La pratica della
Meditazione
Dott. Filippo Falzoni Gallerani
tratto da: La Via della
Liberazione, di Allan Watts
Edizioni Ubaldini Astrolabio
La pratica della meditazione non è quel che comunemente si intende per
pratica, nel senso di ripetizione intesa a preparare a una qualche prova
futura. Può sembrare strano e illogico dire che la meditazione sotto forma
di yoga, dhyana o za-zen, come è in uso presso gli induisti e i buddhisti è
una pratica priva di scopo nel futuro immediato o lontano, poiché è l'arte
dell'essere completamente centrati nel qui e ora. "Io non sono addormentato
e non c'è nessun posto in cui voglia andare".
Viviamo in una cultura totalmente stregata dall'illusione del tempo, in cui
il cosiddetto momento presente è sentito come qualcosa di infinitesimale fra
un passato potentemente condizionante e un futuro la cui importanza è
assoluta. Non abbiamo un presente. La nostra coscienza è quasi totalmente
occupata dal ricordo e dall'aspettativa. Non ci rendiamo conto che non c'è
mai stata, non c è e non ci sarà mai altra esperienza che quella del
presente.
Siamo perciò privi di contatto con la realtà. Confondiamo il mondo di cui si
parla, che si descrive e si misura col mondo qual è in realtà. Siamo sotto
l'incantesimo di quegli utili strumenti che sono i nomi, i numeri, i
simboli, i segni, i concetti e le idee. Ecco dunque che la meditazione è
l'arte di sospendere temporaneamente il pensiero verbale e simbolico, un po'
come un pubblico beneducato interrompe le conversazioni quando sta per
iniziare un concerto.
Limitatevi a stare seduti, chiudere gli occhi e ascoltare tutti i suoni che
possono essere nell'aria, senza provare a identificarli o a definirli.
Ascoltate come ascoltereste la musica. Se vi accorgete che il dialogo
mentale continua, non cercate di interromperlo con la volontà. Limitatevi a
lasciare la lingua rilassata, abbandonata e comoda nella mascella inferiore,
e ascoltate i vostri pensieri come ascoltereste gli uccelli che cinguettano
fuori dalla finestra, puro rumore nella vostra testa: i pensieri alla fine
si placheranno da soli, come uno stagno agitato e fangoso si calma e torna
limpido se non lo si disturba.
Ancora, prendete coscienza del vostro respiro e lasciate che i vostri
polmoni funzionino al ritmo loro congeniale. E per un po' restate
semplicemente ad ascoltare e sentire il respiro. Ma, se possibile, non
chiamatelo così. Limitatevi a vivere l'evento non verbale. Si può obiettare
che questa non è meditazione 'spirituale' ma semplice attenzione al mondo
fisico: si dovrebbe però comprendere che spirituale e fisico sono soltanto
idee, concetti filosofici, e che la realtà di cui ora avete coscienza non è
un'idea. Di più, non c'è in voi un io che ne è cosciente. Anche quella era
solo un'idea. Potete udirvi in ascolto?
E adesso cominciate a lasciar 'cadere' il vostro respiro all'esterno,
lentamente e comodamente. Non sforzate né tendete i polmoni, ma lasciate che
il respiro esca allo stesso modo di quando vi abbandonate in un letto
accogliente. Lasciatelo semplicemente andare, andare, e andare. Non appena
c'è un minimo sforzo, fatelo semplicemente rientrare come un riflesso, senza
pressioni o strappi. Non pensate all'orologio. Non pensate a contare.
Mantenete semplicemente questo stato tanto a lungo quanto dura il senso di
beatitudine che dà.
Usando il respiro in questa maniera, scoprite come produrre energia senza
forza. Ad esempio, una delle tecniche (in sanscrito upaya) usate per
quietare la mente pensante e il suo meccanico chiacchiericcio è nota come
mantra - che è il salmodiare un suono in quanto suono, piuttosto che per il
significato. Per cui cominciate a emettere un'unica nota sull'onda
dell'espirazione, all'altezza che vi viene più facile. Gli induisti e i
buddhisti usano per questa pratica sillabe come OM, AUM (cioè HUNG), e i
cristiani possono preferire AMEN O ALLELUIA, i mussulmani ALLAH e gli ebrei
ADONAI: sostanzialmente non fa differenza, dal momento che ciò che conta è
solo e unicamente il suono. Come i Buddhisti Zen potreste usare
semplicemente la sillaba Mu (~). Scegliere questa sillaba, e lasciate che la
vostra coscienza sprofondi giù, giù, giù dentro il suono fino a quando non
provate più nessun senso di sforzo.
Soprattutto, non puntate a un risultato, a un improvviso cambiamento di
coscienza o al satori: l'essenza della pratica della meditazione è tutta nel
concentrarsi su ciò che È, non su ciò che dovrebbe o potrebbe essere. Il
problema è: non usare la forza per svuotare la mente, o per concentrarsi su
un punto di luce o altro, anche se, fatto senza accanimento, queste cose
possono essere meravigliose.
Quanto dovrebbe durare tutto ciò? La mia idea, forse non ortodossa, è che lo
si possa far durare fintanto che non c'è sensazione di sforzo - e può voler
dire arrivare a trenta o quaranta minuti a seduta; dopo di che vorrete
tornare allo stato di normale riposo e distrazione.
Sedendo per meditare, è bene mettere sul pavimento un cuscino abbastanza
consistente, tenere la spina dorsale diritta ma non rigida, tenere le mani
in grembo - a palme in alto - poggiare morbidamente l'una sull'altra e
sedere a gambe incrociate nella posizione del Buddha, nella postura del
mezzo 'loro' o del loto completo, o inginocchiati e seduti all'indietro sui
calcagni. 'Loro' significa che uno o entrambi i piedi poggiano, con la
pianta rivolta verso l'alto, sulla coscia opposta. Queste posture sono
leggermente scomode, ma hanno, proprio per questo, il vantaggio di tenervi
desti.
Può accadere che nel corso della meditazione abbiate visioni stupefacenti,
idee abbaglianti e meravigliose fantasie. Può anche succedervi di avere
l'impressione di stare per diventare chiaroveggenti, o di poter lasciare il
corpo e viaggiare a volontà. Ma tutto ciò è distrazione. Lasciatelo stare e
osservate semplicemente cosa accade ADESSO. Non si medita per acquistare
poteri straordinari:
infatti, se riusciste a diventare onnipotenti e onniscienti, che fareste?
Non ci sarebbero ad attendervi altre sorprese, e tutta la vostra vita
sarebbe come far l'amore con una donna di plastica. Attenti, quindi, a tutti
quei guru che promettono 'meravigliosi risultati' e altri futuri benefici
dal loro insegnamento. Ciò che importa veramente è rendersi conto che il
futuro non esiste, e che il vero senso della vita è l'esplorazione
dell'eterno presente. FERMATEVI, GUARDATE e ASCOLTATE!
Si racconta che un uomo andò dal Buddha con un'offerta di fiori in ambo le
mani. Il Buddha disse: "Lascialo cadere!". Per cui egli fece cadere i fiori
che aveva nella mano sinistra. Il Buddha disse ancora: "Lascialo cadere!",
ed egli lasciò cadere i fiori che teneva nella mano destra. Ma il Buddha
disse: "Lascia cadere quello che non hai né a sinistra né a destra ma al
centro!". E l'uomo fu di colpo illuminato.
È meraviglioso avere la sensazione che tutto ciò che vive e che si muove sta
cadendo o segue la gravità. Dopotutto, la terra sta cadendo intorno al sole,
e a sua volta il sole sta cadendo intorno a qualche altra stella. Poiché
l'energia è semplicemente il prendere la via della minima resistenza.
L'energia è nella massa. La potenza dell'acqua è nel seguire il suo stesso
peso. Tutto viene a colui che ha peso.
Le Ossa dello Zen, di Allan
Watts
(Edizioni Ubaldini Astrolabio, Roma)
Una volta uno studente zen citò al proprio maestro questa antica poesia
buddhista:
Le voci dei torrenti provengono da un'unica grande lingua
I leoni delle colline sono il puro corpo del Buddha. "Non è così?", chiese
lo studente. "Sì", rispose il maestro, "ma è davvero un peccato metterla in
questi termini". Sarebbe stato molto meglio se tale occasione fosse stata
celebrata col più totale silenzio. Se dovessi rivolgervi la parola nello
stile dei vecchi maestri zen, dovrei dare una botta sul microfono e
andarmene. Penso però che siccome tutti voi avete contribuito al
mantenimento del Mountain Zen Center nella speranza di imparare qualcosa, io
devo dirvi qualche parola, sebbene debba avvertirvi che spiegandovi queste
cose vi espongo al rischio di una solenne presa in giro. Ora, se io vi
permettessi di lasciare questa sala stasera con l'idea di aver capito
qualcosa dello zen, avreste mancato completamente il bersaglio. Lo zen è uno
stile di vita, una condizione dell'essere, che non è possibile ridurre a
nessuna forma concettuale.
Qualsiasi concetto, idea o parola io volessi trasmettervi stasera non
potrebbe avere altro obiettivo che dimostrare la limitatezza delle parole e
del pensiero. Dovendo improvvisare qualcosa sullo zen, e voglio proprio
provare a farlo a guisa d'introduzione, è importante che io metta l'accento
sul fatto che lo zen, nella sua essenza. non è una dottrina. Non c'è proprio
nulla in cui ci venga chiesto di credere, e non si tratta di una filosofia,
almeno secondo l'accezione più comune del termine. Non è quindi un sistema
di idee, una rete intellettuale attraverso la quale si prova a catturare il
pesce della realtà. Anzi, il pesce della realtà assomiglia più che altro
all'acqua: scivola sempre tra le maglie della rete, e come l'acqua, quando
lo si incontra non c'é nessun appiglio per afferrarlo. Naturalmente
l'universo intero è come l'acqua: è fluido, è fugace, è mutevole. Un uomo
gettato in mare che non conosce altro che la vita sulla terraferma, che non
ha alcuna dimestichezza con l'idea di nuotare, prova a tenersi sopra
l'acqua. Cerca di aggrapparsi all'acqua, e il risultato è che annega. Mi
riferisco in particolare alle acque della confusione filosofica moderna,
nella quale dio è morto, ogni affermazione metafisica è priva di senso, e
non c'è nulla a cui aggrapparci semplicemente perché stiamo crollando. In
tali circostanze l'unico modo per sopravvivere è imparare a nuotare: ci si
rilassa, si lascia la presa e ci si abbandona all'acqua. Bisogna sapere
respirare nel modo corretto, ma una volta capito che l'acqua ci sostiene, in
un certo senso diventiamo davvero l'acqua.
Se si dovesse provare (ripeto, in modo fuorviante) a illustrare lo zen con
una qualche forma concettuale, si potrebbe ridurlo a queste poche parole: il
nostro universo è pregno di una grande energia e non sappiamo come
chiamarla. Gli uomini hanno escogitato diversi nomi dio Brahman e tao tanto
per fare qualche esempio ma in occidente il termine dio ha talmente tante
associazioni ridicole che la maggior parte della gente non ne può più.
Quando qualcuno dice Dio padre onnipotente la maggior parte degli
ascoltatori si sente in imbarazzo e quindi e necessario trovare nuove parole
Ci piacciono quegli strani nomi che vengono dall'Estremo Oriente, come tao,
Brahman o tathata, perché non hanno le stesse associazioni che ci riportano
alla più sdolcinata santimonia, o agli strani significati che appartengono
al passato. In realtà, alcune delle parole usate dai buddhisti per indicare
l'energia fondamentale del mondo non hanno alcun senso. La parola tathata,
che è il termine sanscrito per 'talità, quiddità,' o 'vastità, in realtà
significa qualcosa del tipo: 'da-da-da', sulla base della parola tat, che in
sanscrito vuol dire 'quello'. Sempre in sanscrito, l'esistenza viene
descritta come 'tat tvam asi', 'quello voi siete', ovvero, in un linguaggio
corrente, 'tu sei quello'. Però da-da-da è il primo suono che viene emesso
dal neonato, allorché si guarda intorno e dice proprio: "Dada-da-da-da ,
ovvero Quello, quello, quello, quello, quello! . I padri se ne compiacciono,
pensando che il piccolo con quel 'da-da' voglia dire 'daddy', invece,
secondo la filosofia buddhista, tutto l'universo è da-dada, vale a dire
diecimila funzioni, diecimila cose, ovvero una talità, nella quale ci
ritroviamo tutti.
La talità muta a seconda delle circostanze, come ogni altra cosa, perché
questo nostro mondo è un sistema che funziona a intermittenza. I cinesi lo
chiamano yin e yang, qualcosa basato sull'adesso ti vedo, adesso non ti
vedo, ci sei, non ci sei. La natura stessa dell'energia è simile all'onda, e
sappiamo bene che le onde hanno una cresta e un ventre. Tuttavia, qualcosa,
perché non c'è niente da cercare. La domanda a questo punto è: "Sto ancora
cercando? Ho capito?"
Tale conoscenza non è un genere di sapere che può essere posseduto, né
qualcosa che si è imparato a scuola, o che può essere attestato da un
diploma. Si tratta di un genere di conoscenza nel quale non c'è nulla da
ricordare né nulla da ridurre in formule. È qualcosa che conosciamo meglio
quando affermiamo di non conoscerlo affatto, perché vuoi dire che non lo
stiamo afferrando, non stiamo cercando di tenerlo ben stretto come se si
trattasse di un concetto. Non è assolutamente necessario farlo, e se
dovessimo provarci, sarebbe come provare a 'mettere le gambe a un serpente'
o 'far crescere la barba a un eunuco', tanto per usare qualche esempio zen,
o, come diremmo noi, 'raddrizzare le zampe ai cani'. Sembra piuttosto
facile, non vi pare? Vorrebbe forse dire che tutto ciò che dobbiamo fare è
rilassarci? Che non c'è più bisogno di andare in giro in cerca di qualcosa,
che possiamo abbandonare la religione, la meditazione, questo e quello e
quell'altro ancora, e tirare avanti vivendo come più ci piace? Ecco come un
padre risponde al figlio che continua a chiedere:
"Perché, perché, perché?". "Perché dio ha fatto l'universo?". "Chi ha creato
dio?". "Perché gli alberi sono verdi?". Alla fine quel padre esclama: Oh
piantala, e mangia la tua merenda". Ma non è così semplice. Tutta questa
gente che cerca di realizzare lo zen per mezzo del non fare nulla in quella
direzione, sta ancora cercando disperatamente di trovano ed è sulla strada
sbagliata. C'è un'altra poesia che dice: "Non puoi ottenerlo pensando, non
puoi afferrano non pensando"; in altre parole:
"Non si può afferrare il significato dello zen cercando di fare qualche
passo in quella direzione, ma allo stesso modo è impossibile penetrarne il
significato evitando di muoversi in quella stessa direzione". Si tratta di
due diversi tentativi di allontanarci da dove siamo, qui e ora, per
dirigerci altrove Il fatto è che possiamo giungere a una comprensione di ciò
che chiamo 'talità' solo cercando di essere completamente qui, e per essere
completamente qui non è necessario alcun espediente, né espedienti attivi né
espedienti passivi, perché in entrambi i casi staremmo cercando di
allontanarci dal momento presente.
È difficile comprendere un linguaggio come questo, e tuttavia per arrivare a
capire di cosa si tratti c'è solo un prerequisito assolutamente necessario:
smettere di pensare. Ora, in ciò che dico non c'è la minima intenzione di
anti-intellettualità, perché io penso molto, parlo molto, scrivo molti libri
e sono una specie di stupido erudito. In ogni caso sapete bene che se
passiamo tutto il tempo a parlare, non ci sarà possibile ascoltare nulla di
quanto gli altri vogliono dirci, e quindi tutto ciò di cui potremo
disquisire sarà il nostro soliloquio. Lo stesso vale per le persone che
pensano di continuo. Uso il verbo 'pensare' per indicare il parlare tra sé e
sé, una conversazione interiore, il costante chiacchiericcio di simboli,
immagini, discorsi e parole all'interno del nostro cranio. Ora, se lo
facciamo di continuo, scopriremo che non abbiamo null'altro a cui pensare
oltre al pensiero stesso, e se da un lato è necessario smettere di parlare
per poter ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, dall'altro è necessario
smettere di pensare per scoprire cos'è la vita. Nel momento in cui smettiamo
di pensare, entriamo immediatamente in contatto con quello che Alfred
Korzybski ha così splendidamente definito 'il mondo inesprimibile', ovvero
il mondo non-verbale. Qualcuno lo chiamerebbe 'mondo fisico', ma tali
termini, 'fisico', 'non-verbale' e 'materiale' sono tutte forme concettuali,
mentre non si tratta affatto di un concetto. Non è neppure un rumore, è
semplicemente 'quello'. Se ci apriamo a quel mondo scopriamo tutt'a un
tratto che tutte le cosiddette differenze tra noi stessi e gli altri, tra la
vita e la morte, il piacere e il dolore, sono puramente concettuali e non
hanno esistenza. Nel mondo che è semplicemente 'quello' non esistono
affatto. In altri termini, se vi colpisco con sufficiente forza, 'Ahi', non
sentite dolore. Se siete nella condizione denominata 'non pensiero', c'è una
determinata esperienza, ma non la chiamate 'dolore'. Quando eravamo piccoli,
e gli altri bambini ci picchiavano, scoppiavamo a piangere e loro ci
dicevano: "Non piangere", perché volevano farci male ma nello stesso tempo
non volevano farci piangere. Ecco perché nello zen c'è la pratica detta
zazen, ovvero la meditazione seduta zen. Nel buddhismo si parla delle
quattro nobili posture dell'uomo: camminare, stare eretti, sedere e
coricarsi; connesse a queste, oltre allo zazen, ci sono altri tre generi di
zen: il modo zen di stare eretti, di camminare e di coricarsi. Viene detto:
"Quando siedi, siedi; quando cammini, cammina; ma qualsiasi cosa tu faccia
non esitare" Naturalmente, potete anche esitare ma occorre farlo bene
Quando al vecchio maestro Hyakujo venne chiesto in che cosa consistesse lo
zen, questi rispose Quando ho fame mangio Quando ho sonno, dormo". Il
postulante controbatte Beh ma non e ciò che fanno tutti? Non sei proprio
come gli esseri ordmari" Oh no rispose il maestro, "gli esseri ordinari non
fanno nulla del genere quando hanno fame non si accontentano di mangiare, ma
pensano a ogni genere di cose. Quando sono stanchi non si accontentano di
dormire, ma passano da un sogno all'altro". So che non piacerà ai seguaci di
Jung, ma arriva un momento in cui si smette semplicemente di sognare e non
ci sono più sogni, di conseguenza si dorme come un sasso. È proprio per
questo che lo zazen, ovvero il 'sedere zen', è una cosa ottima per il mondo
occidentale. Abbiamo corso più del necessario. Non c'è problema, perché
siamo stati attivi, e col nostro agire abbiamo ottenuto un sacco di cose
positive. Tuttavia, ecco cosa ci ha suggerito Aristotele molto tempo fa, uno
dei suoi migliori suggerimenti: "Lo scopo dell'azione è la contemplazione".
In altri termini, a che fine essere sempre, continuamente, terribilmente
occupati? Quando la gente è indaffarata, pensa che arriverà da qualche
parte, che riuscirà a raggiungere la meta prefissata e a ottenere qualcosa.
C'è davvero un valido motivo per agire se sappiamo che non stiamo andando da
nessuna parte, e se sappiamo agire nello stesso modo in cui danziamo,
cantiamo o suoniamo, allora davvero non stiamo andando in nessuna direzione.
Stiamo semplicemente compiendo l'azione pura. Se d'altra parte vogliamo
agire con l'idea che in seguito a tale azione arriveremo in qualche posto,
in cui tutto sarà perfetto, ecco che siamo ricaduti nella ruota della gabbia
dello scoiattolo: condannati senza speranza a ciò che nel buddhismo prende
il nome di samsara, la ruota, o rincorsa, della nascita e della morte. È
questa la conseguenza del pensare di arrivare da qualche parte. Ci siamo
già, e solo una persona che ha scoperto di esserci già è davvero in grado di
agire. Una persona del genere non agisce in modo convulso con l'idea di
arrivare da qualche parte. Può arrivarci con la meditazione camminata, e
cioè con un camminare che non è motivato dall'incontenibile fretta di
raggiungere la propria destinazione, ma perché camminare è in sé stupendo e
camminare è in sé meditazione. Osservare i monaci zen è uno spettacolo molto
affascinante, perché hanno un modo di camminare che non ha pari in tutto il
Giappone. La maggior parte della gente se ne va in giro strascicando i
piedi; se invece è vestita all'occidentale sfreccia via come facciamo noi. I
monaci zen hanno nel loro camminare un dondolio caratteristico: si ha quasi
l'impressione che camminino come i gatti. C'è un qualcosa nel loro stile che
indica la mancanza di esitazioni: vanno per la loro strada normalmente, ma
il loro camminare è un camminare e basta. Non si può agire creativamente se
non sulla base della più assoluta calma, con la mente capace di tanto in
tanto di smettere di pensare.
A prima vista la pratica seduta può sembrare molto difficile, perché se ci
si siede nel modo buddhista, le gambe iniziano a far male. Inoltre molti
occidentali ben presto si innervosiscono, perché trovano noioso stare seduti
a lungo. La ragione per cui lo trovano noioso è che stanno ancora pensando;
se non pensassero non potrebbero rendersi conto del passare del tempo.
Invece il mondo osservato senza il rumore di fondo del chiacchiericcio
mentale diventa interessantissimo, anziché noioso. Le visioni, i suoni e gli
odori più comuni, così come il succedersi delle ombre sulla porta di fronte
a noi, tutte queste cose esistono senza essere nominate, senza che si dica:
"Ecco un'ombra, quello è rosso, quello è marrone, quello è il piede di
qualcuno". Se riusciamo finalmente a smettere di nominare le cose,
cominciamo a vederle. Quando una persona dice: "Vedo una foglia",
immediatamente si pensa a una cosa di forma appuntita con una sagoma dai
bordi scuri e l'interno verde pallido. Non c'è nessuna foglia che sia fatta
davvero così. No, le foglie non sono verdi. Ecco perché Lao-tzu disse: 'I
cinque colori accecano l'occhio dell'uomo. Le cinque note assordano
l'orecchio dell'uomo"
Se possiamo vedere solo cinque colori, siamo ciechi; se nella musica
possiamo sentire solo cinque note, siamo sordi. Se riduciamo ogni suono a
una delle cinque note, e ogni colore a uno dei cinque colori, siamo sordi e
ciechi. Il mondo dei colori è senza limiti, così come lo è il mondo dei
suoni. Solo smettendo di classificare le percezioni del mondo dei colori e
dei suoni possiamo veramente iniziare a vedere e ascoltare. È la disciplina,
se posso permettermi l'audacia di usare tale termine, dello zazen (o
meditazione) che produce la straordinaria capacità dei praticanti zen di
sviluppare grandi arti come il giardinaggio, la cerimonia del tè, la
calligrafia e i grandiosi dipinti della dinastia Song e della tradizione
giapponese suini-e. I maestri zen ritrovano la magia nelle cose più semplici
della vita quotidiana, in particolar modo nella cerimonia del tè, o chanoyu,
che in giapponese vuoi dire 'acqua calda per il tè'. Per citare le parole
del poeta Ho Koji: "Poteri meravigliosi e attività sovrannaturali: attingere
l'acqua, portare la legna".
Sapete che talvolta, ripetendola all'infinito, si può rendere una parola
priva di senso? Prendete per esempio la parola sì'. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Sì.
Sì. Sì. Sì. Diventa ridicola. Ecco perché nell'addestramento zen si usa la
parola mu, che vuol dire 'no'. Se ripetiamo questa parola per molto tempo,
finché cessa di avere significato, diventa magica, e quello è il suono. Il
modo più semplice per smettere di pensare è innanzitutto pensare a qualcosa
che non abbia significato. Ora, naturalmente, parlandovi di mu, oppure del 'sì',
del contare il respiro oppure dell'ascoltare un suono privo di significato,
quello che voglio è farvi smettere di pensare per lasciarvi affascinare dal
suono. In seguito, approfondendosi la vostra concentrazione, giungerete a un
punto nel quale il suono scompare e sarete completamente aperti. A quel
punto ci sarà una specie di preliminare del cosiddetto sa tori, e penserete:
'Accidenti, eccolo!". Sarete così felici che vi metterete a passeggiare per
aria. Quando chiesero a Daisetsu Suzuki a cosa assomigliasse il satori,
rispose: "Beh, è come ogni altra esperienza quotidiana, solo che si sta a
quattro dita da terra". C'è un altro detto secondo il quale lo studente che
ha raggiunto il satori precipita all'inferno dritto come una freccia. Se si
ha un'esperienza spirituale, sia attraverso lo zazen sia per mezzo di
qualsiasi altra cosa che porti comunque a tale esperienza e si prova ad
afferrarla, dicendo. "Ecco, ci sono arrivato...", in un lampo la si perde,
vola via, perché nell'istante in cui si prova ad agguantare una cosa
vivente, questa scivola via, come l'acqua tra le dita. Più stringiamo il
pugno, più ci sfugge tra le dita; non c'è niente da afferrare perché non c'è
bisogno di afferrare nulla: l'abbiamo sempre avuto sin dall'inizio.
Naturalmente è possibile ottenere tale esperienza con diversi metodi di
meditazione. Il problema sono quelle persone che una volta conclusa
l'esperienza se ne vantano. Dicono: "L'ho visto". Le persone che studiano lo
zen e si vantano con gli amici della lunghezza delle loro sedute e del
dolore alle gambe, ripetendo com'è stata dura, sono altrettanto
intollerabili. La disciplina dello zen non è intesa come qualcosa di
volutamente duro, e non viene mantenuta con spirito masochista e con
l'ottica puritana che la sofferenza è qualcosa di positivo. Quando andavo a
scuola, in Inghilterra, la premessa educativa fondamentale era che la
sofferenza formasse il carattere. Di conseguenza tutti gli studenti più
anziani erano liberi di malmenare i più giovani, con la coscienza
perfettamente a posto, perché dopotutto gli stavano facendo un favore. Era
considerata una cosa utile perché in tal modo i giovani potevano rafforzare
il loro carattere. Per colpa di un tale atteggiamento la parola 'disciplina'
ha iniziato ad assumere una pessima fama, e l'ha conservata per lungo tempo.
Nei confronti della disciplina zen, invece, dobbiamo mantenere un
atteggiamento completamente nuovo, perché senza la sua quiete e la sua
funzione pacificante la vita diventerebbe caotica. Quando alla fine
giungiamo a lasciar andare tutto, dobbiamo stare maledettamente attenti a
non scioglierci e divenire completamente liquidi, perché non c'è più nulla a
cui afferrarci. Quando capita di chiedere alla gente di sdraiarsi a terra e
rilassarsi, si scopre che la maggior parte è piena di tensioni, perché non
crede davvero che il pavimento la sosterrà, e quindi continua a fare uno
sforzo per tenersi su. Molti sono in ansia e hanno paura che se non si
tengono su, per quanto ci sia sempre il suolo a sostenerli, improvvisamente
si trasformeranno in una pozzanghera e goccioleranno via in tutte le
direzioni. D'altro canto ci sono persone che, non appena gli viene chiesto
di rilassarsi, si afflosciano come uno straccio. Ora, l'organismo umano è
una complessa combinazione di parti dure e molli, di carne e ossa. Nello zen
c'è un aspetto che non ha niente a che vedere né col fare né col non-fare, e
che tuttavia riguarda il semplice fatto che noi siamo quello e non dobbiamo
cercarlo: questa è la carne dello zen. C'è poi l'aspetto nel quale possiamo
tornare al mondo con un atteggiamento di non-ricerca, sapendo che siamo
quello e tuttavia evitando di crollare: qui ci vogliono le ossa dello zen.
Farsi le ossa dello zen è una delle cose più difficili.
Una certa generazione di cui noi tutti siamo a conoscenza si fece una certa
idea dello zen e cominciò uno stile di pittura e di scultura, nonché di
vita, in cui tutto era permesso. Credo che ormai siamo guariti da quella
fase. I nostri pittori stanno cominciando a tornare all'idea di bellezza,
allo splendore della chiarezza espressiva e dei colori vividi. e non c'è
stato nulla di simile sin dalle vetrate di Chartres. È un buon segno, ma
richiede la presenza di un senso di libertà nella nostra vita quotidiana.
Non sto parlando della semplice libertà politica. Mi riferisco alla libertà
che è provocata dal sapere che si è quello, per sempre, senza limiti, e sarà
così bello quando arriverà la morte, perché ci sarà un cambiamento, ma
quello tornerà in qualche altra forma. Se abbiamo capito tutto ciò, se
abbiamo penetrato la natura del miraggio universale, a quel punto dobbiamo
stare attenti, perché possiamo avere in noi dei semi di ostilità, semi di
orgoglio, semi che ci spingono a voler umiliare gli altri, o a voler
semplicemente sfidare le normali regole della vita. Ecco perché nei
monasteri zen ai novizi vengono assegnati i compiti più leggeri, e più
anziani si è, più sono impegnativi i propri doveri. Per esempio, spesso la
pulizia della toilette tocca al roshi. Vediamo in ciò una splendida
concezione estetica, molto raffinata, perché proprio il rispetto continuo di
tale ordine evita che tutta l'energia contenuta nel sistema ci dia alla
testa. La comprensione dello zen, la comprensione del risveglio, ovvero la
comprensione dell'esperienza mistica è una delle cose più pericolose al
mondo, e per la persona che non può contenerla, equivale a far passare una
corrente di un milione di volt in un rasoio elettrico. Si esce fuori di
testa e fuori si rimane.
Chi esce in questo modo viene definito pratieka-buddha: uno che penetra nel
mondo trascendente e non torna più indietro. Dal punto di vista del
buddhismo ha commesso un errore, perché nel buddhismo non c è differenza
fondamentale tra il mondo trascendente e il mondo di tutti i giorni. Il
Bodhisattva non raggiunge il nirvana e vi resta poi perpetuamente; torna
indietro e vive una normale vita quotidiana, per aiutare gli altri esseri a
comprendere anche loro. Non che torni indietro perché ha preso una sorta di
solenne impegno ad aiutare l'umanità, o per una qualsiasi altra pia
inclinazione. Torna perché ha visto che i due mondi sono identici, e vede
tutti gli altri esseri come Buddha. Per usare una frase di G. K. Chesterton:
"Ora per strada qualsiasi cenno umano sembra una gran cosa, una ben strana
democrazia, un milione di maschere di dio". È fantastico osservare la gente
e scoprire che in realtà, nel loro intimo, sono illuminati e sono quello,
sono i volti del divino. Ci guardano e dicono:
"Oh no, ma io non sono divino, sono un semplice e ordinario me stesso". Noi
torniamo a osservarli in quel modo curioso e scopriamo la natura Buddha, che
ci viene incontro dal loro sguardo mentre dicono che non lo e, e lo dicono
con assoluta sincerità. Ecco perché quando ci troviamo a faccia a faccia con
un grande guru, con un maestro zen, questi ci osserva con quel suo strano
sguardo. Gli diciamo: "Maestro, ho un problema. Sono veramente confuso e non
capisco". Lui ci scruta ancora in quel modo particolare, finché pensiamo:
"Povero me! Sta leggendo i miei pensieri più nascosti. Sta guardando tutte
le mie negatività, la mia codardia, tutti i miei difetti". Niente di tutto
ciò. Non è nemmeno interessato a quelle cose. Volendo usare una terminologia
Induista, sta osservando lo Shiva in noi e gli sta dicendo: "Mio dio, Shiva,
perché non vieni fuori?".
Il Bodhisattva, al contrario del pratieka-buddha, non si rifugia in
un'estasi permanente, non entra in una specie di samadhi catatonico. Non che
io voglia criticare tali condizioni: ci sono persone che possono farlo
perché è la loro vocazione, la loro specialità. Proprio come una cosa lunga
è il corpo lungo del Buddha e una cosa breve è il corpo breve del Buddha, se
giungiamo davvero a comprendere lo zen, ci rendiamo conto che l'idea
buddhista di illuminazione non è inclusa nella nozione di trascendente. Né
d'altra parte è inclusa nella nozione di ordinario, o in termini quali
finito e infinito, eterno o temporale: sono tutti concetti.
Non sto parlando di regolare la normale vita quotidiana secondo una
prospettiva metodica e ragionevole; non vi sto dicendo: "Se foste delle
brave persone, ecco come dovreste comportarvi". Per amor di dio, non cercate
di essere 'brave persone'. Ma se non possedete quella struttura fondamentale
basata su un certo tipo di ordine e di disciplina, allora la forza della
liberazione fa esplodere il mondo: e una corrente troppo forte, che un
semplice cavo elettrico non può reggere.
Quindi diventa terribilmente importante andare oltre la prospettiva
dell'estasi. Sì, l'estasi è carne soffice e amabile, da abbracciare e
baciare, e in ciò non c'è niente di male. Tuttavia, oltre l'estasi ci sono
le ossa, ciò che chiamiamo la dura realtà dei fatti, ciò che ci accade nella
vita quotidiana. Non dovremmo dimenticarci di citare i fatti più piacevoli,
e ce ne sono molti. Ma la realtà nuda e cruda, il mondo percepito nella
condizione ordinaria, quotidiana, della nostra coscienza non è differente
dal mondo dell'estasi suprema. Supponiamo che, come spesso accade, la nostra
concezione dell'estasi sia riferita all'interiorità, al percepire una luce.
C'è una poesia zen che dice: "L'improvviso scoppio del tuono, le porte della
mente che cedono e si spalancano, e là siede un vecchio ordinario". C'è
quest'improvvisa visione, il satori, le porte della mente si aprono ed ecco
che nel mezzo della scena c'è un vecchio, una persona ordinaria. Il nostro
piccolo sé. Lampi, una cascata di scintille. Nel tempo di un batter di
ciglia non siamo stati in grado di vedere. Perché? Perché la luce è qui; la
luce... Ogni mistico del mondo ha visto la luce, quella brillante energia
fiammeggiante che è rinchiusa in ogni cosa, più brillante di migliaia di
soli. Ora provate: immaginate di percepirla, proprio come potreste vedere
l'aura intorno ai Buddha, proprio come se si trattasse della visione
beatifica di Dante alla fine del suo viaggio nel paradiso. Vivida, davvero
vivida, una luce così brillante che è come la chiara luce del vuoto nel
Libro dei Morti tibetano; qualcosa di così brillante da superare persino la
luce stessa. La vedete ritirarsi, e ai margini c'è come una grande stella,
che diventa un bordo di colore rosso, e poi arancione, giallo, verde, blu,
indaco e viola; vedete apparire quel grande mandala, come un grande sole.
Oltre il viola c'è il nero, un nero che ricorda l'ossidiana, non una tinta
opaca, ma quasi trasparente, come lacca. Ancora, dal nero scaturisce il
suono, proprio come dallo yin viene lo yang. Assieme alla luce bianca c'è un
suono così formidabile che non riuscite a sentirlo, così perforante da far
saltare le orecchie. Quindi, insieme ai colori il suono discende la scala
degli intervalli armonici, sempre più giù sino a raggiungere un profondo
rimbombo, talmente vibrante da diventare qualcosa di solido, e si comincia a
percepirne l'analoga gamma strutturale. Ora, per tutto questo tempo avete
continuato a osservare una specie di fenomeno radiante, che però dice:
Sai, non è tutto qui quello che so fare", al che i raggi prendono a
muoversi, a danzare, e in modo del tutto naturale anche il suono comincia a
scuotersi, a oscillare, così come capita. Poi le strutture iniziano a
mutare, e dicono: "Bene, sei stato qui a osservare questa cosa mentre
continuavo a descriverla fino al limite delle due dimensioni. Ora
aggiungiamo una terza dimensione, ti arriverà proprio ora". Nel frattempo,
continua: "Non stiamo procedendo solo così, muovendoci in questo modo, ora
facciamo qualche piccolo ghirigoro, e poi in circolo, così . E prosegue:
Bene, non è che l'inizio, possiamo andare dappertutto, fare angoli retti e
giravolte", all'improvviso potete vedere tutto sin nei minimi dettagli che
diventano talmente intensi da poter contenere molte piccole figure
all'interno di quella che pensavate fosse originariamente la figura
principale. Il suono comincia a evolversi, raggiungendo una sorprendente
complessità, onnipervadente, e tutto questo fenomeno continua ad andare
avanti, avanti, avanti, finché pensate di stare per uscire di testa, e
all'improvviso diventa... Ma sì, siamo noi, seduti qui intorno. Grazie,
grazie di cuore.
Taoismo e Zen
Secondo me la vita è un processo spontaneo. Il termine cinese per
"natura" è tzu-jan, che, significa "ciò che è spontaneamente quello che è",
"ciò che accade". E' ben curioso che sia proprio la nostra grammatica, la
stessa che regola tutte le principali lingue europee, ad impedirci di
immaginare un processo che accade spontaneamente. Ogni verbo deve avere un
pronome per soggetto, deve avere un agente, e noi di norma pensiamo che una
cosa non sia al proprio posto se non c'è qualcuno o qualcosa che le assegna
quel posto, se non c'è un responsabile; di conseguenza l'idea di un processo
che avviene totalmente da solo ci spaventa: ci sembra che manchi l'autorità.
" .... "Quello di cui sto parlando è il nostro senso d'identità, il nostro
senso d'alienazione, e le complicazioni in cui ci cacciamo vedendo la nostra
sopravvivenza come un dovere." .... " Sapere d'essere Dio è il marchio della
follia. E' assolutamente tabù, particolarmente nella religione cristiana.
Per averlo saputo, Gesù fu crocifisso e i cristiani hanno detto: "D'accordo,
Gesù era Dio, ma finiamola qui. Nessun altro".Il Vangelo è la rivelazione
per noi tutti di qualcosa che gli indiani hanno sempre saputo: "Tat tvam asi",
tu sei quello! Se Gesù fosse vissuto in India, si sarebbero congratulati con
lui per aver scoperto d'essere Dio, anziché crocifiggerlo. Ci sono stati
molti in India che hanno saputo d'essere Dio sotto mentite spoglie. Sri
Ramakrishna, Srí Ramana Maharshi, Krishna e il Buddha: tutti costoro l'hanno
scoperto, poiché non è una rivendicazione esclusíva che uno avanza per sé,
d'essere quello, tutti sono quello, e nel momento in cui uno guarda negli
occhi dell'altro vede l'universo che lo guarda a sua volta. Per cui siamo in
una situazione ín cui è tabù sapere d'essere Dio, e non dobbiamo ammettere
che sappiamo chi siamo, in modo da avere l'emozione, l'effetto mozzafiato
del sentirci perduti, sentirei alienati, sentirci soli, privi,
d'appartenenza. Nel linguaggio quotidiano noi affermiamo che veniamo al
mondo, ma in realtà non facciamo nulla del genere. In realtà proveniamo dal
mondo. Proprio come il frutto che proviene dall'albero, l'uovo dalla
gallina, il neonato dal grembo della madre, noi siamo sintomatici
dell'universo. Esattamente come nella retina ci sono miriadi di piccole
terminazioni nervose, noi siamo le terminazioni nervose dell'universo. E
succedono cose affascinanti. Dal momento che noi siamo tanti, l'universo ha
tante facce; per cui il suo punto di vista di se stesso non sarà di
pregiudizio. Siamo qui e vogliamo scoprire cosa succede intorno a noi.
Guardiamo attraverso i telescopi per scoprire le cose più remote, e
attraverso i microscopi per scoprire il cuore delle cose; e quanto più
sofisticati si fanno i nostri strumenti tanto più precipìtosamente il mondo
ci sfugge. Quanto più potenti diventano i nostri telescopi tanto più
l'universo si espande. Siamo noi stessi che sfuggiamo a noi stessi. Sapete,
alcuni anni fa pensavamo di esserci riusciti. Avevamo trovato una cosa
chiamata atomo e sembrava fatta. Ma a quel punto, hop!, salta fuori
l'elettrone. E dopo ancora, bang, il protone. E superate tutte quelle cose,
ecco arrivarne ogni sorta di nuove: mesoni, antiparticelle, e via via sempre
peggio. Siamo un sistema autosservante che somiglia al serpente, l'uroboro,
che si morde la coda e cerca di ingoiarsi per scoprire cos'è. E questo che è
in realtà la ricerca del "Chi sono io". Diciamo "Mi piacerebbe vedermi": ma
proviamo a guardarci la testa. Riusciamo a vederla? Non è nera e non c'è
neppure uno spazio vuoto dietro agli occhi - è solo una semplice assenza. E
qui la storia s'ínterrompe. La maggior parte di noi dà per scontato che lo
spazio sia níente, che non conti e non contenga energia. Ma è un dato di
fatto che lo spazio è la base dell'esistenza. Come potremmo avere le stelle
se non ci fosse lo spazio? Le stelle si accendono a causa dello spazio e ci
sono cose che vengono fuori dal nulla esattamente alla stessa maniera, come
quando, ascoltando senza niente di' particolare in mente, sentiamo i mille
suoni del silenzio. E' stupefacente. Il silenzio è l'origine del suono
esattamente come lo spazio è l'origine delle stelle e la donna è l'origine
dell'uomo. Se ascoltate e prestate profondamente attenzione a ciò che è,
scoprirete che non c'è un passato né un futuro, né un ascolto. Non potete
udirvi ascoltare. Vivete nell'eterno presente e siete l'eterno presente.
Veramente di una semplicità straordinaria, e le cose stanno proprio così.
Tornando al nostro discorso: ho iniziato dicendo che la sopravvivenza, il
continuare a vivere è un processo spontaneo; e l'amore è qualcosa di molto
simile. Il problema è che quando eravamo bambini, le persone più grandi di
noi, quelle che sapevano tutto, ci hanno detto che era nostro dovere amarle.
Dio ha detto: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta
la tua anima, con tutta la tua mente. Amerai il prossimo tuo come te
stesso". E analogamente, nostra madre ci ha detto: "Devi andare al bagno
dopo colazione", "Cerca di addormentarti", "Togliti quell'espressione dal
viso", "Smetti di tenere il broncio", "Perché stai arrossendo", "Fatti
animo!", "Fai attenzione!". E tutti questi sono ordini basati su una regola
fondamentale: si esige che tu faccia ciò che ha un senso solo se fatto
spontaneamente. Questa è la formula. Tu devi "amarmi". E' un doppio legame,
e questo fatto ci rende tutti estremamente confusi. Se il marito dice alla
moglie: "Tesoro, mi ami?", lei potrebbe rispondere: "Faccio del mio meglio".
Ma nessuno vorrebbe una risposta del genere. Tutti vogliono sentirsi
rispondere "Ti amo tanto che ti mangerei. Non riesco a non amarti, puoi fare
di me ciò che vuoi". Per cui siamo costretti a continuare ad amare,
esattamente come siamo costretti a continuare a vivere. Sentiamo che
dobbiamo continuare, che è nostro dovere. Siamo stanchi di vivere e paurosi
di morire, ma dobbiamo andare avanti. Perché? Beh, si risponde, ci sono
altri che dipendono da me, ho dei figli e devo continuare a lavorare per
mantenerli. Ma tutto questo insegna ai figli lo stesso atteggiamento, per
cui continueranno anche loro a trascinarsi per mantenere í loro figli, che a
loro volta impareranno da loro a trascinarsi, costi quello che costi. Così
io osservo con totale sbigottimento come il mondo va avanti. Vedo tutti
quelli che fanno i pendolari, che guidano l'auto come forsennati per correre
in un ufficio a guadagnare soldi - per cosa? Per poter continuare a fare le
stesse cose: e a pochissimi di loro tutto questo piace. La persona
intelligente si fa pagare per giocare - questa è l'arte del vivere. Ma
l'intera idea di lottare e ammazzarsi di fatica per andare avanti a vivere è
totalmente príva di senso. Albert Camus, all'inizio del suo Mito di Sisifo,
ha fatto un'affermazione estremamente saggia: "L'unica domanda fondamentale
che ci si deve porre nella vita è se suicidarsi o no. Rifletteteci sopra.
Dovete continuare? Sarebbe tanto più semplice smettere. Niente più problemi,
nessuno più che si lamenta che non ce la fa più. Che effetto fa la morte?
Andare a dormire e non risvegliarsi. Oh, com'è terribile restare al buio in
eterno! Ma non sarebbe niente del genere. Non sarebbe essere sepolti vivi
per sempre. Sarebbe non essere mai esistiti. Non soltanto non essere mai
esistiti noi, ma che non sia mai esistito niente in assoluto; la qual cosa è
esattamente com'era prima che nascessimo. Proprio come abbiamo una testa che
non possiamo vedere, così la nostra realtà ultima o la sostanza del nostro
essere è il nulla. Shunyata è il termine usato dal Buddhismo per il vuoto,,
che è spazio, che è coscienza, che è quello in cui "noi viviamo e ci
muoviamo e abbiamo il nostro essere" - Dio, il Grande Vuoto. Fortunatamente,
non c'è modo di sapere che cos'è, ché se potessimo saperlo, ne saremmo
tediati. C'è stato un grande filosofo olandese, Van Der Leeuw, che ha detto:
Il mistero della vita non è un problema da risolvere ma una realtà da
sperimentare". Fortunatamente, nel pieno di tutta la consapevolezza, ecco
l'eterna domanda, l'eterno problema del non conoscere la realtà delle cose.
Di conseguenza la vita conserva il suo interesse. Siamo sempre lì, che
tentiamo di scopríre; ma la vita non offre risposte. L'unico modo di
rispondere alla domanda: "Che cos'è la realtà" è classificarla. Sei è o sei
non è? Sei maschio o sei femmina? Sei repubblicano o seì democratico? Sei
animale, vegetale, minerale, stagnino, sarto, soldato, marinaio, ricco,
povero, mendicante, ladro? Siamo tutti classificati, ma quello che
fondamentalmente è non rientra in nessuna classificazione possibile. Nessuno
sa che cos'è ed è impossibile porre la domanda in una maniera che abbia un
senso. Sono molte le teorie filosofiche su che cosa è la realtà. Ci sono
quelli che dicono: "Bene, la realtà è materiale; sapete, c'è una cosa
chiamata materia". E i filosofi, sempre impegnati nelle loro lezioni sulle
cattedre delle università, picchiano inevitabilmente la mano sul piano della
cattedra e dicono: "Ora, questa cattedra ha o non ha una realtà". Quando il
dottor Johnson senti parlare della teoria del vescovo Berkeley che ogní cosa
è in realtà mentale, la smentì tirando un calcio a un sasso e dicendo: "Di
sicuro, per chiunque abbia un po' di cervello, questo sasso è concretamente
fisico e materiale". Laddove, sul versante opposto, pensatori più sottili
dicono: "No, non c'è niente di materiale, è tutto una costruzione mentale.
Il mondo intero è un fenomeno di coscienza". Ai tempi del vescovo Berkeley
non si sapeva molto di neurologia. Ma oggi ne sappiamo molto di più e
possiamo sostenere la stessa teoria in maniera assai più sofisticata: è la
struttura del nostro sistema nervoso che determina il mondo che vediamo. In
altre parole, in un mondo senza occhi il sole non sa-rebbe luce. In un mondo
senza terminazioni nervose tattili il fuoco non scotterebbe. In un mondo
privo di muscoli, le pietre non sarebbero pesanti, e in un mondo senza
epidermide le pietre non sarebbero dure. E tutta una questíone di relazione,
per capirci. Nella vecchia domanda: "Quando in una foresta cade un albero e
nessuno lo sente, l'albero fa rumore o no?", La iisposta è assolutamente
semplice. Il rumore è una relazione fra le vibrazioni dell'aria e i timpani
delle orecchie. Se colpisco un tamburo che non ha la pelle, posso colpire
quanto forte voglio, non provocherò nessun suono. Per cui l'aria può
continuare a vibrare in eterno: se non c'è il timpano dell'orecchio o non
c'è il sistema uditivo non ci sarà nessun rumore. Noi in viitù della nostra
struttura fisica evochìamo il mondo delle vibrazioni, che diversamente
sarebbero il vuoto. Noi creiamo dal vuoto ma siamo anche nel mondo. Il
nostro corpo, il nostro sistema nei-voso, sono qualcosa che esiste nel mondo
esteriore. Tu sei nel n-iio mondo esteriore e io sono nel tuo mondo
esteriore. Per cui è una situazione del tipo di quella dell'uovo e della
gallina, assolutamente affascinante. Da un punto di vista neurologico molto
concreto, noi evochiamo il mondo in cui viviamo e al tempo stesso siamo
qualcosa che il mondo sta creando. Dopotutto, lo scienziato spiegherà che
ognuno di noi è un vorticare di sostanze e processi elettronici, così come
ogni altra cosa. E tutto un'unica danza, ed è assolutamente meraviglioso
perché prende coscienza di sé stesso attraverso noi. L'intera esistenza è
una vibrazione, e tutte le vibrazioni hanno due aspettí di fondo. Uno lo
chiameremo 'acceso' e l'altro 'spento'. ".." Tutto ciò che ci succede è un
accendersi e spegnersi, accendersi e spegnersi continuo. Prendiamo la
sensazione della luce. La vibrazione della luce è talmente veloce che la
retína non registra lo spento, ma trattiene l'impressione dell'acceso: di
conseguenza i nostrì occhi vedono le cose come relativamente stabili. Ma se
chiudiamo gli occhi e cí concentrìamo sull'ascolto, udiamo tanto
l'intensificarsi che lo smorzarsì della vibrazione sonora, ín pallicolare
nei regístri bassi del suono. Nei registri alti non riusciamo a udire lo
smorzarsi, udiamo solo l'intensificarsi. Ma quando entriamo nei registri
bassi, udiamo il forte e il piano della vibrazione. In realtà tutto ciò che
esiste nel mondo fisico è pulsazione, è elettrícità positiva e negativa.
Leggete i primi due paragrafi della voce "Elettricità" nella quattordicesima
edizione dell'Enciclopedia Britannica. Si tratta di un dotto articolo
scientifico con ogni sorta di informazioni tecniche e di formule, che però
inizia in chiave puramente metafisica. "L'elettricità", afferma l'autore, è
un assoluto. Non conosciamo niente altro di simíle. E' un fondamentale e vi
rendete conto che è un discorso di teologia pura. Perciò così stanno le
cose: tutto si accende e si spegne, tutto pulsa, feinmina e maschio, Yin e
Yang, ora lo vediamo ora non lo vediamo. La cultura occidentale del
diciannovesimo secolo, in cui siamo cresciuti, ci ha educati a pensare che
quest'energia che pulsa è organicamente stupida, è un fatto puramente
meccanico. Freud l'ha chiamata 1ibido'. Altri l'hanno chiamata energia
cieca, con la conseguenza che noi sentiamo di essere, in quanto esseri
umani, fi-titto del caso. Un milione di scimmie al lavoro su un milione di
macchine da scrivere per un milione d'anni potrebbero, dal punto di vista
statistico, tirar fuori la Bibbia. Naturalmente, una volta arrivate alla
fine, tornerebbero a dissolversi nell'insensatezza. Così noi siamo stati
educati a sentirei frutto del caso, dei puri accidenti. Questa è
alienazione, e questo è il grande problema. Per me è assolutamente ovvio che
non siamo accidenti. C'è chi dice che non siamo altro che microbi
striscianti attorno a una sfera di roccia, che ruota attomo a una stella
insignificante, all'estrema periferia di una galassia minore. Perché la
gente dice cose del genere? Per poter affermare: 1° sono un tipo realistico.
Non ho paura di guardare la realtà in faccia, ed è una realtà dura. L'idea
che lassù ci sia qualcuno che si prende cura di noi è un'idea per vecchiette
e rammolliti e io penso che quest'universo sia un mucchio di merda". Questo
è il messaggio che captiamo da certe persone. Analizzate sempre la filosofia
di una persona e saprete che cosa questa persona pensa di se stessa. La
nostra filosofia è il nostro ruolo, il gioco che scegliamo di giocare. lo
ammetto che la mia filosofia è il modo in cui io imposto il mio gioco. E' la
mia grande recita. E se devo mettere in scena qualcosa, metterò in scena il
più grande spettacolo di cui sono capace e dirò: "Al diavolo tutte le
chiacchiere, so benissimo che sono impeirnanente, che sono una
manifestazione precaria di un che-che-non-c'è-niente-di-più-che". E questo è
quello che voglio. Sono una manifestazione della sostanza stessa
dell'universo, che è ciò che tutti gli uomini chiamano Dio, Atman o Brahman.
E penso che sia fantastico saperlo. E fantastico sapere che' non è solo una
teoria, ma è una sensazione positiva e reale dentro di te. A questo punto la
mia funzìone è, se e per quanto è possibile, di pai-tecipare agli altri
questa sensazione, cosi che non abbiano più bisogno di psicoterapia, né di
guru o di religioni - che siamo liberi, semplicemente.
E' qui che la psicologia
dell'Occidente può prendere lezione dalla psicologia dell'Oriente, la quale
presta più attenzione al modo di accettare e meno alle cose da accettare.
Essa è interessata a creare uno stato mentale preparato a ogni eventualità,
a ogni sorpresa che venga sia dall'universo esterno sia dall'universo
interno. Troppo poco risalto è dato a questo aspetto dell'opera da
sconsiderati professionisti della psicologia dell'inconscio, così che
facilmente l'analisi risulta piuttosto astratta dalla vita. L'analisi non è
qualcosa a cui si possa lavorare solo di notte, nel paese dei sogni, e la
salute psicologica non può essere comperata a cento dollari la visita ogni
giovedì pomeriggio. Una sera un amico mi telefona e mi annuncia che deve
rincasare presto perché il suo analista lo ha incaricato di affrontare un
problema". Quando è necessario rincasare presto, chiudersi in camera,
sedersi solennemente, prendere da un cassetto il problema e affrontarlo,
cominciamo a chiederci con stupore che cosa sia avvenuto di una certa
indispensabile qualità chiamata umorismo. L'analisi non deve assolutamente
astrarsi dalla vita, ma, quando si dà eccessivo risalto al sogno, al
simbolismo inconscio, al disegno e alla pittura inconsci, e alla vita di
fantasia in generale, si corre il rischio di dividere la vita in due metà e
trascurare i rapporti che le legano, come se l'intero processo non
richiedesse altro che di essere sviluppato nel mondo del sogno e della
fantasia.
Molte di queste difficoltà sarebbero superate, se coloro che non possono
giovarsi di un savio analista, avessero la chiara intelligenza dei fini
dell'opera psicologica, e anche qui la visione di sistemi orientali come il
Taoismo e varie forme di Buddhismo è molto indicativa. Infatti qui
l'obiettivo non è raggiungere uno stadio - particolare; è trovare il
giusto atteggiamento mentale in quale che sia lo stadio in cui possa
capitare di trovarsi. Questo, a dire il vero, è un principio fondamentale di
quelle forme di psicologia orientale che passeremo in rassegna. Nel corso
della sua evoluzione l'uomo passerà attraverso un numero indefinito di
stadi; si arrampicherà sulla cresta di un monte per trovare la strada che lo
porti oltre la cresta di un altro e di un altro ancora e così all'infinito.
Nessuno stadio è definitivo, perché il significato della vita sta nel suo
movimento e non nel luogo verso cui si muove. Un nostro proverbio dice che
viaggiare bene è meglio che arrivare, il che si avvicina all'idea orientale.
La saggezza non consiste nell'arrivare a un luogo particolare e non si deve
pensare che la si raggiunga necessariamente con l'arrampicarsi su una scala
i cui pioli sono gli stadi successivi dell'esperienza psicologica. Quella
scala è senza fine e l'accesso all'illuminazione, alla saggezza o alla
libertà spirituale si può trovare su uno qualunque dei suoi pioli. Se
lo scopri, non significa che non dovrai continuare ad arrampicarti su per la
scala; dovrai continuare ad arrampicarti esattamente come dovrai continuare
a vivere. Ma l'illuminazione si trova con la piena accettazione del posto
dove ti trovi ora. L'uomo moderno si trova nello stadio
dell'evoluzione umana in cui c'è una divisione massima fra il suo Io e
l'universo; per lui l'illuminazione è l'accettazione totale di quella
divisione. Le tecniche psicologiche falliscono perché non si accettano
pienamente i vari stadi coinvolti; questi si accettano con il solo scopo di
raggiungere una certa meta, come per esempio lo stato di "individuazione"
simboleggiato dal mandala. In tali circostanze quello stato si può
raggiungere" ma non vi si trova ciò che intimamente si desidera. Il
risultato è che quanti immaginano di aver completato quella fase di lavoro
psicologico, sono spesso infelici come sempre.
La semplice esplorazione dell'inconscio non porta alla saggezza, perché uno
sciocco potrà imparare molto e sperimentare molto, ma sarà sempre uno
sciocco. Diventa saggio solo quando ha l'umiltà di lasciarsi libero di
essere uno sciocco. Come dice Chuang Tze: "Chi sa di essere uno sciocco non
è un grande sciocco". Infatti lo sciocco si rivela sempre per il suo
orgoglio, per l'illusione che la grandezza si misuri semplicemente con il
metro della sapienza psicologica e che caricandosi di nuove esperienze
diventerà saggio. La psicologia dell'inconscio è il suo felice terreno di
caccia. "Dopo cinque o sei anni di analisi", egli pensa, "se lavorerò sodo e
passerò attraverso tutti gli stadi necessari, diventerò una persona reale,
un uomo autentico, libero". Veramente quei cinque anni di lavoro (la cui
realizzazione richiederà anche l'istupidimento dell'analista) potranno
insegnargli qualcosa, se per avventura gli mostreranno che egli è simile a
quel somaro che cercava il fuoco con la lanterna accesa. Talvolta il giro
più lungo è la via più breve per tornare a casa.
La via dell'accettazione e della libertà spirituale si trova non con
l'andare da qualche parte, ma nell'andare, e lo stadio in cui se ne
può conoscere la felicità è ora, in questo stesso momento, nello stesso
posto in cui ti capita di stare. Sta nell'accettare pienamente lo stato
della tua anima, qual è ora, non nel tentare di portarti con la forza in un
altro suo stato, che per orgoglio immagini che sia superiore e più
progredito. Non si tratta di sapere se il tuo stato presente sia buono o
cattivo, nevrotico o normale, elementare o progredito; si tratta di sapere
quale sia. L'essenziale non è accettarlo al fine di passare a uno
stato "superiore", se cosi si può chiamare. A mo' di illustrazione, ecco la
storia di come il saggio Buddhista Hui-neng illuminò Chen Wei-ming, il quale
]o aveva inseguito per rubargli il mantello e la ciotola delle elemosine del
Buddha. Hui-neng li aveva deposti su una roccia e, quando Chen andò per
sollevarli, trovò che era impossibile. Preso dal terrore, Chen protestò che
non era venuto per il mantello e la ciotola, ma per la saggezza che
rappresentavano. " Poiché sei venuto per il Dharma", disse Hui-neng, "non
pensare al bene, non pensa re al male, ma vedi quale sia la tua vera natura
(letteralmente: " faccia originaria " ) in questo momento ". A queste
parole, Chen fu d'improvviso illuminato; grondando di sudore e salutando
Hui-neng con lacrime di gioia, domandò: "Oltre a queste parole segrete e a
questi occulti significati che mi hai appena largiti, c'è qualcos'altro di
segreto?". Hui-neng rispose: "In ciò che ti ho rivelato non c'è nulla di
segreto. Se rifletti e riconosci la tua vera natura, il segreto è in te"."
Allan Watts
Da:
http://www.rebirthing-italia.com/liberaz07.htm |