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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Muho Noelke

Note sullo zen giapponese contemporaneo

A dieci anni dall’attacco della setta Aum

 

 

 

Pubblichiamo dal sito facente riferimento al monastero zen giapponese di Antaiji (www.antaiji.dogen.de) un intervento dell’abate della comunità. Il testo, assai più lungo, è stato adattato con l’autorizzazione dell’autore. Ricordiamo inoltre che il sito presenta anche numerose pagine con testi in italiano.

 

 

 

1. “Aum Shinrikyo” è il nome di una setta giapponese che il 20 marzo 1995 ha immesso del gas nervino Sarin nella metropolitana di Tokyo, provocando la morte di dodici persone. Già in precedenza in attentati minori diverse altre persone erano state uccise. Benché la setta veneri il Dio indù Shiva e per l’attacco col Sarin sia stato determinante la credenza nel Giudizio Universale, “Aum” è considerata in genere una forma di buddismo. Al centro della sua dottrina era un miscuglio degli insegnamenti theravada, mahayana e vajrayana. Questa setta, che ora si chiama “Aleph”, esiste anche oggi, ma ha molti meno seguaci di quanti ne avesse dieci anni fa, quando in Giappone i praticanti erano più di 10.000 (e circa 30.000 in Russia), buona parte dei quali laureati in università e in età comprese tra i venti e poco sopra i  trenta anni. Cercavano qualcosa che la società giapponese non era in grado di offrirgli, la liberazione spirituale. Gli attacchi di dieci anni fa hanno dimostrato alla maggior parte di loro e al resto del Giappone che avevano cercato la loro “liberazione” nel posto sbagliato.

La domanda, però, rimane: perché questi giovani dotati non hanno cercato un rifugio innanzi tutto nel buddismo tradizionale giapponese, così come è rappresentato dalle scuole Tendai o Shingon, Jodo o Zen? Non ci si dovrebbe aspettare da queste scuole che offrano una forma più autentica di buddismo e un accesso più credibile  a quella che Buddha chiamava liberazione?

In questo senso gli attacchi del 1995 hanno messo in discussione non solo la dottrina della setta stessa, ma anche quella di tutte le scuole buddiste giapponesi esistenti. Il Buddismo è una religione che deve offrire la liberazione a tutti gli esseri senzienti – non è un giro di affari legato alla gestione dei funerali. Ma è proprio questo che oggi la maggioranza dei giapponesi pensa del Buddismo giapponese: è un business, non una religione. Fai visita al tempio per occuparti della tomba di famiglia, non per sentire il religioso che predica il Dharma. E alla maggior parte dei giapponesi non verrebbe mai l’idea di diventare un devoto buddista in una scuola tradizionale, per riflettere sulla propria vita e cercare la vera liberazione.

 

2. In che modo lo Zen giapponese si è rapportato all’attacco col Sarin posto in essere dalla setta Aum nella metropolitana di Tokyo dieci anni fa? Voglio innanzi tutto cominciare a prendere in esame come le correnti Rinzai e Obaku si sono confrontate con il problema. Oggi in Giappone ci sono tre diverse scuole Zen, Soto, Rinzai e Obaku. Tra queste la corrente Obaku, che è stata trasmessa al Giappone dal monaco cinese Ingen nel 1654, è la più giovane e la più piccola. Di fatto, ad Ingen si attribuisce anche l’aver portato i fagioli per la prima volta in Giappone dalla Cina, e oggi tutti i giapponesi chiamano “ingen” quel tipo di fagiolo, mentre quasi nessuno sa niente del monaco Zen Ingen o della scuola di Zen da lui trasmessa. La prima a essere trasmessa in Giappone fu la scuola Rinzai, che si riallaccia alla stessa tradizione della setta Obaku (il maestro di Rinzai si chiamava Obaku), e si è affermata come una di quelle di maggior successo nell’influenzarlo spiritualmente e culturalmente. Lo Zen che fu introdotto in Occidente con gli scritti di D.T. Suzuki, era lo Zen Rinzai con la sua enfasi sui koan e sul satori. A differenza del Soto Zen, a cui talvolta ci si riferisce in termini spregiativi come “zen contadino”, lo Zen Rinzai si distingue anche per essersi espresso in modo unico in molte arti tradizionali giapponesi, come l’arte del tè, del tiro con l’arco, dell’architettura dei giardini e della sistemazione dei fiori. D’altro canto molte di queste arti risultano, a uno sguardo più attento, nient’altro che un modo di ammazzare il tempo tra i circoli aristocratici della vecchia capitale di Kyoto. Sembra che pochi occidentali sappiano che in passato diventare un monaco dello Zen Rinzai era, per i nobili e i samurai, un modo diffuso di ritirarsi dalla vita pubblica e godersi una vita agiata.  La cosiddetta “cultura Zen” è solo un sottoprodotto di questo orientamento sociale e ha poco a che fare con l’insegnamento del Buddha Shakyamuni.

Sia come sia, dopo l’incidente del Sarin di dieci anni fa, i responsabili del Rinzai e dell’Obaku si riunirono in una serie di incontri per discutere l’impatto che l’attentato aveva avuto e come reagirvi. Questi incontri si sono susseguiti per dieci mesi, e i risultati sono riportati (in Giapponese) nel sito web dell’Istituto per gli studi Zen (http://www.zenbunka.or.jp/03 magazine/index 5.2.htm). Le alte gerarchie del Rinzai e dell’Obaku hanno dichiarato che il problema non era semplicemente quello di un culto pseudo-buddista impazzito, ma piuttosto un problema della stessa chiesa buddista, cioè il problema di ogni singolo monaco Zen. Il problema posto dagli attacchi col Sarin non è il problema solo della setta Aum, ma di ciascuno di noi. E’ proprio quello che nello Zen si chiama kyakka shoko – far luce sui proprio piedi – o eko hensho – rivolgere la luce all’interno e riflettere su sé stessi.

 

“Approfondendo l’esame dell’attentato Aum, possiamo scoprire al suo interno il malessere culturale e sociale del nostro mondo moderno. L’incidente in sé prima o poi sarà dimenticato, ma non sarà così facile curare il malessere del nostro mondo moderno che si è manifestato in quell’attentato. Fintantoché avremo questa sensazione di soffocamento nella società moderna, il “problema Aum” non sarà risolto, e un secondo o un terzo ‘incidente Aum’ potranno capitare in qualsiasi momento in forme diverse. Questo significa che il cosiddetto ‘problema Aum’ è un problema di ciascuno di noi – è il nostro problema”.

 

Le scuole Rinzai e Obaku in questo modo definiscono “l’incidente Aum” come “problema nostro”. A questo punto qual è la loro analisi del problema della società moderna reso manifesto dall’incidente? Per citare ancora i loro scritti:

 

“L’uomo moderno crede più nell’essere umano che in Dio, e la società e la storia moderna sono strutturate con l’essere umano al centro. Però liberando l’uomo dalle mani di Dio, il moderno umanesimo ci ha resi schiavi del nostro stesso karma umano. (…) Religioni come la setta Aum esistevano molto tempo fa. E molto tempo fa il genere umano ha svelato la trappola karmica a cui portavano le superstizioni pagane insegnate da queste religioni. E’ così che il genere umano ha scoperto cosa significa realmente la religione: essere religioso significa capire che stai vagando all’interno delle illusioni create dai tuoi stessi desideri. Riflettere su te stesso, soffrire per le illusioni che  ti crei, e pregare all’interno di questa sofferenza – questo è il mondo della religione. La preghiera è la  manifestazione  del desiderio di abbandonare il proprio io e di vivere in comunione a tutto il resto, tenuto in vita da quella eterna forza vitale che abbraccia ognuno e tutti noi. Quando il genere umano ha scoperto questa forma di religione, per la prima volta abbiamo incontrato quella realtà che ci trascende e al tempo stesso abbraccia tutte le nostre illusioni karmiche. Religione significa il mondo che si apre quando preghiamo in quel modo. Ma la setta Aum non conosceva questo tipo di preghiera, non conoscevano quel mondo che trascende e abbraccia al tempo stesso tutte le nostre illusioni e sofferenze umane. Non si sono mai sognati di fare i quattro voti di salvare gli innumerevoli esseri sofferenti, di estinguere l’inestinguibile illusione, di studiare le innumerevoli vie del Dharma e di realizzare la via del Buddha che tutto trascende.”

 

In questa sede quel che a me sembra più interessante è il fatto che i dirigenti delle scuole Obaku e Rinzai, che pare diano grande peso al concetto di “fare esperienza del kensho e diventare un buddha”, qui si rifugiano nella parola “preghiera”, che normalmente non si incontra nel loro insegnamento. Mi ricorda Uchiyama Roshi che spiegava la pratica di sedere semplicemente con le parole “voto (seigan)” e “pentimento (zange)”. Lo zazen non è un modo di trascendere se stesso come essere umano e diventare qualcosa di speciale – “un illuminato, un buddha” – ma piuttosto una pratica di voto e pentimento. Il voto essendo l’espressione del desiderio di ciascuno di noi di avere il sopravvento sui nostri desideri egoistici, il pentimento che proviene dal riflettere con gli “occhi del buddha”  su noi  stessi così come siamo: esseri umani con desideri egoistici. Questa consapevolezza ovviamente non è esclusiva dello Zen Soto, ma c’è anche nello Zen Rinzai e nello Zen Obaku. Allora resta la domanda: che soluzione offre lo Zen Rinzai e Obaku al problema posto dall’attentato col Sarin, che loro stessi  definiscono “un nostro problema”? Cosa dobbiamo fare noi per indicare una strada ai giovani che soffocano nella società moderna?

 

3. Chi si deve considerare responsabile dell’attentato col Sarin alla metropolitana di Tokyo di dieci anni fa? Ovviamente nessun altro se non la setta Aum. D’altra parte molti buddisti si scusano dicendo che si tratta di un culto solo pseudo-buddista e che quindi quell’attentato non ha niente a che vedere con loro. Ma non è vero. Non c’è bisogno di dire che non c’è niente di “buddista” nell’attacco. Ma questo evento come qualsiasi altro evento, non può nemmeno essere estrapolato al di fuori del suo contesto, e la comunità buddista, specialmente la comunità buddista giapponese, è parte di questo contesto. Sono rimasto colpito dall’onestà dei dirigenti Rinzai e Obaku, che hanno definito l’attacco un problema non del solo culto Aum, ma un “problema nostro”,  e si sono spinti fino al punto di dire che se non risolviamo questo problema, in qualsiasi momento potrebbe capitare un secondo o un terzo attacco. E allora qual è la risposta di questi dirigenti alla domanda che essi stessi hanno posto: “Cosa possiamo fare?”

In modo abbastanza sorprendente la risposta è: “Non possiamo fare niente.” All’inizio del loro simposio, la discussione si è focalizzata su domande pratiche del genere in quali monasteri quanti credenti Aum in fuga si sarebbero potuti accogliere e come si sarebbe potuto procurare vitto e alloggio ai profughi il cui numero poteva  rivelarsi nell’ordine delle centinaia. Ben presto però le autorità appresero che non si aveva notizia di richieste di  aiuto o di asilo a nessun monastero Zen. Sembrava che nessuno tra gli scoraggiati credenti Aum si aspettasse che qualche religioso Zen facesse qualcosa. E anche dal lato dei monaci Zen sembrava che non ci fosse nessuno oltre alle autorità delle curie che si chiedesse: “Ora cosa possiamo fare?” A livello dei singoli templi familiari, che costituiscono il 99% dello Zen, mai nessuno si è interessato del problema posto dagli Aum. Anche se poteva capitare che si facesse cenno dell’incidente nell’omelia del religioso ai fedeli dopo una cerimonia funebre, né i fedeli né il prete avrebbero trattato l’argomento come un argomento religioso o buddista, per non parlare del sentirlo come “problema nostro”. L’Aum era  semplicemente un altro avvenimento di carattere sociale che ha provocato chiacchiere, e poco più. Quindi sostanzialmente nessuno si aspettava che i buddisti Zen facessero niente – nessuno nella società giapponese in genere, dove il Buddismo è considerato semplicemente un modo per guadagnare senza fatica, e nessuno tra i seguaci Aum, che non hanno mai fatto affidamento in primo luogo nella istituzione buddista, né negli stessi chierici buddisti, impegnati nel celebrare i funerali. I dirigenti hanno discusso, analizzato, si sono sentiti responsabili e preoccupati, hanno costatato il dilemma e sono arrivati alla conclusione che si rende necessario uno sforzo maggiore. Una quantità di parole, nessuna azione...

 

4. Alla fine il simposio si è chiuso senza fornire nessuna risposta. La conclusione è stata l’elenco di una serie di problemi all’interno dello Zen, che dovevano essere risolti prima che ci si potesse rivolgere ai credenti Aum. Tra questi “il problema di far crescere degli eredi del Dharma, il problema della collocazione delle mogli nei templi Zen, il problema di come diffondere il Dharma ecc.”. In breve, il problema è che il Dharma è sparito dai templi giapponesi di oggi. Pertanto non ci si può sorprendere se nessun giapponese si rivolge ad un tempio buddista quando cerca risposte a domande riguardanti la sua vita. Piuttosto che praticare lo Zen (ma dove lo si pratica realmente nei templi istituzionalizzati?), un giovane giapponese disperato si rivolgerà a uno dei nuovi culti religiosi.

Permettetemi una citazione da uno dei documenti del simposio:

 

“Siamo diventati abati nei templi grazie al lavoro pionieristico dei fondatori. Tutta l’organizzazione è debitrice della sua esistenza ai padri fondatori, nessuna meraviglia che questi patriarchi sono venerati e tenuti in grande considerazione. Pure ci siamo mai chiesti perché i padri fondatori hanno tanto penato per costruire i templi in cui viviamo? Non è stato forse per liberare spiritualmente gli esseri umani che soffrivano nella società del loro tempo? Se questo è il caso, la venerazione dei patriarchi non dovrebbe consistere nel seguire il loro cammino e continuare il loro lavoro di salvezza nella società attuale? Ma questo sforzo da parte nostra manca completamente. Il motivo per cui la gente dice che i templi e le organizzazioni religiose di oggi sono solo uno dei tanti aspetti marginali della società, sta proprio nella mancanza di consapevolezza del nostro compito e della  nostra missione di abati buddisti. S’impone una profonda riflessione.”

 

Gli abati buddisti di oggi venerano gli antichi maestri senza seguirne i passi. Qual è il motivo? Penso che una ragione storica è il sistema che si è stabilito nel periodo Tokugawa (1600-1868), che collega ogni famiglia giapponese a un tempio buddista. Questo sistema ha aiutato l’istituzione politica a controllare la popolazione giapponese mettendo tutte le famiglie sotto la supervisione dei templi, che, oltre al celebrare i funerali, dovevano registrare nascite e decessi, tenere traccia dei membri e delle storie familiari, e funzionare così non solo da istituzioni religiose ma anche da uffici comunali e in seguito anche da scuole.

Nel Giappone di oggi, i buddisti zen hanno dimenticato il loro compito principale di portare le persone alla liberazione. Si accontentano di fornire i servizi funebri e i riti annuali di suffragio per le famiglie, come è consuetudine da secoli. Ma – con il singolo essere umano e i suoi problemi che nell’epoca moderna diventano sempre più pressanti, e di conseguenza con il culto degli antenati che sta cominciando a essere sorpassato – questi riti non bastano più a soddisfare le esigenze religiose dei giapponesi.

Un altro motivo per cui i templi non hanno più nessuna funzione vitale nella società giapponese  è il fatto che sono diventati le abitazioni delle famiglie dell’abate che vi risiede. Anche dopo che i religiosi buddisti hanno cominciato a sposarsi e ad avere figli, dopo la restaurazione Meiji (nel 1868), nessuno ha mai pensato al ruolo della famiglia nel tempio, o a cosa significhi innanzi tutto per un  prete buddista essere sposato. Così, il fatto che il prete ha moglie e figli (che dovrebbero diventare i suoi discepoli nel tramandare la tradizione del tempio) ha reso difficile o addirittura impossibile per altri rivolgersi con i loro problemi ai preti, senza parlare del diventare discepoli di quel tempio. Diventando una casa d’abitazione, i templi hanno smesso di funzionare da case del sangha.

I templi giapponesi non sono più posti per la pratica del buddhadharma. Sono diventati un affare legato alla gestione dei funerali. Allo stesso tempo fungono da case per le famiglie del prete, che offrono i loro servizi in cambio di denaro. Quindi nessuna meraviglia che non solo i giovani giapponesi con richieste di carattere spirituale, ma neanche i fedeli che fanno capo ai singoli templi cui per secoli hanno dato il loro sostegno, si sentono più i benvenuti. Ma questo non è solo un problema dei singoli templi, ma anche dell’organizzazione religiosa nel suo complesso, dicono i dirigenti:

 

“Le organizzazioni hanno ignorato a lungo questo genere di problemi e lasciato che i singoli templi li affrontassero singolarmente. E’ per quest’atteggiamento che i pochi preti che cercano di fare il massimo per diffondere il vero Dharma sono letteralmente disperati con le istituzioni religiose, particolarmente con il centro della curia. Da noi non si aspettano più niente e stanno cominciando a formare i propri gruppi autonomi. Indipendentemente dal cuore corrotto della scuola Zen, hanno cominciato a chiedere a se stessi sinceramente cosa possono fare loro adesso, cosa gli chiede la situazione attuale.”

 

Questo orientamento è solo naturale. Quando la scuola Zen è marcia fin dalla radice, cosa possono fare quei pochi monaci Zen che capiscono che il loro compito più che ricavare un reddito è lavorare per il Dharma, se non prendere le distanze dalle istituzioni e diventare indipendenti? Non si troverà la soluzione di questi problemi dando vita a una nuova istituzione nell’ambito dell’organizzazione esistente. Non saranno certo i dirigenti della curia che così sprecano il denaro dei fedeli, ma i giovani monaci che si allontanano dalle organizzazioni che indicheranno il futuro dello Zen giapponese, ammesso che un futuro ci sia.

(traduzione di Stefano Zezza)

 

 

Da “La Stella del Mattino”, laboratorio per il dialogo religioso, n. 4, ottobre/dicembre 2005

www.lastelladelmattino.org/rivista Per ogni contatto: redazione@lastelladelmattino.org.

 

 

 

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