GENJO
KOAN- "IL KOAN REALIZZATO"
di
DOGEN ZENJI
tradotto dall'originale e commentato
da Aldo Tollini
Il Genjo koan è un testo
importante nella produzione del maestro giapponese Dogen zenji (1200-1253).
Fa parte dello Shobogenzo (Capitolo I), l'opera in 95 capitoli che viene
considerata la più importante di Dogen zenji e una delle più importanti
nell'ambito del Buddhismo giapponese.
La caratteristica del Genjo koan
è quella di essere un testo breve, relativamente semplice che però tocca i
punti più importanti dell'insegnamento del maestro. Ciò è forse dovuto al
fatto che fu scritto per un discepolo laico e quindi doveva essere
comprensibile ed esaustivo,cioè alla portata di una persona che non aveva
grande dimestichezza con le sottigliezze della dottrina.
Queste caratteristiche resero
questo testo molto popolare anche al di fuori della scuola zen Soto che fu
appunto fondata da Dogen zenji, ancora oggi largamente diffusa e vitale nel
Giappone moderno.
Quando tutti i dharma (1) sono (2)
il Buddha-Dharma, allora esistono "illusione/risveglio" (3), la pratica, la
nascita, la morte, tutti i Buddha e le persone comuni.
Quando la realtà viene vista come
insegnato dalla dottrina del Buddha, allora esistono le cose del mondo del
dualismo, esistono l'illusione e il risveglio. In questo caso, infatti,
l'approccio è di tipo speculativo e quindi l'analisi si basa su
categorizzazioni quali l'illusione del mondo del samsara e per contrapposto
il risveglio del nirvana. Tuttavia, questa distinzione è di tipo puramente
funzionale e serve a fornire categorie concettuali.
Quando la moltitudine dei fenomeni
non sono basati sull'io (4), allora non esiste l'illusione nè il risveglio,
non esistono i Buddha nè le persone comuni, non esistono la nascita nè
l'estinzione.
Quando, invece, si guarda alla
realtà in modo non egoico, cioè non a partire dal proprio io o con una
visione che comunque non ponga al centro il proprio io, allora la realtà ci
appare molto diversa e i poli dualisti che si erano visti con le
categorizzazioni proprie della dottrina buddhista scompaiono. La presenza
costante del proprio io nella nostra visione della realtà è l'elemento che
distorce la visione: è come se vedessimo tutto attraverso una lente
colorata. Quando questa lente viene a cadere, allora la visione è molto più
ampia e chiara, e quello che ci era parso schematico e riconducibile a
polarità opposte assume una dimensione molto più vasta. La dottrina
buddhista pone al centro del proprio insegnamento la concezione di anatta,
cioè della inconsistenza di un io individuale. Si deve comprendere che la
credenza in un io permanente, consistente e individuabile fa sì che tutto
venga ricondotto ad una dimensione individuale ristretta e angusta.
Poiché la Via del Buddha
originariamente balza al di là delle opposizioni (5), esiste
"nascita/estinzione", esiste "illusione/risveglio", ed esiste "persone
comuni/Buddha" (6).
Tuttavia, l'insegnamento
buddhista (il Dharma), ossia l'esperienza vera del Buddhismo realizzato va
al di là delle contraddizioni del dualismo, sia di essere (sia questo, sia
quello) che di non-essere (né questo, né quello) poiché sia l'uno che
l'altro non sono che una descrizione parziale e sottodimensionata della vera
natura della realtà. Allora, secondo la vera esperienza del Buddhismo, la
realtà è oltre ogni tipo di dualismo sia in positivo che in negativo e va
oltre gli opposti, i quali a una visione più ampia si mostrano essere
copresenti e cooperanti. In definitiva, la distinzione è solo questione di
punto di vista e non di sostanza oggettiva. Insomma, proprio perché
l'insegnamento del Buddhismo va oltre le contraddizioni, esistono non le
singole contraddizioni contrapposte, ma aspetti della realtà che contengono
questi apparenti opposti in uno stesso fenomeno. La nascita e l'estinzione
(morte) non sono irrimediabilmente opposti ma fanno parte di uno stesso
fenomeno della realtà, così come l'illusione e il risveglio e le persone
comuni e non illuminate da una parte e il Buddha dall'altra.
Tuttavia, pur essendo così come ho
detto sopra, i fiori cadono proprio quando per affetto vorremmo trattenerli
e le erbacce crescono proprio quando ci danno fastidio.
Tuttavia, sebbene le cose stiano
così e comprendiamo il non dualismo della realtà, i fiori cadono proprio
quando vorremmo che restassero a farsi ammirare e le erbacce crescono quando
non le vorremmo. Cioè, nonostante la comprensione, è naturale che la natura
dell'uomo spinga ad amare ciò che piace ed è bello, e a detestare ciò che
non piace, è brutto e fastidioso. La natura dell'uomo, pur capace di
spingersi alle alte vette della comprensione, mantiene però, aspetti
profondamente umani, sensibili alle cose del mondo.
"Pratica/illuminazione" della realtà
sono illusione se partono dal nostro io, ma a partire dalla realtà,
"pratica/illuminazione" di sé è illuminazione.
La pratica/illuminazione dell'io
è illusione, mentre la pratica/illuminazione della realtà è vera
illuminazione. La realizzazione della realtà che sgorga dal nostro io è
illusione, mentre la realizzazione della realtà che sorga dalla realtà
stessa è illuminazione. In questo secondo caso, siamo consci del fatto che
"la realtà pratica/illumina se stessa". Per quanto la nostra pratica sia
elevata, essa rimane nel mondo dell'illusione se coinvolge il nostro io, se
ha per scopo una dimensione egoica. Solo se ci liberiamo del nostro io e
attuiamo una pratica non egoica allora potremo accedere alla dimensione
dell'illuminazione. Dogen zenji insiste molto in questo testo, ma anche in
altri, sul fatto che finché non abbandoniamo il nostro io non potremo fare
una vera pratica che sia al contempo illuminazione. Una pratica contaminata
dal nostro io non è vera pratica e quindi non è "pratica/illuminazione",
sarebbe piuttosto una "pratica/illusione". La vera pratica non è pratica per
l'io, ma pratica dell'io, ossia una pratica non per sé (che ha per scopo
l'io), ma che si rivolge al sé (che opera sul sé, cioè che fa del sé lo
strumento per la comprensione). Dogen zenji conia una nuova espressione,
"pratica/illuminazione" che ha lo scopo di indicare un concetto fondamentale
del suo pensiero: la pratica, che egli pone al centro della Via del
Buddhismo, non è strumento che porta alla illuminazione, non è "mezzo abile"
che permette di raggiungere la meta del risveglio. In realtà, la pratica non
è cosa diversa dall'illuminazione, anzi la pratica "contiene" di già
l'illuminazione, e d'altra parte l'illuminazione contiene la pratica nel
senso che l'illuminazione è pratica. La pratica non va intesa attraverso il
meccanismo egoistico del "fare allo scopo di ottenere qualcos'altro". Questo
approccio è contaminato dall'egoismo e finché la nostra pratica sarà tale
resterà nel regno dell'illusione e produrrà altra illusione. Per Dogen zenji,
pratica è di per sé illuminazione e illuminazione è di per sé pratica, i due
non sono mai disgiunti.
Fare dell'illusione il grande
risveglio è illuminazione, ma, nell'illuminazione perdersi nella grande
illusione è cosa da persone non illuminate. Inoltre, vi sono persone che
aggiungono illuminazione a illuminazione e persone che stando nell'illusione
continuano a restare nell'illusione.
Chi, conscio di essere nel regno
dell'illusione, risveglia la bodhicitta (7) e si incammina su quella
strada raggiunge l'illuminazione, ma chi si ritiene essere (falsamente)
nell'illuminazione non fa altro che perdersi nell'illusione. Ci sono persone
che nell'illuminazione creano ulteriore illuminazione e persone che
nell'illusione non producono altro che ulteriore illusione.
Quando i Buddha sono davvero dei
Buddha, non si rendono conto necessariamente di esserlo. Però, essi sono
davvero dei Buddha e continuano a essere Buddha.
Infatti, chi davvero è un Buddha
spesso non si rende conto di esserlo. Semplicemento lo è e contuinano ad
esserlo. Per essere dei Buddha non è necessario esserne consci. E chi, al
contrario, ne è conscio, è sospetto di essere nell'illusione credendo di
essere un Buddha.
Quando percepiamo le forme per mezzo
dell'intero corpo/mente e quando ascoltiamo i suoni per mezzo dell'intero
corpo/mente allora apprendiamo intimamente le cose e non è come se sullo
specchio si riflettesse un'ombra (8) oppure come se sull'acqua (di un
stagno) si riflettesse la luna. Se apprendiamo un solo lato, l'altro lato
rimane all'oscuro.
Quando ci avviciniamo alle cose
che ci circondano con tutto il nostro essere, senza parzialità allora
comprendiamo la vera essenza delle cose e le penetriamo profondamente.
Questo succede sia per la vista che per l'udito. Quando, invece, questo non
succede, vediamo solo le "ombre", o i "riflessi" delle cose ed esse non ci
appaiono nella loro vera natura. La nostra visione rimane superficiale. E'
come se invece di vedere le cose nella loro realtà, vedessimo i loro
riflessi sullo specchio, oppure è come se invece di vedere la luna vera
vedessimo il suo riflesso nell'acqua dello stagno. Perciò in ogni
situazione, e soprattutto nella pratica buddhista, dobbiamo impegnare tutto
il nostro essere per attingere alla "cosa vera" e non a una sua forma
illusoria.
Apprendere il Buddhismo è apprendere
se stessi; apprendere se stessi è dimenticare se stessi. Dimenticare se
stessi è essere risvegliato alla Realtà. Risvegliarsi alla realtà è lasciar
cadere il proprio corpo/mente e il corpo/mente degli altri.
Questa frase è diventata molto
famosa ed è sempre molto citata. Essa, infatti, riassume in modo sintetico e
al tempo stesso chiaro e semplice l'essenza del Buddhismo di Dogen zenji. La
sequenza delle frasi è una serie di definizioni successive strutturate
secondo uno schema riassumibile come segue: A = B; B = C; C = D;…. Questa
struttura ha un notevole impatto sul lettore perché l'estrema semplicità
formale e linguistica ha la capacità di esaltare la profondità del
contenuto. Si afferma che lo studio del Buddhismo non riguarda
l'apprendimento di una disciplina, di qualcosa che accresca il nostro
patrimonio culturale, ma è, invece, un apprendimento che riguarda
direttamente noi stessi, è lo studio di noi stessi. Quindi non si tratta di
un apprendimento per il nostro io, ma di un apprendimento dell'io. Ciò
significa che lo studio e la pratica del Buddhismo ha per scopo di farci
comprendere ciò che siamo realmente, cosa spesso diversa da quello che
crediamo di essere. La seconda affermazione afferma che la comprensione di
noi stessi porta inevitabilmente alla realizzazione dell'insostanzialità
dell'io e quindi comporta un distacco da quello che abbiamo sempre
considerato come il punto di riferimento di tutta la nostra esistenza: l'io.
Allora comprendere se stessi significa non esistere più in funzione del
proprio io, ma dimenticando il nostro io agire in libertà e in consonanza
con il Sè o la Realtà. Perciò, dimenticare se stessi significa essere
risvegliato alla Realtà, ossia vivere e agire in una dimensione più ampia.
Questo stato si accompagna a lasciar cadere il proprio corpo/mente e il
corpo/mente degli altri. Questa frase è l'equivalente del shinjin datsuraku
(9) che Dogen zenji pone come fondamento della pratica/illuminazione, e
senza il quale la pratica/illuminazione è contaminata poiché continua a
dipendere dal nostro io e ad avere come scopo il nostro io. Solo lasciando
andare il nostro io, qui identificato in una componente fisica (corpo) e in
una non fisica (mente), e l'io degli altri, ci si può liberare
dall'egoismo e dall'illusione e risvegliare alla vera realtà, che allora si
presenterà da sé davanti a noi.
Le tracce dell'illuminazione si
estinguono, e perpetuiamo per sempre l'estinzione delle tracce
dell'illuminazione. Quando gli uomini cercano per la prima volta la Via,
sono lontani da essa, ai suoi limiti estremi, ma quando la Via viene
trasmessa correttamente, allora si diventa subito un uomo vero.
Dopo aver realizzato
l'illuminazione, le tracce del percorso che ha condotto alla meta vengono
rimosse e resta solo l'illuminazione per sempre. La strada percorsa perde
importanza perché ormai c'è la "cosa vera" e le sue orme non hanno più senso.Quando
si cerca la Via, inizialmente si è lontani da essa; la Via sembra
irraggiungibile, ma se si è guidati da un buon maestro, la Via appare
immediatamente di fronte al praticante.
Quando si è sopra una nave,
osservando la riva si ha l'impressione errata che sia la riva a muoversi.
Se, però, si volge lo sguardo in basso e si osserva la nave, allora si
capisce che è la nave a muoversi. Allo stesso modo, se volessimo conoscere
la realtà con il nostro corpo/mente che è instabile, si crederebbe
erroneamente che il nostro spirito e la nostra natura è permanente. Ma se
tornassimo alla concretezza considerando la realtà quotidiana, si renderebbe
chiaro il principio secondo cui la realtà non è basata sul nostro io.
L'immagine del passeggero sulla
nave e dell'illusione cui è soggetto richiama l'illusione di chi vuol
comprendere usando strumenti limitati e con una scarsa capacità di
approfondimento. Così, chi osserva le cose e se stesso per mezzo dell'io che
è instabile avrebbe l'impressione erronea della realtà come permanente. E'
come chi osserva da un treno in corsa un altro mezzo in cosa alla stessa
velocità. Avrebbe l'impressione di star fermo. Non dobbiamo fidarci delle
apparenze, ma dobbiamo andare a fondo nelle cose se vogliamo comprendere la
realtà vera delle cose. Una attenta considerazione della quotidianità ci
renderebbe chiaro il fatto che la realtà è indipendente da un approccio
centrato sull'io.
La legna da ardere diventa cenere, e
(una volta bruciata) non torna indietro di nuovo a essere legna. Tuttavia,
non si deve pensare che la cenere venga dopo e che la legna da ardere venga
prima. Si sappia che la legna risiede nella sua "posizione dharmica" (10), e
c'è un prima e c'è un dopo (come momento separati).
La comprensione falsata della
realtà ci fa apparire le singole cose e i loro rapporti reciproci falsati.
Qui l'esempio è quello della legna da ardere e della cenere che erroneamente
vengono considerate due stadi differenti della stessa cosa, ossia con un
prima (la legna) e un dopo (la cenere). Tuttavia, secondo Dogen zenji, per
quanto tra queste due cose vi sia un rapporto di causa ed effetto, la legna
e la cenere sono due cose e due momenti differenti e vanno considerati come
separati, ognuno nella sua individualità specifica. Dogen zenji qui usa una
parola (e un concetto) tra i più importanti del suo insegnamento: hoi, cioè
letteralmente "posizione dharmica". Secondo questa concezione, ogni fenomeno
della realtà, e nel caso dell'esempio, la legna da ardere e la cenere,
"risiede nella sua posizione dharmica", cioè è di per sè completo e perfetto
in sé, e in quanto tale è espressione completa del Dharma intero. Ogni
singolo fenomeno, anche il più insignificante e piccolo, a ben guardare, è
una realtà completa in cui l'immenso Dharma si manifesta. La realtà, è
manifestazione del Dharma nella sua globalità, ma anche in ogni singola
manifestazione, perciò, i fenomeni sono "posizioni dharmiche", cioè
espressioni del Dharma. Comprendere un singolo fenomeno nella sua interezza,
nella sua profondità, ossia in quanto appunto "posizione dharmica" significa
comprendere l'intera realtà e tutto intero il Dharma. Questa visione
riprende la grandiosa e complessa concezione della scuola buddhista Kegon.
Per quanto esista un prima e un
dopo, il prima e il dopo sono separati. La cenere è nella sua "posizione
dharmica", e c'è un dopo e c'è un prima. Così come la legna dopo essere
diventata cenere non torna a essere legna, anche l'uomo dopo la sua morte
non torna a vivere. Quindi, il fatto che non si possa dire che la vita
diventa la morte è un insegnamento stabilito dal Buddhismo.
In questo discorso si riflette la
concezione di Dogen zenji del tempo, trattato in modo approfondito nel
capitolo Uji. Come nel caso della legna e della cenere, così anche la vita e
la morte sono "posizioni dharmiche", complete e perfette in sè, cui nulla
manca. Allora dire che la vita diventa morte è errato come dire che la legna
diventa cenere. La vita è vita in sé e la morte è morte in sé. Quindi la
vita va vissuta come cosa in sé e non come preludio alla morte, così come la
morte va presa di per sé e non come preludio alla nuova vita, ossia alla
nuova rinascita.
Perciò, si chiama "non-nascita". Che
la morte non diventa nascita è un insegnamento stabilito dalla dottrina
Buddhista. Perciò si dice "non-estinzione". La nascita è un singolo momento
e anche la morte è un singolo momento. E', per esempio, come l'inverno e la
primavera. Non si dice che l'inverno diventa la primavera e che la primavera
diventa l'estate.
In questo senso, nascita e morte
sono momenti singoli completi in sé e quindi definibili attraverso il loro
opposto "non-nascita" e "non-estinzione". Infatti, se nella vita non c'è la
morte, la nascita è una "non-nascita" e se nella morte non c'è la vita è una
"non-morte" o "non-estinzione".
L'uomo che giunge al risveglio è
come la luna che risiede (11) nell'acqua. La luna non si bagna e l'acqua non
si lacera. (La luna dà) una grande e vasta luce, ma occupa nell'acqua un
piccolo spazio. L'intera luna e l'intero cielo stanno nella rugiada
sull'erba. Su una sola goccia d'acqua. Il fatto che il risveglio non lacera
l'uomo è come la luna che non penetra nell'acqua. Il fatto che l'uomo non
ostacoli il risveglio è come la goccia di rugiada che non ostacola la luna
del cielo.
L'immagine della luna che si
riflette nell'acqua di uno stagno è ricorrente nella letteratura del ch'an
cinese e dello zen giapponese. Nell'immagine di Dogen zenji possiamo pensare
figuratamente alla luna come il risveglio e all'acqua come all'uomo che
accoglie il risveglio in sé. La luna, e il cielo stellato infinito si
riflettono in un piccolo stagno tutti interi, o addirittura in una
piccolissima goccia di rugiada tutti interi. Nel limitato di ogni singolo
individuo si può riflettere intero il Dharma senza limiti senza nessuna
forzatura. L'acqua in modo naturale accoglie la luna e il cielo e l'uomo in
modo naturale accoglie il Dharma. La luna non si bagna e non lacera l'acqua
così come il Dharma non contamina l'uomo e non lo violenta. L'accogliere il
Dharma da parte dell'uomo è cosa naturale che avviene senza rotture e senza
forzature.
La profondità è nella dimensione
dell'altezza. Riguardo alla dimensione temporale, bisogna considerare "la
grande acqua e la piccola acqua" e bisogna conoscere la dimensione della
luna del cielo. Quando il Dharma non ha ancora riempito il corpo/mente , si
pensa che il Dharma sia già in misura sufficiente. Ma se davvero il Dharma
riempisse completamente il corpo/mente (12), allora si penserebbe che ne
mancherebbe un po'. Per esempio, se ci si imbarcasse su una nave e si
guardasse a tutto raggio il mare, esso sembrerebbe rotondo. E non si
vedrebbero altre forme.
La prima parte di questo brano è
piuttosto criptica e può dare luogo a qualche ambiguità. Si riferisce
certamente a due dimensioni, una spaziale (profondità e altezza) e l'altra
temporale. Si può interpretare in riferimento all'uomo e al Dharma: la
profondità dell'illuminazione è come l'altezza della luna nel cielo che pur
essendo altissima si riflette in uno stagno basso. Così nell'uomo che è come
lo stagno, l'altissima illuminazione si riflette senza nulla perdere.
Inoltre, esiste la "grande acqua" o il grande mare e la" piccola acqua" o lo
stagno, ma la dimensione della luna è ininfluente quando si riflette. Essa
può riflettersi completamente sia nel grande mare che nel piccolo stagno
indifferentemente e le dimensioni dell'acqua sono indipendenti dalla durata
temporale dell'illuminazione. Così è nell'uomo. Indipendentemente dalla
diversa natura degli uomini, l'illuminazione non muta la sua durata.Quando
non si è ancora raggiunta la realizzazione si tende a pensare di avere già
il Dharma in modo sufficiente, ma questa è la visione di coloro che non
hanno sufficiente esperienza. Infatti, quando il Dharma riempie totalmente
l'uomo realizzato, allora costui si rende conto che ancora non basta e che
ce ne può stare di più. Il Dharma nell'uomo non ha limiti, come il cielo in
una goccia d'acqua, e più ce n'è, più ne può contenere. Per questo a
proposito del Dharma non si può parlare di dimensioni. Di nuovo, l'esempio
del passeggero sulla nave che ha stavolta una visione falsata della forma
del mare.
Tuttavia, il grande mare non è
rotondo, e neppure quadrato e vi sono anche molte altre forme
caratteristiche del mare che non si finirebbe di enumerarle (13). E' come un
palazzo (visto dai pesci) o come un ornamento di pietre preziose (che
brillano) (visto dagli esseri celesti). E' soltanto che per quanto possono
vedere i nostri occhi, (il mare) appare rotondo. Lo stesso accade per tutte
le cose.
Così come il mare non ha forme
definite, così il Dharma non è catalogabile per forma e dimensione. Gli
oggetti ci sembrano avere forme diverse a seconda che siano visti per
esempio dal basso come nel caso di un palazzo visto dai pesci o dall'alto
come un ornamento di pietre preziose visto dagli esseri celesti. L'apparenza
dipende dal punto di vista.
Sia dal punto di vista comune che da
quello del Buddhismo ci sono tanti punti di vista, ma (la gente) non può che
comprendere ciò che gli permette la capacità di approfondimento del
Buddhismo e di comprensione. Al fine di investigare le caratteristiche della
realtà, oltre a vedere le cose rotonde e quadrate, bisogna considerare tutte
le possibilità di forma di mari e montagne che sono tante e si deve sapere
che esiste un mondo che si estende in tutte le direzioni. E non è così solo
per il mondo che ci circonda, ma anche per ciò che ci riguarda e per ogni
singola goccia (14).
Quindi i punti di vista sono
innumerevoli. Ci sono quelli ordinari e quelli della prospettiva buddhista,
ma la comprensione dipende da vari come, soprattutto, lo studio e la
comprensione del Buddhismo. Sapendo questo, dovremmo sempre considerare le
cose da tanti punti di vista e soprattutto investigare a fondo e non
fermarsi mai alle apparenze. Ciò vale sia per il macrocosmo sia per il
microcosmo.
Quando il pesce nuota nell'acqua,
nuotando non c'è limite all'acqua. Quando l'uccello vola nel cielo, volando
non c'è limite al cielo. Perciò, i pesci e gli uccelli da sempre non si
separano dall'acqua e dal cielo. Quando essi hanno bisogno del grande usano
il grande e quando hanno bisogno del piccolo usano il piccolo. In questo
modo, raggiungono i limiti e colà non potendo procedere tornino indietro, ma
se l'uccello uscisse fuori dal cielo morirebbe subito e se il pesce uscisse
fuori dall'acqua morirebbe subito. Si deve sapere che l'acqua è vita e che
il cielo è vita. L'uccello è vita e il pesce è vita. La vita è il pesce e la
vita è l'uccello.
Per il pesce, non c'è limite al
mare in cui nuota, e per l'uccello non c'è limite al cielo in cui vola.
Ognuno di noi si muove in una dimensione senza limiti e da essa trae quanto
gli è necessario per la vita. Tuttavia, se ci separassimo da quanto ci è
naturale, dalla nostra dimensione naturale non potremmo sopravvivere. Ognuno
nella sua specificità si muove e vive traendo quanto gli è necessario per la
vita in modo naturale. Per questo l'acqua è vita perché sostenta la vita ai
pesci, e così è anche per il cielo che permette la vita degli uccelli. Ma a
loro volta, anche pesci e uccelli sono vita e la vita stessa è nel pesce e
negli uccelli. L'unica realtà per i pesci è il mare infinito e per gli
uccelli il cielo infinito. Allo stesso modo, per l'uomo, l'unica realtà
dovrebbe essere l'istante presente e l'azione presente che non avendo un
prima e un dopo sono infinite.
Però bisogna andare oltre, cioè a
pratica/illuminazione. In questo modo c'è la vita. Se ci fossero pesci e
uccelli che vogliono vagare per l'acqua e per il cielo solo dopo essere
giunti fino ai limiti dell'acqua e del cielo, essi non avrebbero una via (da
percorrere) nell'acqua e nel cielo e non avrebbero un luogo (dove
risiedere). Avendo un luogo dove risiedere (15), la quotidianità diventa il
koan realizzato. E' così perché questa via da percorrere, questo luogo in
cui risiedere, non sono grandi e neppure piccoli, non sono propri e neppure
altrui, non sono prima di noi, e neppure qui adesso con noi.
Tuttavia, vi è qualcosa di più
che semplicemente vivere traendo la vita da quanto la natura ci dà. E'
avviarsi sulla strada della pratica/illuminazione, cioè di compiere
pienamente la potenzialità dell'essere. Questa è la vera dimensione della
vita. Tuttavia, la dimensione della pratica/illuminazione è una dimensione
naturale per l'uomo e non deve essere il risultato di un allontanamento
dalla via naturale e spontanea. Si pensi ai pesci e agli uccelli. Se essi si
muovessero nell'acqua e nel cielo solo dopo aver esplorato la loro
dimensione fino ai loro limiti estremi non riuscirebbero a trovare una
strada da percorrere e non troverebbero un luogo stabile dove risiedere, ma
vagherebbero all'infinito. Invece, avendo un luogo dove risiedere, allora il
koan è realizzato. Koan per Dogen zenji non è inteso semplicemente come una
pratica per giungere all'illuminazione, ma è il dilemma fondamentale della
vita, la domanda che nasce dal fatto stesso di esistere. "Realizzare il koan"
(genjo koan) , da cui il titolo di questo testo, significa risolvere il
grande dilemma esistenziale e giungere alla comprensione e alla
realizzazione. Avendo un luogo dove risiedere, il koan è allora risolto ed è
compresa l'essenza stessa della nostra esistenza. La nostra quotidianità
diventa il koan realizzato perché è proprio l'apparente banalità a diventare
la "grande comprensione" e la via che percorriamo, il luogo in cui
risiediamo non sono una dimensione definibile nello spazio e nel tempo, ma
sono incommensurabili e fuori del tempo. Essi sono dovunque e sono in
qualunque tempo, non appartengono a nessuno e non hanno dimensioni definite.
Nessuno può tracciare mappe di questi percorsi, ma essi possono essere in
qualunque luogo e in qualunque momento.
Perciò, se un uomo fa pratica e
giunge all'illuminazione del Buddhismo, quando riceve un dharma lo
comprende, quando incontra un evento lo fa suo. Ecco che allora, avendo un
luogo dove risiedere e una via da percorrere, sa di non poter conoscere i
limiti della conoscenza. E' così perché questa conoscenza nasce insieme e va
di pari passo allo studio e pratica del Buddhismo. Avere un luogo in cui
risiedere conduce necessariamente alla conoscenza di sé e non ad apprendere
una conoscenza intellettuale. (Tuttavia,) sebbene si realizzi immediatamente
l'illuminazione, non necessariamente essa si realizza come cosa
interiorizzata (16). Il fatto di esserne cosciente non è detto che
necessariamente accada.
La persona realizzata comprende
ogni singola cosa in cui si imbatte e fa suo ogni avvenimento che gli
accade. Egli è arbitro di se stesso e delle cose che gli accadono. Questa
conoscenza nasce con lo studio e la pratica del Buddhismo e con questo
studio e questa pratica continua a espandersi, a rinnovarsi continuamente.
Come lo studio e la pratica del Buddhismo non hanno mai fine, così anche la
sua conoscenza non ha mai fine. Questo studio e questa pratica non sono
acquisizioni intellettuali, non aumentano il patrimonio culturale. Sono,
invece, conoscenza di se stessi. Come afferma sopra: " Apprendere il
Buddhismo è apprendere se stessi ". Apprendimento e conoscenza di sé,
attenzione, non per sé. Conoscere se stessi significa in ultima analisi
capire che il nostro io è una costruzione illusoria e fuorviante. Proprio
per questo, il risveglio può non essere un fatto cosciente, infatti, lo
smantellamento dell'io diluisce l'autocoscienza dell'individuo.
Mentre il maestro Hotetsu del monte
Mayoku stava usando un ventaglio, venne un monaco e gli chiese: "La natura
del vento non cambia: non c'è luogo dove non giunga. Perché allora tu usi il
ventaglio?" Il maestro disse: "Tu sai solo che il vento ha una natura che
non cambia. Però non sai la ragione per cui non c'è luogo ove non giunga".
Disse il monaco: "Allora, qual è la ragione per cui non c'è un luogo ove il
vento non giunga?" Al che, il maestro semplicemente agitò il ventaglio. Il
monaco si inchinò.
Il Genjo koan si chiude con la
citazione di un dialogo tra maestro e un monaco. Il senso di questo dialogo
è che il monaco chiede al maestro la ragione dell'uso di un ventaglio
probabilmente in una giornata afosa d'estate. Poiché la natura del vento è
di essere mobile, e di giungere ovunque, perché muoverlo se già da sé il
vento si muove? Questa è una domanda ovviamente senza risposta. Il monaco
resta ammutolito e allora, per concludere, il maestro agita il ventaglio.
Non sapere perché il vento giunge dovunque non impedisce di provare fresco
agitandolo. Il senso di questo dialogo è che così come intrinsecamente il
vento si muove e produce fresco, allo stesso modo noi siamo intrinsecamente
illuminati. Allora, così come sembra inutile muovere il vento, che senso ha
praticare se siamo già illuminati? Non è inutile? Questa è una domanda,
davvero molto importante che riguarda il senso profondo dell'insegnamento di
Dogen zenji. Il rapporto tra pratica e illuminazione è, infatti, cruciale
non solo per l'autore di questo testo, ma più in generale per le scuole
buddhiste del periodo Kamakura (1185 - 1333). La risposta di Hotetsu è
chiara:" Tu sai solo che il vento ha una natura che non cambia. Però non sai
la ragione per cui non c'è luogo ove non giunga." Cioè, tu sai solo che
l'essere umano è intrinsecamente illuminato, ma non sai come manifestare
questa illuminazione intrinseca.
L'illuminazione autentica del
Buddhismo si basa sul percorso di salvazione come trasmesso correttamente
(dai maestri e dai patriarchi). (L'affermazione) per cui non cambiando la
natura del vento non si debba usare il ventaglio perché si sente ugualmente
il vento, significa non conoscere la natura del vento né il fatto di non
cambiare. Per il fatto che la natura del vento non cambia, il vento (17) di
coloro che praticano il Buddhismo fa realizzare che la grande terra è
l'Eldorado e fa trasformare (l'acqua) del grande fiume in crema (18).
La grande terra, la nostra terra
della quotidianità diventa la terra dell'Eldorado, il luogo agognato, e
l'acqua si trasforma in prelibata crema. Quando, grazie all'insegnamento
buddhista, giungiamo al risveglio, quello che ci era apparso banale diventa
il Paradiso in terra e quello che avevamo considerato una dimensione di
sofferenza si trasforma nel luogo delle delizie. Non perché la natura della
terra e dell'acqua muti, ma perché chi ne fa esperienza non è più lo stesso.
Scritto nell'autunno del primo
anno dell'era Tenpuku (1233) per il discepolo laico Yokoshu del Kyushu.
Inserito nello Shobogenzo nel 1252.
NOTE
1 Dharma: le cose, i
fenomeni, la realtà
2
Sono: sono viste dal punto vista del, sono definite in base a…
3 "Illusione/risveglio":
Dogen zenji conia una parola nuova composta dai due termini opposti di
"illusione" e "risveglio" per indicare che essi non sono entità
separate, ma sono parte di una stessa realtà, sono cioè le due facce
della stessa medaglia e non possono mai essere separate. Questa
concezione dell'illusione/risveglio è fondamentale nel pensiero di Dogen
zenji, il quale opera profondamente a livello linguistico per esprimere
compiutamente il proprio pensiero che si basa sul superamento della
visione dualista della realtà.
4 Ovvero: quando la
percezione della realtà non è basata sull'io.
5 Letteralmente:
"abbondanza e scarsità".
6 "Nascita/estinzione" e
"persone comuni/Buddha", così come il già citato "illusione/risveglio"
fanno parte della concezione non-dualista di Dogen zenji che crea parole
nuove che in una singola unità lessicale inglobano significativamente i
due opposti a mostrare anche visivamente come i due concetti siano
strettamente legati e interdipendenti l'uno dall'altro.
7 Bodhicitta: la mente
dell'illuminazione.
8 Ovvero: una immagine.
9 Shinjin datsuraku:
"lasciare andare il proprio corpo/mente."
10 Ovvero: la legna è
tale dall'inizio alla fine, ossia non muta la sua natura.
11 Ovvero: che è
riflessa.
12 Ovvero: quando non si
ha ancora fatto sufficiente esperienza del Dharma.
13 Ovvero: il grande mare
può essere percepito con una infinita serie di forme diverse.
14 Ovvero: per ogni
piccola cosa.
15 Le espressioni:"avere
un luogo dove risiedere" o "avere una via da percorrere" equivalgono a:
raggiungere l'illuminazione.
16 Interiorizzata
significa: cosciente.
17 Vento è sinonimo di
comportamento in giapponese.
18 Cioè, fa capire che
questa nostra quotidianità è in realtà il luogo meraviglioso
dell'illuminazione. |
Da:
http://www.maitreya.it/menurivista/dharma3/genjo.htm
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