporaneità, la quale cerca sempre nuove illusioni, restando
costantemente delusa e ansiosa. Nemmeno la psicoanalisi è in grado di
ricondurre l'uomo alla sapienza, in quanto essa mira all'inserimento nel
sociale, all'integrazione. Ma la sapienza è altro. È la quiete serena che dà
pace e che ci rende imperturbabili come metalli, come pietre. In una sua
aggiunta alla nuova edizione delle Meraviglie della natura Zolla illustra il
«Buddha Incrollabile (Akshobhya): è calvo, nero-turchino di compassione per
il mondo infernale, ma dal suo cuore di diamante emana un arcobaleno.
Ricordiamo che non è né vero, né falso, è aldilà di queste categorie. In Lui
compassione e vuoto interiore sono tutt'uno. Egli ci rammenta che la realtà
oggettiva non è che un'allucinazione collettiva. Con Lui ci si identifica
allorquando ci si osserva nel momento benedetto in cui la nostra testa
comanda al corpo di eseguire sacri esercizi e atti devoti, alla nostra gola
di pronunciare formule sacre, e tutto è dettato dalla nostra mente, che
opera dal profondo del cuore. Quando ci si contempla in tale stato, si è
Akshobhya: si diventa di diamante; si osservano le tre parti che ci
compongono: la mente, la parola, il corpo, unificate, appese al filo del
respiro e si diventa l'Incrollabile, per noi ormai sogno e veglia sono
equivalenti inganni. Si è pietre filosofali ovvero vive». La sapienza di
Zolla è la serenità indistruttibile che scaturisce dalla serenità
dell'intelletto che si abbevera della luce. Nei volumi che arrivano a
coprire i primi anni '70 il pensatore ha cercato di illustrare le potenze
dell'anima e le possibilità delle stesse. Naturalmente questo fuori di ogni
filosofia tradizionale, accademica, di solito volta ad obbedire alle
ideologie o all'analisi ermeneutica. Naturalmente anche fuori di ogni
"pensiero debole" così di moda. In questo Zolla costituisce un caso a sé
stante, quello, d'altronde, di una filosofia occidentale che incontra quella
orientale, in una visione che è visione religiosa. Si potrebbe sostenere,
non senza ragione, che egli è uno degli ultimi grandi mistici
dell'Occidente, con la precisazione che possiede una cultura che è capace di
spaziare attraverso le diverse religioni, nella certezza che l'intelletto
che coglie la verità non ha cedimenti dogmatici, la verità è tale e basta.
Per questo egli non rientra nemmeno nel new age. La sua è una sapienzialità
astorica proprio perché fuori della storia.I saggi che verranno a partire
dalla metà degli anni '70 avranno il compito per nulla facile, ma proprio
dell'intelletto che viaggia attraverso metafore e disvela i simboli, di
mostrare come archetipi e aure non siano narrazioni di un passato arcaico e
perduto, ma possono essere esperiti dall'uomo contemporaneo di mente pura.
Una sollecitazione alla conoscenza, ma anche un messaggio di salvezza per
una società che corre dietro alle utopie caduche e all'infelicità
devastante. Un passaggio decisivo nell'itinerario di Elémire Zolla, che
storicamente si confronta, come alternativa radicale, al lento disfacimento
delle ideologie che pure sembrano ancora dominare gli anni Settanta e
Ottanta.
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