Tutto il vuoto intorno a noi
di Massimiliano
Crippa
20 maggio 2002. Giangiorgio Pasqualotto è nato a Vicenza nel 1946 a
da 25 anni insegna Storia della filosofia all'Università di Padova. Ha
collaborato con diverse riviste, tra le quali Angelus Novus, Contropiano,
Nuova Corrente, Aut aut, Il centauro, Paramita, Simplegadi, Paradosso,
Eranos jahrbuch, Oikos. Nel 1993 è stato tra i fondatori, a Venezia, del
centro Maitreya per lo studio della cultura buddhista.
Ha tenuto più di trecento conferenze in Italia e all'estero. Si dedica al
pensiero orientale da almeno vent'anni e, tra l'altro, ha pubblicato "Il tao
della filosofia. Corrispondenze tra Oriente ed Occidente" (1989) e
"Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del
Buddha" (1997).
Un percorso infinito, dove è più importante il provare che non il risultato.
Durante la sua formazione ha scoperto l'importanza del gesto, dell'azione e,
quindi, dell'arte, in quanto azione allo stato puro. Ma un'arte ridotta
all'essenzialità, operazione in cui il Giappone è maestro. Essenzialità non
tanto nel contenuto reale (minimalismo), ma nel modo, nel contenuto
metafisico, nell'escludere un ragionamento preliminare di tipo filosofico.
Pasqualotto ha fatto esperienza a Cylon, in Thailandia e in Giappone,
conoscendo artisti-artigiani di varie discipline. Tutti cercavano di
realizzare un'azione il più possibile elementare. Un esempio su tutti: la
ceramica raku, la tecnica più povera che esista, ma che viene utilizzata
nella più splendida delle arti, la cerimonia del tè.
Ospite malsopportato del pensiero occidentale, il nulla si mostra in Oriente
in molteplici forme. Tra l'idea di vuoto che esiste in Occidente e quella
che esiste in Oriente non vi è nessuna relazione. E' questo l'elemento della
ricerca di Pasqualotto che siamo andati ad estrapolare dai libri Estetica
del vuoto (1992) e Yohaku (2001):
Il vuoto come siamo
abituati a pensarlo noi, confluisce nel nichilismo. Mentre dall'altra
parte è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le
cose. Il vuoto in questo senso è il massimamente pieno. Questa è la
grande idea che ha avuto il buddhismo. È il punto che lo fa incontrare
con il taoismo in Cina e produce lo zen."(1) |
L'anatta (l'insostanzialità) è il concetto con cui il buddhismo elabora la
sua idea di vuoto, la cui potenza si può vedere soprattutto nell'arte. Un
esempio è la tecnica del bonsai:
Un bonsai non è
qualcosa di autonomamente definito, la sua potenza si manifesta grazie
alla forma vuota che gli sta attorno."(2) |
Gli occidentali sono abituati a vedere il bonsai come una costrizione che
snatura l'albero, ma per Pasqualotto è più che altro una disciplina che non
si spinge mai oltre i limiti, anzi si autolimita perché è solo l'eccesso di
costrizione che porta il ramo a spezzarsi o a morire, ma anche l'eccesso di
permissivismo è da considerarsi negativo, in ogni cosa.
Stare sul limite, invece, aiuta a vedere meglio da entrambe le parti e a
evitare appunto l'eccesso, il prevalere di una parte.
Nel pensiero orientale, l'estetica sta alla base dell'etica, non è a sé
stante. Ciò può risultare pericoloso solo se si è incapaci di darsi una
disciplina, di impedire che la forma abbia il sopravvento su tutto.
Pasqualotto sembra dare man forte a Tanizaki, che vedremo più avanti, nella
sua lotta alla modernità quando dice:
[...] ricordo che il
vecchio Nedham smentì con i suoi studi il luogo comune che la Cina
antica fosse ascientifica, antitecnologica. In fondo tutta una serie di
invenzioni, anche tecniche, nascono a Oriente. Ma lì l'uso della tecnica
era completamente diverso. Pensi alla bussola. Può essere utilizzata per
navigare, per pescare, per non perdersi e può essere usata per scoprire
nuove terre. Noi abbiamo fatto la seconda cosa, loro la prima. Così fu
anche per la polvere da sparo. Loro facevano i fuochi artificiali, noi
gli archibugi."(3) |
Il vuoto non è il nulla, il non-essere. L'autore analizza le fonti taoiste e
buddhiste alla ricerca di una possibile definizione del vuoto, ma scopre che
il vuoto è in realtà un non-concetto, che si chiarisce soltanto con
l'esperienza, nella meditazione, e difficilmente potremo capirlo senza
sottoporci personalmente alla pratica meditativa.
Il Giappone ha fatto del vuoto indiano e cinese un vuoto molto più fruibile
come arte. L'affermazione "mare del nulla" è la cosa più bella che si può
dire di un giardino di pietra. Attraverso questi libri si potrà capire come
le culture che si basano sul vuoto siano state da sempre culture
all'avanguardia nell'etica.
Pasqualotto vuole farci superare lo sconcerto che molti occidentali provano
di fronte alle arti tradizionali giapponesi, delineando l'esperienza del
vuoto che ne sta alla base: la cerimonia del tè, la pittura ad inchiostro,
la poesia haiku, l'ikebana, i giardini di pietra, il teatro nou. Andando
alle radici dell'esperienza del vuoto si scopre che essa non emerge da
riflessioni teoriche, ma da una pratica di meditazione che può realizzare
condizioni di vuoto produttivo nella mente, nel cuore e nel corpo non solo
dell'artista, ma anche di chi ne apprezza le opere.
Il vuoto è inscindibile dal pieno e sta alla base di tutte le cose. E' il
vuoto, nel senso più materiale del termine, che ci permette di vivere e
usare ogni bene, anche nella società moderna, che sembra così poco avvezza a
concetti estetizzanti e metafisici. Tutte le arti giapponesi coccolano il
vuoto in quanto porta con sé un guadagno di estetica e un accrescimento
culturale.
Nell'arte giapponese si tende sempre a sottrarre qualcosa, così come la vera
cultura è sottrazione di nozioni dal cervello e non accumulo. Il giardino
zen non è un semplice esercizio di stile, si coltiva prima nella mente, dove
divnta occasione di purificazione.
In Occidente un tale modo di procedere è limitato a poche grandi figure:
Io intendo scultura
quella che si fa per mezzo di levare, ché quello che si fa per via di
porre è simile alla pittura."(4) |
La parola giapponese yohaku è composta da "resto" e "bianco", quindi lo
spazio vuoto, l'essenziale, il non destinato a sparire, ciò che resta dopo
che è stato tolto tutto ciò che può essere tolto. E' proprio nel minimum,
nell'abissale semplicità del qui e ora, che con più potenza vacilla il senso
codificato delle cose. Non è un nulla conclusivo, stato di inerzia e di
inesistenza, ma un nulla originante, stato germinale della realtà.
A questa potenza fa da contraltare il depotenziamento dell'io, che toglie
enfasi al soggetto creatore. E' proprio ritraendosi che l'artista riesce a
produrre al meglio, in una realtà che già lo comprende, lo ingloba e che è
profondamente segnata dalle qualità dell'insostanzialità (anatta) e dell'impermanenza
(anicca), in cui tutte le cose sono transitorie e intimamente
interdipendenti.
Il pittore giapponese Ike no Taiga (XVIII secolo) diceva che "disegnare uno
spazio bianco in cui non sia raffigurato assolutamente nulla" è sicuramente
l'impresa più difficile per un artista, perché non è facendo nulla che si
ottiene il nulla, non è astenendosi dall'agire che si può evocare il vuoto.
L'irrappresentabile è più visibile nel rappresentato quando questo è
imperfetto, inadeguato a simboleggiare il Tutto, l'assoluto da cui proviene.
La cosa stessa è l'Idea, la perfezione è qui e ora, perché il mondo è
semplicemente così com'è. Nel taoismo e nello zen non esiste una frattura
metafisica: il trascendente non ha altro spazio-tempo per manifestarsi se
non il contingente.
La nozione di vuoto (shunya) non è vacuità nel senso difettivo occidentale,
ma condizione di possibilità, un potenziale. Il vuoto è dinamico, pieno di
possibilità in procinto di realizzarsi.
Anche il ruolo giocato dalla corporeità viene rivalutato. Il corpo non è
soltanto il luogo ove si manifesta l'assoluto, ma è anche il mezzo per
raggiungerlo, attraverso pratiche come lo yoga. Per arrivare ad agire sulla
mente, che è un'entità sottile e sfuggente, è meglio cominciare dal corpo.
Nessuna condanna o mortificazione, dunque, delle pulsioni, dei desideri,
degli istinti: la questione è semmai quella di ricondurre gli aspetti
sensibili-materiali alla loro origine, alla fonte dalla quale prendono
senso. E' superata quindi la dicotomia tra anima e corpo, spirito e materia.
Inoltre, non è mai il singolo, elemento isolato, ad essere importante, ma la
qualità dei rapporti, delle interconnessioni che esso instaura con i suoi
omologhi.
Il preteso immobilismo della tradizione orientale è soltanto un luogo
comune. Basta guardare l'architettura giapponese per accorgersi che tutto è
dinamismo e senza nemmeno bisogno di enfasi, come se questo concetto fosse
da sempre proprio dell'edificio. Lo spazio è fluido e governato
dall'asimmetria che regna anche nella natura. L'edificio e il giardino si
valorizzano a vicenda e sono articolati in stretta relazione; il giardino
asseconda la disposizione delle costruzioni, le quali ne incorporano la
vista rendendola uno degli elementi architettonici. Le pareti scorrevoli
permettono di modificare a piacere gli ambienti, creando una dialettica
compenetrazione dello spazio interno con quello esterno o, se si vuole, tra
cultura e natura. Sono presenti anche qui dei confini, dei limiti, come
nelle nostre case, ma si tratta di una veranda che circonda la costruzione;
uno spazio attraversabile, di transizione, che finisce col mettere in
rilievo un tutto unitario, seppure articolato.
Forse capirete ancora meglio se riuscirete a richiamare alla mente
l'immagine di un torii, l'elemento della cultura religiosa shintoista che
più simboleggia come l'intera natura sia da considerarsi alla stregua di un
tempio. Il torii in sé non è altro che una semplice trabeazione in legno,
composta da due stipiti e due architravi, collocata in uno spazio aperto per
segnare il confine tra due zone qualitativamente differenti di territorio.
Una porta che non introduce in nessuna stanza, ma che semplicemente
incornicia la natura come fosse un quadro, mostrando l'ingresso per un
sentiero di meditazione che porta al Tutto.
Se la bellezza nell'estetica della tradizione orientale si impone da sola
senza bisogno del creatore come in Occidente, significa che tale estetica
non è, appunto, una teoria della bellezza, bensì l'attività sensibile di
mettere in forma l'esperienza.
Il ponte Shirakawa nel giardino della villa di Katsura è formato da pietre
grezze disposte a distanze asimmetriche l'una dall'altra e ad altezze
irregolari. Bisogna percorrerlo lentamente, attenti a dove si mettono i
piedi. Come se ci spingesse a meditare praticamente su che cosa significa
l'andatura nell'interezza della sua dimensione psicofisica, come se lì su
quel ponte fossimo costretti ad imparare di nuovo a camminare.
Non siamo indotti soltanto all'attenzione verso la forma, ma anche
indirizzati verso una forma dell'attenzione: percorrere un ponte diventa un
esercizio spirituale.
E in una natura pensata come interamente pervasa dallo spirito, è immediato
passare dall'attenzione verso le cose inanimate all'attenzione verso l'altro
essere vivente. Ma allora tutto ciò significa che l'estetica della
tradizione culturale giapponese è una disciplina di vita, un'arte del
vivere. L'estetica del vuoto trova il suo fondamento in un'etica
dell'attenzione. Agli altri, all'Altro.
Ovviamente non si vuole affermare che una cultura sia giusta e l'altra in
errore. L'idea che deve nascere da questo discorso è proprio la mancanza di
opposizione tra Oriente e Occidente, che sono come il giorno e la notte.
Note
1. Cfr. Gnoli, Antonio. Il mondo dove l'estetica è alla base
dell'etica. La Repubblica, 9 dicembre 2001.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Michelangelo Buonarroti, in una lettera del 1550. Anche se, in
verità, per lui lo scopo era liberare la figura imprigionata nel blocco di
pietra, mentre per i giapponesi è creare un equilibrio tra la presenza e
l'assenza di pietra nell'aria, è costruire per delimitare lo spazio, cioè il
vuoto. Antoine de Saint-Exupery ha detto invece che "la perfezione (in un
progetto) si ottiene non quando non c'è altro da aggiungere, ma quando non
c'è altro da togliere". Klee va alla ricerca della cosa che è "al di là
dell'apparenza", ossia della "comune radice terrestre". Malevic realizza il
"quadrato bianco su bianco", che buca lo spazio pittorico nella direzione
del "puro spazio originario". Secondo una sentenza leopardiana "tutto è
nulla" e non vale nulla e va a finire nel nulla. Il nulla è l'anima segreta
delle cose. Fragili ed effimere, le cose sono condannate al nulla, ma nello
stesso tempo dal nulla salvate ossia restituite a noi per quello che sono:
degne di essere amate in quanto mortali. Cfr. Givone, Sergio. Il nulla, ciò
che resta dopo aver tolto tutto. L'Unità, 20 ottobre 2001.
Bibliografia
Carboni, Massimo. Tra estetica del vuoto e etica dell'attenzione. Il
Manifesto, 20 Aprile 2002.
Givone, Sergio. Il nulla, ciò che resta dopo aver tolto tutto.
L'Unità, 20 ottobre 2001.
Gnoli, Antonio. Il mondo dove l'estetica è alla base dell'etica. La
Repubblica, 9 dicembre 2001.
Pasqualotto, Giangiorgio. 2002. Estetica del vuoto. Arte e
meditazione nelle culture d'Oriente. Marsilio, Venezia.
Pasqualotto, Giangiorgio. 2001. Yohaku. Forme di ascesi
nell'esperienza estetica orientale. Esedra.
Da:
http://www.nipponico.com/dizionario/v/vuoto.php |