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dal libro: “Psicoanalisi e Buddhismo Zen”
di Erich Fromm, D.T. Suzuki, Richard De Martino, Astrolabio
Editore, 1968.
A cura di Giovanna Visini
Il compito, giunti a questo punto, consiste nel presentare
una visione generale del Buddhismo Zen, che tenga conto degli argomenti
specifici trattati in questo convegno, cioè precisamente, la psicologia del
profondo e la psicoterapia. A tal fine, con tutti i limiti della mia non
autorevole competenza, mi proverò ad abbozzare una trattazione generale dello
Zen nei suoi rapporti con la condizione umana.
L’esistenza umana è inizialmente autoconscia o meglio, con
una designazione che qui è da preferirsi, un’esistenza conscia dell’ego. L’uomo
non nasce direttamente nell’esistenza umana. Il neonato non è ancora umano;
l’idiota non è mai del tutto umano; il bambino-lupo è soltanto quasi-umano, lo
psicotico senza speranza forse non è neppure più umano.
Non è che il neonato, l’idiota, il bambino-lupo, o lo
psicotico siano mai dei puri animali. Lo stato preconscio dell’ego del neonato,
la coscienza dell’ego abortita dell’idiota, la coscienza dell’ego ritardata del
bambino-lupo, nonché la coscienza deteriorata dello psicotico derivano tutte
quante la loro particolare determinazione da ciò che dovrebbe essere la norma
del loro essere sviluppato e inalterato. Questa norma è quella della coscienza
dell’ego che, di solito, appare in primo luogo, fra l’età di due e quella di
cinque anni, in un piccolo che abbia genitori della specie umana e sia inserito
in una società umana. Trascurando per il momento qualsiasi considerazione
fenomenologica degli esordi e dello sviluppo di tale coscienza, procediamo
immediatamente a un’analisi della sua natura e a un esame delle implicazioni che
essa presenta per la condizione umana.
La coscienza dell’ego indica un ego consapevole ovvero
conscio di se stesso. La consapevolezza di sé è espressa come affermazione di
sé, l’ ‘Io’, o anche, come continuerò a chiamarlo, l’ego. L’affermazione di sé
implica l’individuazione di sé, l’ego differenziato e discriminato da ciò che
non è lui stesso – ‘l’altro’, o semplicemente, dalla sua propria negazione,
‘non-io’ o ‘non-ego’. L’affermazione di sé dunque implica una biforcazione di
sé.
L’affermazione di sé implica il sé tanto come affermante che
come affermato. Come ciò che afferma, il sé compie l’atto di affermare se
stesso; come ciò che è affermato, è un fatto dell’esistenza che si presenta a se
stesso. La consapevolezza e l’affermazione di sé, in cui esso effettivamente
emerge o appare è, immediatamente, tanto un atto intrapreso dall’ego, quanto un
fatto che sia dato all’ego. L’ego, quale soggetto che afferma, non è
cronologicamente anteriore a se stesso come oggetto affermato. Né tanto meno la
sua individuazione precede la sua biforcazione. Quando si dà coscienza dell’ego,
immediatamente si dà l’ego, e quando c’è l’ego, esso è già immediatamente tanto
oggetto quanto soggetto, tanto offerto a se stesso, quanto attivatore di se
stesso. Un soggetto vivente, attivo, dotato di libertà e di responsabilità, è,
nel contempo, un oggetto passivo, dato, destinato, determinato e senza
responsabilità. E’ questa la situazione iniziale dell’uomo nella esistenza
umana, una situazione che potrebbe essere caratterizzata come soggettività
contingente o condizionata.
La soggettività condizionata, nonostante ogni
condizionamento, è, ciò nondimeno, soggettività. Il sorgere della coscienza
dell’ego segna perciò il sorgere della soggettività. L’esistenza perviene ad
essere esistenza umana proprio in grazia della soggettività. Come soggetto l’io
è consapevole di sé e possiede sé. Inoltre quale soggetto, incontrando – e
riconoscendo – la soggettività degli altri, che sono del pari consapevoli di sé
e posseggono sé, può imparare a controllare, a disciplinare e a esercitare se
stesso, divenendo così una persona equilibrata. Il neonato, tuttavia, non è
ancora una persona, l’idiota non è mai una persona, il bambino-lupo è
semplicemente quasi una persona, e lo psicotico, forse, non è più affatto una
persona. Per di più, l’ego, in quanto soggetto, possiede un mondo, il suo mondo
ed è di questo consapevole. Inoltre, come soggetto, può sempre, nella libertà
della propria soggettività, superare e trascendere il suo mondo in qualsiasi
aspetto gli venga presentato. Nell’espressione della sua inviolabile integrità
come persona-soggetto – nei confronti del suo mondo o di se stesso – può infine
sempre resistere e dire: “No!”.
Inoltre, quale soggetto, l’ego può uscire fuori da sé e
partecipare alla soggettività dell’altro in amicizia, compassione, amore. Sempre
come soggetto, può disporre di un linguaggio e concepire significati, può
domandare, dubitare, comprendere, riflettere, valutare, giudicare, concepire,
fabbricare e usare degli strumenti, prendere ed eseguire decisioni, lavorare,
essere creativo, esprimersi in un qualche oggetto o attività o mediante questi.
In effetti, solo come soggetto può possedere un oggetto. L’ego, pertanto, nella
sua soggettività, possiede se stesso e il suo mondo e può elevarsi al di sopra
di essi; può amare, comprendere, decidere, creare ed essere produttivo. E’
questa la grandezza dell’ego nella coscienza dell’ego; è questa la dignità
dell’uomo nell’esistenza umana.
Ciò nonostante, proprio perché soggetto, e questa è una parte
della sua grandezza, l’ego verifica il fatto che la propria soggettività è
contingente e condizionata. Pur essendo libero, in quanto soggetto, di
trascendere qualunque aspetto oggettivo di se stesso o del suo mondo, non ha
però la libertà in quanto ego, di trascendere la sua struttura soggetto-oggetto
in quanto tale. Persino nell’atto di trascendere è ancora vincolato a ciò che
viene trasceso. L’ego, come soggetto, è sempre legato a sé e al suo mondo come
oggetti. In quanto soggetto, attiva se stesso e possiede il suo mondo. In quanto
oggetto, è dato a se stesso in tutta la sua particolarità e finità come parte
del mondo in cui esso si trova. In grado di avere un oggetto, esclusivamente
perché esso è un soggetto, non può mai essere un soggetto se non in quanto esso
sia anche o abbia un oggetto.
L’ego è, oltre che dipendente dall’oggetto e condizionato
dall’oggetto, anche impedito dall’oggetto. Nella soggettività, in cui esso è
consapevole di se stesso e possiede se stesso, l’ego è, nel contempo, separato e
tagliato fuori da se stesso. In quanto ego, non può mai entrare in contatto con
sé, conoscersi o possedersi in una piena e autentica individualità. Qualsiasi
sforzo compiuto in tal senso lo rimuove come un soggetto in costante regressione
dal proprio punto d’appoggio, lasciando soltanto una qualche apparenza oggettiva
di sé. In un continuo stato di autoelusione, l’ego possiede sé come mero
oggetto. Diviso e dissociato nel suo proprio equilibrio, esso finisce col
superare la propria sfera d’azione, bloccato, rimosso e alienato da se stesso.
Proprio quando possiede se stesso, l’ego non si possiede più.
Tanto con la sua consapevolezza di sé, quanto con la
consapevolezza e il possesso che ha del mondo – che costituisce di fatto una
dimensione della sua consapevolezza di sé – l’autentico avere diviene un
non-avere. Nella consapevolezza dell’ego e nel possesso che l’ego ha del suo
mondo, il mondo è sempre oggetto. Riflessivamente, nella sua soggettività, l’ego
può arrivare a formarsi del mondo un’immagine come quella della totalità in cui
esso stesso è incluso. Poiché, comunque, l’aspetto di sé riflesso in quel mondo
è un aspetto oggettivo, a sua volta, il mondo così concepito è un oggetto per
l’ego, in quanto soggetto che concepisce. Tanto nella consapevolezza diretta,
quanto nella concettualizzazione, il mondo è oggetto, dal quale l’ego, come
soggetto, resta distante, separato, estraniato.
E’ precisamente questo fattore (la dicotomia della struttura
soggetto-oggetto) che costituisce l’ambiguità esistenziale, il conflitto, anzi
la contraddizione dell’ego, impliciti nella coscienza dell’ego. L’ego, subendo
nella sua unità una sorta di biforcazione e di disgiunzione, è delimitato da se
stesso, senza peraltro ricevere in se stesso sostegno e completezza. Isolato ed
escluso, nella sua relazionalità, l’ego è limitato, pur essendone nel contempo
tagliato fuori, a un mondo al quale appartiene e nel quale rientra. Nel suo
avere e non avere se stesso e il mondo, nel suo contemporaneo esservi collegato
ed esserne separato e tagliato fuori, l’ego è dilacerato da una duplice
spaccatura, da una sorta di squarcio che ha origine tanto dal suo interno, come
dal suo esterno. Non è mai puro soggetto nella sua soggettività, mai
assolutamente libero nella sua libertà, l’ego non è l’ambito, né la fonte di sé
o del suo mondo; egli li possiede entrambi, ma non possiede mai completamente
nessuno dei due. E’ questo il predicamento dell’ego nella coscienza dell’ego. E’
questa la miseria dell’uomo nell’esistenza umana.
L’espressione esistenziale di questo predicamento costituisce
la duplice angoscia dell’ego intorno al dover vivere e al dover morire.
L’angoscia del dover vivere e quella del dover morire non sono che due diverse
espressioni di un’unica fondamentale, radicale angoscia: quella che si riferisce
al trionfo su questa intima dilacerazione, sulle corrosioni che comporta, sulla
contraddizione che impedisce all’ego di essere pienamente se stesso. L’angoscia
relativa alla vita scaturisce dalla necessità di contendere con essa e di
risolvere questa contraddizione. L’angoscia relativa alla morte scaturisce dalla
possibilità che la vita possa terminare prima che sia stata raggiunta una
risoluzione del problema. Solo l’ego, nella coscienza dell’ego, si cimenta, per
‘essere’, con la necessità di trovare e realizzare se stesso. Si tratta di un
implicito imperativo che non è ancora presente nel neonato, non è mai
completamente presente nell’idiota, difficilmente è qualcosa di più che una
semi-presenza nel bambino-lupo e forse non è più affetto presente nello
psicotico. Rispetto poi alla pienezza naturale dell’animale, tale imperativo, in
ogni caso, è del tutto inesistente.
Sarebbe privo di senso – ammesso che pure ciò fosse possibile
e che un linguaggio articolato non fosse esso stesso uno sviluppo della
coscienza dell’ego – chiedere al cucciolo di un animale, per esempio a un
gattino, che cosa intenda o che cosa gli piacerebbe essere da grande. Pure il
piccolo dell’uomo, incontra, viceversa, tanto in se stesso quanto all’esterno,
un tale interrogativo. Ciò dal momento che la semplice crescita o maturazione
biologica o fisiologica non costituisce in quanto tale, la crescita, la
maturazione o la piena realizzazione dell’umano in quanto umano. Senza dubbio la
maternità costituisce per la femmina dell’uomo una possibilità di realizzazione
superiore a quella che la paternità possa costituire per il maschio. Di
conseguenza, la risposta della bambina, ‘diventerò madre’ è accettata come una
risposta adeguata. Viceversa, se il bambino rispondesse ‘diventerò padre’, una
tale risposta non sarebbe considerata giusta e potrebbe suscitare una certa
costernata perplessità.
Inoltre, pur riconoscendosi che la sua connotazione supera di
gran lunga quella meramente biologica, la maternità umana non è in grado di
esaurire la realizzazione conclusiva della femmina dell’uomo sul piano umano. In
effetti, nessun ruolo, funzione o vocazione di sorta possono mai, in modo
definitivo, soddisfare l’essere umano – maschio o femmina – in quanto umano.
Tuttavia l’ego, costretto dalla sua intima contraddizione a cercare di
completarsi, è trascinato da questa proprio in un simile inganno.
Disponibile a se stesso esclusivamente nei termini di un
qualche oggetto che si trovi a una certa distanza da sé – e ciò persino nel caso
in cui contempli la propria soggettività – l’ego naturalmente procede nel
confondere la piena realizzazione con ‘l’essere qualcosa’. In quanto soggetto,
nel tentativo di far fronte all’esigenza di ritrovare se stesso, l’ego contempla
una qualche immagine oggettivata di sé. Mediante una tale immagine, l’ego spera
nel contempo di riuscire a dimostrare se stesso e di conseguire una certo
riconoscimento e una certa approvazione dall’altro, ovvero, se non proprio
rispetto, il controllo sull’altro o almeno una sorta di indipendenza dall’altro.
Questo perché, nella sua duplice alienazione, l’ego si imbatte nella limitazione
assoluta impostagli dall’altro come in una sfida o, a dire il vero, in una
minaccia.
Fidando di stabilire saldamente se stesso e di parare questa
minaccia con la proiezione all’esterno della propria immagine oggettivata, l’ego
può ridursi a ritenere che quella impressione limitata, finita, da sola
costituisca tutto quanto se stesso, il suo regno, la sua origine, la sua stessa
destinazione essenziale, in cui può trovare la sua forza e da cui può essere
pienamente soddisfatto. La maggior parte o forse la totalità del suo essere
soggettivo è ora dedicata, ma di fatto subordinata, al contenuto o ai contenuti,
necessari a realizzare la visione – vale a dire la ricchezza, il prestigio, la
femminilità, la mascolinità, la conoscenza, la perfezione morale, la creatività
artistica, la bellezza fisica, la popolarità, l’individualità o il ‘successo’.
Identificandosi virtualmente con questi contenuti, l’ego concentra la propria
attenzione esclusivamente su di essi e sulla concezione di se stesso che tali
contenuti gli propongono. In questa sorta di fissazione e di inclinazione, l’ego
cade facilmente preda della grande illusione dell’egocentrismo. In costante
ricerca di se stesso, ma tuttavia sempre autoeludendosi, l’ego in quanto oggetto
bloccato e dipendente, finisce per essere oggetto dominato e frustrato.
L’inganno fondamentale implicito, sia che l’immagine-oggetto
in questione divenga effettiva, sia che rimanga chimerica e idealizzata, è lo
stesso. Nella sua totalità, l’ego non è mai un mero aspetto obiettivo di se
stesso, né la sua soggettività effettiva – corpo, spirito, capacità, posizione,
‘personalità’, bontà, professione o vocazione, funzione biologica o sociale,
ceto, cultura, nazionalità, razza. Per quanto autenticamente grande, il marito,
la moglie, il genitore, il governante, lo scienziato, il pensatore, l’artista,
l’uomo d’affari, o l’uomo dedito a una qualunque professione, per quanto
eccezionalmente ricco possa essere, per quanto profondamente possegga se stesso,
non possiede tuttavia pienamente se stesso in quanto ego, non possiede un se se
stesso compiutamente realizzato in quanto umano.
Pur nell’espressione di una soggettività genuina, come
dedizione più completa all’amore, alla creatività, alla devozione a un ideale,
alla dedizione a un compito, esso rimane limitato e dipendente dall’oggetto
particolare che è l’elemento di una tale espressione – l’oggetto specifico
dell’amore, dell’attività artistica, dell’ideale, della professione e del
lavoro. Perpetuamente asservito al predicamento implicito nella soggettività
condizionata, incapace di essere soggetto senza un oggetto, è immediatamente
circoscritto e sminuito dall’oggetto. Di qui l’ambivalenza – nell’eros, o philia
– dell’ostilità segreta o manifesta verso l’oggetto dell’amore. Tale ostilità,
così come l’orgoglio e il particolare interesse che l’ego in quanto soggetto ha
per l’amore (o per la creatività o per la moralità), macchia e corrompe appunto
quell’amore (o quella creatività e moralità), scatenando all’interno dell’ego
una nausea abissale della sua propria impurità, colpevolezza o, nel caso in cui
sia orientato religiosamente, del peccato.
Mai può l’ego, necessitante di un oggetto per essere
soggetto, conquistare in o mediante un oggetto la propria completa
realizzazione. Una tale realizzazione, anche se autentica, è ancora limitata
temporanea, offuscata. A dispetto dell’autentica ricchezza della sua
soggettività creativa, a dispetto dell’abbondanza effettiva dei contenuti della
sua esistenza, della reale estensione delle sua conquiste e dei suoi successi,
l'ego in quanto ego rimane incompiuto. Incapace di mantenere se stesso
all'interno di se stesso e forse tormentato dai sentimenti della propria
indegnità, della propria colpa o del proprio peccato, esso arriva a conoscere la
melanconia e desolati momenti di solitudine, di frustrazione e di disperazione.
Intimamente angariato dall’inquietudine o da una sorta di disprezzo o
addirittura di odio contro se stesso, può manifestare all’esterno un certo
numero di turbe psicologiche o psicosomatiche.
Esso può, tuttavia, spesso riuscire a contenere queste
angosce e chiudere la propria esistenza in una tale condizione. Ma anche nel
caso in cui ciò avvenga, esso rimane sotto la continua minaccia che quel
profondissimo inestinguibile disagio possa erompere e scatenarsi in uno strazio
e in un terrore incontenibili. Se questo accadesse, l’ego non riuscirebbe più a
razionalizzare il proprio senso di indegnità, il proprio senso di colpa, ma
diverrebbe morbosamente insicuro del perdono divino del suo peccato, oppure le
componenti necessarie a difendere la sua immagine oggettivata andrebbero
perdute, distrutte o resterebbero inutilizzate, ovvero, pur permanendo,
darebbero di sé prova deludente, crescerebbero vuote o semplicemente
cesserebbero di venire utilizzate. Infine, qualunque caso banale della vita
quotidiana può originare repentinamente la comprensione traumatica del fatto che
non soltanto ogni possibile contenuto è transeunte ed effimero, ma che tale è
persino l’ego stesso. Sempre vulnerabile nella giovinezza, come nell’età
avanzata, dalla malattia e dall’infermità del corpo e dello spirito, esso deve
morire.
Da un punto di vista intellettuale, la inevitabilità della
sua morte ovviamente è sempre nota all’ego lungo tutta la sua esistenza: La
sperimentazione effettiva, comunque, della prospettiva del proprio non essere è
uno choc esistenziale sconvolgente che distrugge completamente l’illusione della
possibilità di un compimento di esso nei termini di una qualche immagine
oggettivata. L’ansia traumatica derivante dal dover morire attesta con forte
pregnanza l’essenziale inadeguatezza di qualsiasi elemento oggettivo o di
qualsiasi contenuto oggettivo a dar definitiva soddisfazione all’essere umano in
quanto umano. Imprigionato in pieno e angosciosamente nella duplice angoscia di
dover vivere e di dover morire, l’ego passa attraverso la straziante tortura
della più pungente forma di incertezza: essere o non essere.
Una sfiducia tanto singolarmente profonda che si esprime
nell’incertezza da parte dell’ego a decidere se portare avanti la propria
battaglia per la realizzazione o meno, costituisce, forse, l’espressione più
profonda del suo disagio: nulla di quel che l’ego può fare riesce a risolverne
la contraddizione. Fintanto che l’ego resta semplicemente ego, rimane anche la
contraddizione in esso implicita. Riconoscendo con chiarezza e onestà il proprio
stato di disagio, l’ego può avere il coraggio e la forza di prendere su di sé la
sua negatività e continuare a sforzarsi di ‘essere’. Per quanto frequentemente
possa compiere un tale sforzo di carattere eroico, questo non costituisce ancora
una realizzazione positiva. Un’espressione affermativa di soggettività sensata
nell’accettare, tollerare e sopportare il compimento appena abbozzato, è, nel
migliore dei casi, latente e anticipatoria, piuttosto che effettiva; nel
peggiore dei casi, per contro, diventa di nuovo illusione e implica in questo
senso un inganno soggettivo.
Nel sopportare e resistere, l’ego pensa talvolta di essere se
stesso, assumendosi e sopportando la piena responsabilità di se stesso e della
propria esistenza. Dimenticando che, in quanto oggetto, esso è un fatto dato,
passivo, al di là di una possibile appropriazione mediante i suoi propri atti e
le sue proprie decisioni in quanto soggetto, esso soccombe all’inganno dell’hybris.
Accecato da quell’illusione, esso tenta, nondimeno, di dichiarare, persino
nell’agonia delle catastrofi schiaccianti della sua esistenza, di essere ‘il
signore del proprio fato’, di essere ‘il condottiero della propria anima’.
Per giunta, l’illusione di solito si mantiene soltanto
mediante la soppressione di qualsiasi emozione, di qualsiasi tenerezza,
compassione, amore. Quel medesimo ego volente, che disciplina o indura se stesso
contro le proprie negatività, finisce spesso per farsi rigido, fragile,
ostinato, pieno di terrore che, se rallenti la tensione, venga il completo
tracollo. Tuttavia è proprio questo incessante sforzo che continuamente lo tiene
in uno stato precario, sotto la costante minaccia di sfasciarsi o andare in
pezzi. Ultraffaticato, ultraresponsabilizzato e ultrarepresso, rischia di
lasciarsi andare di un subito agli opposti estremi.
In contrasto col prendere su di sé e con l’indulgere verso la
negatività del proprio predicamento, l’ego si incarica invece di sfuggire o di
misconoscere questa negatività. Si sforza di ‘essere’ non già a dispetto, ma
nella noncuranza delle sue limitazioni in quanto soggetto condizionato. Schiavo
di una dipendenza oggettiva o di un’oggettiva costrizione, l’ego si ingegna di
sottrarsi – piuttosto che di sopportare - a tale schiavitù, rifiutando di
ammetterne la serietà, concertando di obliarla o presumendo di negarne
completamente l’aspetto oggettivo in quanto tale.
Nell’ignoranza della natura o delle componenti dei propri
atti e delle proprie decisioni, l’ego si immergerebbe ora in un flusso di
attività, di operatività o di decisione – o perché a caccia di distrazioni, o
addirittura semplicemente per amore dell’attività, dell’operatività o della
decisione. In quest’ultimo caso, tentando di realizzare una soggettività pura,
libera da tutte le costrizioni oggettive, l’ego sviato dalla fallacia implicita
nel riduzionismo, cade in una duplice illusione. Mentre, infatti, presume che,
in quanto soggetto attivo, la sua pura soggettività potrà ridurre l’aspetto
oggettivo, teme di ridursi esso stesso ad oggetto, se non si mantenga
continuamente in attività in quanto soggetto.
Comunque, quale che sia la motivazione, la soggettività,
spogliata della serietà del suo contenuto oggettivo, cessa di essere
significativa e degenera rapidamente in un fare privo di finalità, semplicemente
per ‘tenersi occupato’, in un vuoto ‘scherzare’, in una spontaneità impulsiva,
in un’indulgente affermatività, in un non-conformismo irresponsabile, in un
capriccio lascivo, ovvero in un libertinismo sbrigliato o nella licenza. In ogni
caso, una tale soggettività non è in grado di fornire altro che soddisfazioni e
interessi diversivi oppure eccitazioni momentanee e sfuggenti; ed anche queste
gratificazioni si indeboliscono sempre di più, sino a diventare irritanti e
aride subito dopo. Nella sua frenetica disperazione, l’ego è spinto ad
accrescere l’intensità di questa soggettività presunta – facendo sempre di più,
cercando sempre di più il piacere, il non-conformismo, sempre di più ‘l’evasione
da tutto’, sempre di più gli stupefacenti, l’alcol, il sesso e le perversioni
sessuali.
Si tratta insomma di un triste circolo vizioso. Incapace di
sradicarsi, l’aspetto oggettivo implicito nella struttura soggetto-oggetto
dell’ego è reso sempre più povero, destituito, inutile, mentre la soggettività
dell’ego, negata a sua volta ogni significativa e obiettiva caratteristica,
diventa sempre più insignificante, vuota e dissoluta. A parte il fatto che non
può mai essere un soggetto a meno che esso stesso non sia un oggetto o non
disponga di un oggetto, l’ego nel suo sforzo di ridurre l’elemento oggettivo
mediante un abbandono irresponsabile alla soggettività rimane impigliato proprio
nell’impasse che aveva cercato di evitare: contempla ancora davanti a sé
l’abisso e la disperazione dello iato profondamente spalancato che lo frustra e
gli impedisce di essere pienamente se stesso.
Essendo fallito nei suoi alternativi sforzi di ‘essere’,
incapace di sopportare l’angoscia o il peso di una contesa continua con questo
compito dall’apparenza impossibile, l’ego può avere la tentazione – addirittura
l’impulso – di rinunciare a ogni sforzo ulteriore. Scegliendo virtualmente di
‘non essere’, nel potere proprio della sua soggettività, esso si prova a eludere
il proprio imbarazzo abbandonando quella soggettività. O mediante l’idolatria
religiosa o laica, o mediante la cinica, negativa indifferenza, la servile
sottomissione al conformismo collettivo, la regressione psicologica alla
dipendenza non ridestata dell’infanzia, oppure direttamente mediante la
disintegrazione psicotica, l’ego vorrebbe evadere il suo predicamento cedendo la
propria libertà e responsabilità e con queste se stesso, come autentico
soggetto.
Per l’essere umano, in quanto umano, vale a dire per l’ego
nella coscienza dell’ego, questo comporta un dualistico inganno. Laddove la
rinuncia alla soggettività è ancora un’espressione di soggettività, l’ego nel
cessare di essere un vero soggetto, cessa di essere un vero ego. Ogni abbandono
da parte dell’ego della sua soggettività implica necessariamente la diminuzione,
la disparità o la perdita di sé come ego. Nella cieca superstizione od ossequio
dell’idolatria, nella negazione nichilistica del significato e del valore di
qualsiasi atto o decisione, nell’abbietta identificazione con la massa, nel
tentativo di ritornare all’utero, come nella regressione e nel ritiro in una
psicosi, l’essere umano è negato o addirittura distrutto in quanto umano.
L’abbandono della soggettività è altrettanto ingannevole quanto l’abbandono alla
soggettività.
Infine, non più in grado di affrontare, sopportare o evitare
il suo disagio, l’ego per un agonizzante senso di solitudine nella sua aporia
vissuta, può scegliere di ‘non essere’ non mediante un abbandono della propria
soggettività, ma mediante l’abbandono di sé. Nell’opprimente angoscia e
disperazione dell’incapacità di vivere e dell’apparente irresolubilità della sua
contraddizione di fondo – quale che ne possa essere la manifestazione – l’ego
intraprende direttamente la propria annichilazione col suicidio.
Così, tanto nella ricerca degli sforzi per una risoluzione,
una accettazione, un annullamento o un abbandono, i tentativi operati dall’io
nel trattare la sua intrinseca contraddizione sono, nella migliore delle
ipotesi, e sotto la minaccia costante di un collasso, transeunti, parziali o
frammentari, e, nella peggiore, fondati sull’inganno o sull’illusione,
nichilisti e distruttivi. Non che ogni singolo modo venga mai perseguito ad
esclusione di tutti gli altri. Nella sua vita reale, l’ego di solito ne combina
diversi, con intensità varianti e con variante predominanza. Tutti questi modi,
comunque, positivi o negativi, responsabili o irresponsabili, profondi o
superficiali, scaturiscono in definitiva dall’unica fondamentale aspirazione
dell’ego, imprigionato nella sua alienazione interna ed esterna e
nell’estraniamento della sua latente contraddizione, a trovare e a realizzare, a
conoscere effettivamente, a tornare alla sua sede originaria, a essere
pienamente e a possedere se stesso in e con il mondo. Questa aspirazione e la
sua richiesta di realizzazione costituiscono il definitivo e centrale impegno
dell’ego nella coscienza dell’ego. Questo desiderio e questa realizzazione
costituiscono la motivazione esistenziale e il fine ultimo del Buddhismo Zen.
Secondo la tradizione, il Buddhismo Zen, o Ch’an, ebbe inizio
effettivamente in Cina allorché un pensoso cinese del sesto secolo, Shen-kuang,
non pago dei suoi dotti ed eruditi studi confuciani e taoisti, venuto a sapere
della presenza in un vicino tempio buddhista di un maestro Zen proveniente
dall’India, decise di andarlo a trovare. Il maestro indiano, Bodhidharma, seduto
a gambe incrociate davanti a un muro, non si mosse e non ricevette il
visitatore. Shen-kuang, mosso da una profonda inquietudine, decise di ritornare.
Infine, una notte, rimase immobile sotto una violenta tempesta di neve, finché
all’alba, la neve raggiunse le sue ginocchia. Commosso, Bodhidharma gli chiese
la ragione per cui lo aveva fatto. In lacrime il cinese chiese al maestro
indiano se non volesse concedere il beneficio della sua sapienza in soccorso
degli esseri travagliati. Bodhidharma replicò che la via sarebbe stata
intollerabilmente difficile, avrebbe implicato immense prove e che comunque non
poteva essere raggiunta con poca perseveranza o determinazione. Udendo ciò,
Shen-kuang trasse una spada che portava con sé, si troncò il braccio sinistro e
lo pose di fronte al monaco indiano. Solo allora Bodhidharma lo accolse come
discepolo, imponendogli il nuovo nome di Hui-k’o.
Se si tenta di interpretare questo racconto – molto
probabilmente leggendario – in ordine a ciò che può essere considerato il suo
significato simbolico per una comprensione del Buddhismo Zen, si nota in primo
luogo che verso il maestro si muove un ego instabile e per così dire distratto.
Il maestro Zen aspetta, in un certo senso, che l’ego desideri venire a lui.
Persino allora, tuttavia, non è disposto ad accordargli un riconoscimento
immediato. A un’osservazione superficiale, sembra essere sprezzante o
scoraggiante. Questa che sembra una forma di scarsa considerazione o addirittura
di rifiuto non è, tuttavia, che un modo di sondare la serietà del proposito.
Quando il maestro si sia convinto dell’essenziale serietà dell’aspirazione,
seguono immediatamente l’aperto riconoscimento e l’accoglimento.
Anzi, è proprio l’ansia esistenziale che implacabile e
inesorabile lo conduce ad avvicinare Bodhidharma e a ritornare da lui, esporsi a
una tempesta di neve, a tagliarsi un braccio, quella che fa di Hui-k’o
simbolicamente il primo ‘discepolo’ Zen. Perturbato e sconvolto dalla sua intima
contraddizione, non aiutato dalla cultura tradizionale, Hui-k’o va da
Bodhidharma alla ricerca di conforto e di risoluzione ed è pronto, in tal modo,
a rischiare il suo essere totale.
Quale che possa essere l’attendibilità storica di questo
episodio, è proprio questa aspirazione fondamentale nata dall’implicito
predicamento umano che costituisce, se espresso a un maestro Zen, il principio
esistenziale del Buddhismo Zen. Senza ciò, per quanto si possa restare seduti
per giorni e giorni a gambe incrociate in innumerevoli templi Zen,
intrattenendosi in interminabili incontri con miriadi di maestri, si rimane, ciò
nonostante, discepoli Zen solo di nome. Ciò perché, in ultima analisi, il
Buddhismo Zen non costituisce esso stesso, né tanto meno presenta, alcun
contenuto oggettivo, specifico che consenta di essere studiato come tale, dal
punto di vista psicologico, filosofico, religioso, storico, sociologico o
culturale. La sola componente valida del Buddhismo Zen è la concreta esistenza e
vita di ognuno, la sua fondamentale contraddizione e incompiutezza e quindi,
diversamente da una pura e semplice aspirazione, il desiderio effettivo di
riconciliazione e di realizzazione. Se ciò che va sotto il nome di Buddhismo Zen
di fatto non tratta e non tenta di risolvere l’intrinseco disagio esistenziale
dell’ego nella coscienza dell’ego, non è più, a dispetto di qualsiasi pretesa
d’ortodossia che possa avanzare, autentico Buddhismo Zen.
Accettato come genuino discepolo Zen, Hui-k’o intraprese
allora a cercare la verità. Bodhidharma affermava che non era possibile trovarla
fuori di se stessi. Ciò nondimeno, Hui-k’o manifestò la sua pena: il suo spirito
non era in pace ed egli supplicava il maestro di pacificarlo.
A questo punto esiste una ulteriore conferma che l’impellente
cruccio di Hui-k’o, scaturisse dalla sua intima contraddizione. Il termine
cinese, hsin, tradotto con mente-cuore, può significare cuore o mente, ma è
qualcosa di più che l’uno o l’altro soltanto. Il greco psyche o il tedesco Geist,
probabilmente si avvicinano di più al suo significato. Nella terminologia di
questa presentazione, lo hsin può essere riguardato come l’ego in quanto
soggetto. Ora l’ego in quanto soggetto, nella sua posizione di soggettività
condizionata, lacerato com’è dall’inquietudine e dall’agitazione, invoca la
pace.
Bodhidharma, anticipatamente, ha già iniziato la sua funzione
di guida e di istruzione, dichiarando l’impossibilità di ottenere una
risoluzione dall’esterno. Non comprendendo ancora, e forse a causa del
sentimento di solitudine o anche della disperazione, Hui-k’o persistette nel
presentare il suo dolore, chiedendo a Bodhidharma di alleviarglielo. Quale fu la
risposta di Bodhidharma? Scandagliò forse egli il passato di Hui-k’o – la sua
vicenda personale, i suoi genitori, la sua prima fanciullezza, gli chiese forse
quando per la prima volta avesse avvertito il disturbo, quale ne fosse la causa,
quali i sintomi? Esplorò egli forse il presente di Hui-k’o – la sua occupazione,
la sua condizione matrimoniale, i suoi sogni, i suoi piaceri, i suoi interessi?
Bodhidharma gli rispose solo: “Manifesta la tua mente-cuore e io la pacificherò
per te!”.
Trascurando tutti i particolari della vita di Hui-k’o,
passata o presente, Bodhidharma si slanciò immediatamente e direttamente nel
vivo dello stesso predicamento umano. L’ego, preso nelle strette della sua
intima contraddizione e dilacerazione, che non può né risolvere né tollerare, è
sfidato a non produrre alcunché che possa avvertire essere il suo problema,
bensì se stesso come manifesto portatore del problema. Manifesta l’ego-soggetto,
che è travagliato! Bodhidharma e il Buddhismo Zen verificano che, in ultima
istanza e sostanzialmente, non è l’ego ad avere un problema, ma l’ego stesso è
un problema. Mostrami chi è colui che è disturbato e sarai pacificato.
Iniziando così con Bodhidharma e proseguendo sempre in tal
modo, il fondamentale, invariato approccio al Buddhismo Zen, per speciale che
sia la forma e il modo della sua metodologia nel linguaggio, nella pratica e
negli atteggiamenti esteriori, è stato proprio un tale sincero concreto attacco
alla contraddittoria struttura dualistica soggetto-oggetto nell’ego della
coscienza dell’ego. L’unica, esclusiva finalità è rimasta in tutto e per tutto
quella di trionfare della frattura interiore e della sfaldatura esterna che
separano e allontanano l’ego da se stesso – e dal suo mondo – onde questo possa
essere pienamente e realmente conoscere chi e che cosa sia.
Hui-neng (vii secolo), la seconda figura negli annali dello
Zen dopo Bodhidharma, ricevette la visita di un monaco e chiese allora
semplicemente, ma con intenzione: “Che cosa è questo che così viene?”. Si narra
che occorsero al monaco (Nan-yo) otto anni, prima di riuscire a rispondere. In
un’altra occasione, quello stesso Hui-neng chiese: “Qual è la tua faccia
originale, prima della nascita del padre e della madre?”. Il che è quanto dire,
che cosa sei tu oltre alla struttura soggetto-oggetto del tuo ego nella
coscienza dell’ego?
Lin-chi (ix secolo), fondatore di una delle due maggiori
scuole di Buddhismo Zen tuttora esistenti in Giappone, ove è noto come Rinzai,
pose una volta questo problema:
“Vi è un solo vero uomo privo di qualità, nella massa della
rossa carne; egli entra ed esce dai vostri cancelli del senso. Se ancora non
siete stati condotti a testimoniarlo, guardate, guardate!’.
“Si fece avanti un monaco e chiese: ‘Chi è il vero uomo privo
di qualità?’.
“Discese Rinzai dal suo seggio e afferratolo per il petto
pretese: ‘Parla, parla!’.
“Il monaco esitava, talché, lasciatolo andare Rinzai esclamò:
‘Qual mai sorta di sozzura è questo vero uomo privo di qualità!’. Così dicendo,
Rinzai si ritirò nella sua cella, lasciando il monaco a ruminare la cosa”.
La capacità di aiutare l’ego a ridestarsi e a realizzare
questo ‘vero uomo privo di qualità’, cioè a pienamente essere e ad
autenticamente conoscere se stesso, sorse fra certi maestri Zen – in particolare
fra quelli della scuola di Lin-chi o Rinzai – e prese i nome, in giapponese, di
koan (in cinese, kung-an, alla lettera: documento o testamento pubblico). E’
questo uno sviluppo che si verificò in particolare nell’undicesimo e dodicesimo
secolo, allorché il Buddhismo Zen o Ch’an, avendo ormai acquisito larga
considerazione e grande rinomanza in tutta la Cina, attrasse molti che non più a
lungo sarebbero riusciti a mantenersi fuori dalle costrittive necessità
esistenziali.
I maestri precedenti avrebbero probabilmente reagito con
quella medesima indifferenza esteriore e con quel misconoscimento con cui agiva
Bodhidharma. I maestri successivi, però, nel sincero e compassionevole desiderio
di aiutare tutti coloro che lo chiedevano, principiarono adesso essi stessi la
loro relazione con chi li chiamasse, mercé un koan.
Ta-hui (xiii secolo), maestro cinese d’epoca Sung, che per
primo si servì del koan con una certa sistematicità, disse una volta quanto
segue:
“Dove siamo nati? Ove andiamo? Colui che conosca questo onde
e questo dove, è il solo che possa veramente essere chiamato buddhista. Ma chi è
quest’uno che va attraverso nascita e morte? E ancora, chi è quest’uno che
conosce tutto dell’onde e del dove della vita? Chi è quest’uno che d’un subito
diventa consapevole dell’onde e del dove della vita? Chi è quest’uno ancora che
di fronte a questo koan non può fissarvi gli occhi e, non essendo in grado di
comprenderlo, si sente i visceri sconvolti, come se una palla di fuoco, che
avesse trangugiato, non riuscisse più a venire fuori. Se vuoi conoscerlo,
afferralo dove non può essere trascinato nei recessi della ragione. Quando tu
così lo apprenda, conoscerai che, dopo tutto, esso è al di sopra
dell’interferenza della nascita e della morte”.
L’obiettivo essenziale resta lo stesso: conoscere e afferrare
chi sia quell’uno che è aldilà dei ‘recessi della ragione’, cioè della struttura
soggetto-oggetto dell’intellezione. In relazione a questo fine, il koan, una
sorta di quesito, problema, sfida, o richiesta, presentata da e secondo
l’iniziativa del maestro, è inteso a esplicare una duplice funzione. La prima
consiste nel penetrare nelle profondità e nel ravvivare alla fonte l’originario
impegno, profondamente sepolto o nascosto con l’inganno, dell’ego nella
coscienza dell’ego. La seconda consiste nel mantenere radicate e indirizzate in
modo adeguato quell’aspirazione fondamentale e la sua ricerca, nel mentre che le
stimola. Difatti non è sufficiente che esse vengano semplicemente ridestate.
Esse devono anche venire attentamente guidate e persino nutrite onde poter
evitare i molti ingannevoli e illusori trabocchetti dai quali rischiano di
lasciarsi stemperare o sviare.
Nella fase precedente, o pre-koan, del Buddhismo Zen, il
visitatore, generalmente, veniva spinto dallo stimolo della propria esperienza
vitale e motivato da una certa quale opprimente perplessità di carattere
esistenziale. Di solito, comunque, la ‘domanda’, o l’interesse, non era ancora
scandagliata sino in fondo. Anzi tale domanda, per quanto sorta naturalmente,
non ancora conosciuta nelle sue radicali origini e nella sua autentica natura, e
pertanto priva di una forma adeguata, avrebbe potuto facilmente restare nascosta
o fraintesa. Nonostante la loro effettiva intensità o serietà, l’aspirazione e
le esigenze dell’interessato erano abitualmente cieche, amorfe, confuse, e
richiedevano di essere rigorosamente esplicitate e focalizzate.
Quando, in questo periodo, il discepolo, incontrandosi con il
maestro, veniva apostrofato con una domanda penetrante o con un secco invito,
per esempio, “Rivela il tuo spirito”, “Che cos’è questo che viene?”, “Qual è il
tuo volto originario prima della nascita del padre e della madre?”, “Quando
sarai morto, cremato e le tue ceneri disperse, dove sarai tu?” o, più
semplicemente, “Parla, parla!” – l’effetto di tutto ciò serviva spesso a
fornirgli appunto il necessario orientamento e la necessaria guida. Ciò
nonostante, tali inviti, problemi, domande non avevano ancora il nome di koan.
Questi scambi di parole, spontanei e non prima predisposti, fra maestro e
discepolo erano, per contro, chiamati mondo, ovvero, in cinese, wen-ta, cioè,
alla lettera, domanda e risposta. Poiché tuttavia molti di questi mondo
riuscivano a suggerire, fondare e orientare il radicale ed essenziale problema
dell’ego, molti di essi furono, per conseguenza, effettivamente usati sia come
koan, sia come base di koan.
Il koan, nella sua duplice funzione, può perciò essere
considerato come un deliberato e calcolato tentativo di assicurare un certo
risultato, che in precedenza era ottenuto spontaneamente e senza particolari
accorgimenti. Inversamente, si può forse affermare che, a prescindere dalla
terminologia specifica e dalle particolari differenziazioni dello stesso
Buddhismo Zen, il discepolo dei primi tempi possedeva già il suo proprio koan
naturale (naturale, beninteso, in quanto all’ardore con cui era avvertito) per
quanto necessitasse ancora di una forma e di una focalizzazione adeguate, mentre
viceversa, nel periodo successivo, se il discepolo, nella sua ricerca, non
procedeva in un approccio caratterizzato da una formulazione adeguata del
problema e non si manifestava sul piano esistenziale come tutto una vampata di
ardore, il maestro cercava di alimentare in lui tanto l’una, quanto l’altra
cosa, cominciando col presentargli una ‘domanda’ del genere, per così dire,
dall’esterno. In tal caso, il koan, anziché essere parzialmente naturale, era
totalmente dato.
Tuttavia, è necessario far notare immediatamente che,
fintanto che la ‘domanda’ o koan continua a essere ‘dall’esterno’ o ‘data’, lo
sforzo che si compie è inutile e, infine, si resta fuori del Buddhismo Zen. Ciò
nonostante, nel suo carattere e nella sua struttura, così come nei modi del suo
uso e della sua applicazione, il koan è accuratamente predisposto come qualcosa
che metta in guardia contro questo pericolo. Ciò perché, per la sua stessa
natura, il koan non consente di essere collocato in un qualsiasi dualistico
schema soggetto-oggetto dell’ego nella coscienza dell’ego. Addirittura non può
essere mai dotato di senso e meno che mai ‘risolto’ o soddisfatto, e resta un
oggetto esterno all’ego inteso come soggetto. Tutto ciò è vigorosamente
illustrato da uno dei ‘primi’ koan più largamente diffusi, ‘Mu’ o, in cinese, Wu’.
La base di questo koan, come di molti altri, è un mondo già
precedentemente conosciuto. Un maestro cinese del nono secolo, Chao-chou (in
giapponese Joshu), essendogli stato chiesto una volta se un cane possedesse la
natura di Buddha, rispose “Mu!” (che, inteso nel suo significato letterale, vuol
dire: “No!”). Data formalmente come koan, questa risposta di una sola sillaba,
comunque, finisce per essere spostata dagli stretti limiti della domanda
primitiva e presentata – semplicemente in sé e per sé – come un invito fatto al
discepolo a ‘vedere’ o a ‘divenire’. Il koan è, allora, “Vedi mu!” o “Diventa mu!”.
E’ chiaro come un koan non possa avere alcun significato e non possa, in alcun
modo, essere trattato, elaborato o capito nella trama di un qualsiasi dualismo
soggetto-oggetto.
Allo stesso modo, se il koan è preso da uno dei mondo
menzionati precedentemente, come, ad esempio, “Qual è il tuo volto originario
prima della nascita del padre e della madre?”, o se esso è il koan “Ascolta il
suono di una mano!”, più tardi preferito al ‘Mu’ dal maestro giapponese del
diciottesimo secolo, Hakuin, in quanto contenente più di un elemento noetico,
non si incontrano più, né a essi può più essere data risposta, tali problemi o
inviti, anzi essi non hanno alcun senso all’interno della struttura
soggetto-oggetto della coscienza dell’ego, della sua intellezione, della sua
logica, ecc. Quale che sia l’elemento noetico che il koan possa effettivamente
avere, è impossibile giungere alla sua ‘comprensione’ o alla sua ‘risoluzione’,
se esso viene accostato come una questione oggettivata o un problema oggettivato
dell’ego, inteso come soggetto epistemologico o di altro genere.
Sia esso ‘Mu’, il “suono di una mano”, “Dove sarai tu dopo
essere stato cremato?” o il proprio “volto originario”, il koan, naturale o
dato, non offre nulla di tangibile, nulla che possa essere colto, nulla che si
possa afferrare come oggetto. Se il discepolo si provasse a oggettivarlo, il suo
tentativo, con un maestro scrupoloso e attento, sarebbe seccamente respinto e la
pretesa ‘soluzione’ rifiutata incondizionatamente. Talvolta, però – per esempio,
nel ‘sistema koan’, come si è sviluppato in Giappone – alcuni elementi oggettivi
della forma o del contenuto di un particolare koan possono persistere pure nella
presentazione accettata. Allo scopo di filtrare tali aspetti e di ampliare ed
approfondire la comprensione ancora limitata, viene presentato al discepolo un
altro koan e poi un altro ancora. Se applicato impropriamente tale ‘sistema koan’
diventa di impaccio a se stesso e può darsi l’eventualità che soccomba proprio a
quel rischio che il koan originario era inteso a evitare.
Il solo contenuto valido del koan è lo stesso io che lotta.
Il desiderio genuino di ‘risolvere’ il koan equivale all’esigenza dell’ego
dilacerato e diviso di pervenire alla riconciliazione con se stesso e alla
propria realizzazione. Riguardato dal punto di vista della sua origine, il koan
costituisce esso stesso un’espressione di quella realizzazione. Che egli lo
comprenda sin dall’inizio o meno, l’autentica lotta nei confronti del koan si
identifica con la lotta del discepolo per realizzare se stesso. In ambo le sue
forme – naturale o dato – questo sforzo compiuto verso il koan continua
inevitabilmente a risultare una vera illusione, se affrontato dall’ego come da
un soggetto che si attenti a trattare o ad affrontare il suo problema come un
oggetto. Ciò perché, come si è già constatato prima, è proprio la dicotomia
esistenziale fra soggetto e oggetto che costituisce il problema dell’ego.
Il Buddhismo Zen, di solito, non tenta mai di esplicitare
tutto questo intellettualmente, per concetti, o analiticamente, come, viceversa,
io mi sono sforzato di fare. Lo Zen preferisce piuttosto affrontare l’ego in
modo concreto e diretto – negli spontanei mondo oppure nel koan formale, dato –
con inviti e domande che l’ego, nella sua separazione in soggetto e oggetto, non
riuscirebbe mai a incontrare. Questi assalti attraverso espressioni di raffinata
compiutezza nella scelta dei vocaboli, delle azioni e degli atteggiamenti
esteriori, costituiscono il modo specifico e unico dello Zen per affermare
concretamente – e per provare a portare l’ego a cogliere – che in nessun modo
l’ego appunto può completarsi all’interno di se stesso, che non gli è possibile
– nei termini della sua struttura soggetto-oggetto – risolvere quella
contraddizione che costituisce essa stessa l’autentica struttura
soggetto-oggetto.
L’obiettivo preliminare del koan è, pertanto, quello di
muovere o di incitare, non semplicemente sul piano noetico, ma soprattutto sul
piano affettivo e fisico e questo nella terminologia del Buddhismo Zen si
definisce il ‘grande dubbio’ – e far sì, in tal modo, che l’ego divenga
totalmente ed esistenzialmente, esso stesso, il ‘blocco del grande dubbio’. Se
l’ego non giunge a essere il ‘blocco del grande dubbio’, non si può dire che sia
pervenuto al ‘grande dubbio’.
In ordine alla sua motivazione, come in ordine al suo fine
ultimo, il koan fu accompagnato dalla pratica già esistente – nella metodologia
Zen – che consiste nel sedere a gambe incrociate in una sorta di
‘concentrazione’ sostenuta chiamata, in giapponese, zazen (in cinese tso-ch’an,
letteralmente ‘sedersi-dhyana’, tradotto meglio, forse, con ‘sedersi Zen’).
L’esercizio del sedere a gambe incrociate, col piede collocato sulla coscia
opposta, la spina dorsale eretta, le mani giunte o sovrapposte, davanti al capo,
in una specie di ‘contemplazione’ o di ‘meditazione’, era diffusissimo in India
ancora prima del Buddhismo; fu probabilmente in questa posizione che Sakyamuni
pervenne alla propria realizzazione. Ed è altresì in questa posizione che si
tramanda fosse seduto Bodhidharma allorché ricevette la visita di Hui-k’o. Un
secolo più tardi tuttavia Hui.neng protestava contro quella che egli riteneva la
corruzione puramente formalistica e quietistica contenuta in quella pratica. Ciò
spiega perché, nei tempi immediatamente successivi a Hui-neng, non si faccia
menzione di essa. Ciò nonostante si è generalmente d’accordo nel ritenere che
monaci e discepoli Zen dell'epoca dovessero averla seguita per qualche tempo.
Nel koan naturale, la dinamica interna di questa
‘concentrazione’ trae la sua origine dal turbamento e dall’inquietudine
interiore dell’interessato. La focalizzazione e l’orientamento saranno
facilmente quelli forniti dal maestro nel corso di un recente incontro o scambio
di parole. Dopo l’incontro, è molto probabile che il discepolo ne porti con sé
l’effetto nella ‘sala di meditazione’ (in giapponese zendo, in cinese Ch’an an-t’ang,
che, alla lettera significa ‘Sala Zen’) e segga con esso, in meditazione zazen.
Nel caso, invece, del koan formale, dato, l’ego, non ancora
ridestato con la stessa pressante intensità dal suo stato di disagio, manca
ancora, talvolta, del necessario potere di ‘concentrazione’ per ‘attaccare’ il
koan. Sorsero perciò, così, a fianco del koan e dello zazen, nella scuola di
Lin-chi o Rinzai, specie in Giappone, pratiche note in giapponese con il nome di
sesshin (in cinese dicesi she-hsin, cioè ‘concentrazione dello spirito’ o
‘concentrazione spirituale) o di sanzen (in cinese ts-an-ch’an, cioè,
‘perseguire la ricerca Zen’).
Diversamente a seconda del monastero, ma comunque, per sei o
otto volte l’anno, una settimana del mese è dedicata per intero dal monaco o dal
neofita allo zazen e al suo koan. Levandosi di solito alle tre del mattino
questi – se si fa eccezione da piccoli lavori di gruppo, canti sutra, i pasti,
un’eventuale lezione, incontri con il maestro e piccoli periodi di riposo, che
possono peraltro essere trascurati – continua nello zazen sino alle dieci di
sera, o anche più tardi per sette giorni di seguito. A questo periodo si dà il
nome di sesshin mentre alle visite quotidiane fatte al maestro, tanto a quelle
spontanee come a quelle dovute – il cui numero si aggira fra due e cinque – si
dà il nome di sanzen.
Sotto lo stimolo di una siffatta regola, con la sua rigidità
e l’atmosfera solenne che determina, il koan dato può cominciare a produrre
effetti. Quando gli sopravviene il sonno, quando scema l’intensità
dell’esercizio, oppure prendono il sopravvento su di lui l’intorpidimento dei
muscoli e la stanchezza, il discepolo, pungolato dal bastone del priore,
stimolato, ispirato, punto o addirittura trascinato dal maestro, scopre d’essere
vieppiù prigioniero del suo koan. Poiché ciascuna risposta viene respinta, egli
si sente sempre più disancorato, scosso, incerto di qualsiasi tipo di sicurezza
o di compiacimento che potesse avere prima. A poco a poco, avendo sempre meno da
offrire, permanendo tuttavia sotto la pressione della medesima, incessante,
esigenza di una ‘risposta’, il discepolo, in lotta con il koan, incapace in
quanto individuo di risolvere il suo problema in quanto cosa, va incontro
proprio a quella stessa frustrazione e disperazione che l’ego conosce nella sua
naturale brama di realizzare se stesso.
La non disponibilità del koan a ricevere soluzione come
oggetto da parte dell’ego come soggetto è, di fatto, quella precisa non
disponibilità dell’ego in quanto ego, nella sua bipolarità soggetto-oggetto, a
risolvere la contraddizione esistenziale che consiste appunto in quella
bipolarità. Per il discepolo, il koan dato, per di più, è ora, come il koan
naturale, un modo o espressione del ‘problema’ o dilemma effettivo dell’ego
stesso, e lo sforzo per la sua ‘soluzione’ costituisce uno sforzo altrettanto
dilacerante per la vita e per la morte. Il koan viene pertanto a essere, nei
confronti del discepolo, una crisi vitale, che assorbe il suo intero essere come
problema cardinale ed esclusivo. Il suo affrontarlo è, anzi, un affrontare il
suo proprio predicamento in tutta la sua immediata e scottante urgenza. Non
riuscendo a contendere con esso, egli davvero “sente le sue viscere andare in
subbuglio come se avesse inghiottito una palla di fuoco e non riuscisse più a
rigettarla”.
Queste considerazioni costituiscono l’unica ragione per cui
il monaco o discepolo quando non sia ancora pervenuto a una ‘determinazione’,
spesso rifiuti di vedere il maestro e quindi, per le visite sanzen d’obbligo,
debba talvolta essere battuto, spinto, trascinato, o addirittura, come realmente
una volta accadde, portato di peso da altri quattro monaci fuori dalla sala di
meditazione al cospetto del maestro. L’insistenza del maestro perché dia una
risposta al koan non scaturisce in alcun senso da un’autorità esterna, estranea
o eteronoma; è tutto il contrario. Un vero maestro è un’incarnazione della
compiutezza ultima dello stesso agonizzante ego. La sua esigenza di risolvere il
koan, naturale o dato che questo sia, equivale in realtà all’aspirazione e
all’invito critico, imposto dall’ego, per la sua propria risoluzione. Il rifiuto
di vedere il maestro sorge dall’incapacità dell’ego di affrontarsi nella propria
acuta lacunosità e insufficienza, rispecchiata in modo impressionante, per così
dire, dalla sua perfetta realizzazione nella persona del maestro. L’assentarsi
permette almeno una tregua temporanea rispetto alla necessità di affrontare
l’imperativo del proprio intimo conflitto, inteso alla ricerca della pace e
della serenità, in piena e non compromessa onestà. Essendo stati i suoi sforzi e
tentativi, per quanto parziali, frammentari, deludenti o ingannevoli, respinti e
scartati nel corso di molteplici precedenti sedute, l’ego si sforza di tenersi
nascosto e di evitare non soltanto l’imbarazzo dell’esposizione nella sua già
parziale nudità, ma anche la tortura di un’ulteriore o completa esposizione in
nudità totale. Perché la minaccia all’ego di una tale esposizione completamente
nudo nella sua spoglia contraddizione di fondo potrebbe apparire all’ego stesso
come una minaccia alla sua propria esistenza, implicante il terrore di una
possibile insania o morte.
Per usare una metafora che suoni più vicina al linguaggio
Zen, l’ego respinto e privato delle funzioni di qualsiasi altro aspetto e parte
di sé, resta appeso per i denti a un ramo che sovrasta un precipizio.
Aggrappandosi a quest’ultimo resto di sé, l’ego sente che può ancora, almeno per
il momento, salvarsi, sia pure in una condizione quasi intollerabile. In questa
circostanza critica, l’essere forzato a incontrare se stesso in modo genuino e
autentico nella persona del maestro, come il ricevere gli impellenti ordini di
“parla!” e “parla presto!”, possono costituire una dura prova. Tutto questo a
maggior ragione, qualora l’ego arrivi a comprendere che se osasse star immobile
e non rispondere al cospetto del maestro, potrebbe addirittura essergli impedito
l’uso di quei denti. In qualche modo l’ego avverte che, in definitiva, esiste
una necessità assoluta che deve affrontare, ma che, al presente, pure non è in
grado di affrontare.
Non che siffatto atteggiamento di rifiuto o di ripulsa del
maestro sia sempre una semplice negazione nichilistica. Vero è che quel che, in
modo metodico e rigoroso, viene strappato via è ciò che l’ego, quale soggetto, è
in grado di afferrare o di trattare quale oggetto. Questa operazione riguarda
anche quei contenuti che potrebbero fornire o di fatto producono una
realizzazione limitata o particolarizzata. Fintanto che l’ego, quale soggetto,
persiste nell’essere o nell’aggrapparsi a un oggetto, persistono la sua intima
contraddizione e il suo intimo predicamento quale ego. Il fine, perciò, sta nel
rimuovere tutte le componenti oggettive disponibili – compreso lo stesso corpo –
allo scopo di rivelare ed esporre nella sua nuda contraddizione l’autentica
struttura soggetto-oggetto dell’ego in quanto tale. Privo di un oggetto l’ego,
non è più in grado di essere soggetto, diviene esso stesso insostenibile. Pure è
proprio a questo istante fondamentale che lo Zen desidera condurre, donde anche
il reciso invito, che, nelle parole di un maestro contemporaneo, suona così:
“Senza servirti della bocca, senza servirti delle mente, senza servirti del
corpo, esprimi te stesso!”.
Arrivati a questo estremo, la specifica natura della ricerca
del discepolo e la sua stessa lotta cominciano a subire una modificazione. Lo
zazen, pur essendo senza dubbio un contendere con o un concentrarsi sul koan,
naturale o dato, in quanto oggetto, privato del koan oggettivato come di
qualsiasi altro contenuto, è ora esso stesso disoggettivato. Ciò non costituisce
altro che il culmine del processo iniziato allorché il koan cominciava ad avere
effetto e a penetrare nell’intimo del discepolo, con l’eventualità di permeare
il suo intero essere. Divenendo sempre meno estrinseco, è divenuto sempre meno
accessibile alla contemplazione o meditazione ordinaria; o, perlomeno, è stato
del tutto spogliato di qualsiasi possibile aspetto oggettivo. Ciò nondimeno esso
ancora persiste, non fissato e non risolto, e con esso l’incessante esortazione
da parte del maestro, come da parte dell’ego stesso, a una fissazione e a una
risoluzione.
Quel che vale per il koan, vale per l’ego stesso. L’ego, in
un dilemma esistenziale cui non riesce a dare conclusione, che non può
sopportare, abbandonare o evitare, è incapace di progredire, di ritirarsi, come
di fermarsi. Ciò nonostante, esso persiste sotto l’impellente imperativo a
muoversi e a risolvere. Completamente e sistematicamente denudato, privato
dell’uso di tutti i suoi poteri, contenuti, risorse, capacità, e, alla fine, del
suo proprio corpo, affronta ciò nondimeno l’imperioso comando da parte del
maestro di presentarsi ed esprimersi. In questo evidente vicolo cieco l’ego
avverte acutamente l’angoscia di un’estrema futilità e una mancanza di scampo
che potrebbe normalmente condurlo al suicidio. Nella situazione propria dello
Zen, tuttavia, questa ansia e questa disperazione non arrivano mai del tutto a
essere sommerse in una mancanza di scampo, così totalmente negativa.
A differenza dell’ego nello stato che precede il suicidio, il
discepolo che disponga di un vero maestro ha davanti a sé la viva certezza di
una possibile soluzione del suo problema. Il maestro, esprimendo il genuino
amore per la riconciliazione ultima del discepolo, e con lui patendo, non solo
sostenta e appoggia quell’amore, ma, sul piano esistenziale, incoraggia e
rassicura già con il suo stesso essere. Il discepolo così capisce in qualche
modo come il maestro sia il discepolo persino più di quanto egli stesso lo sia.
E in ciò avverte pure che il maestro sta passando effettivamente, proprio come
lui, la stessa prova, con il suo carico di sofferenza e di tormento. Il maestro
costituisce così, per il discepolo, l’autorità, l’affermazione, l’amore per la
completa realizzazione personale del discepolo.
Il discepolo, a sua volta, è per il maestro immediatamente il
maestro stesso (pur essendo un’altra persona) che il maestro, nonostante il
proprio amore e la propria compassione, deve gettare nella crudele fossa della
contraddizione interiore, nella sua nudità e crudezza. Da parte sua, il maestro
è così obbligato a frugare e a sondare il punto centrale della piaga, perché
solo quando questa sia stata completamente messa a nudo e afferrata sul piano
esistenziale, può guarire.
Allo stesso modo, il dolore e l’ansia dell’ego, nella sua
manifesta prostrazione non scaturiscono dalla piaga o contraddizione in modo
diretto, bensì traggono origine dall’ego stesso in quanto portatore di quella
piaga. Pur privato, dall’esterno di ogni contenuto oggettivo, l’ego,
dall’interno, non è ancora privo di soggetto e, pertanto, non ancora
genuinamente privo di oggetto, continua a tenersi all’oggetto. Una volta che
esso, tuttavia, sia divenuto la sua stessa cruda contraddizione, allora la
contraddizione sostiene e sopporta se stessa, e la negatività esterna o
semplicemente avvertita dell’ego è lasciata fuori. Di conseguenza l’obiettivo
preliminare consiste per l’ego, tanto in senso corporeo, quanto in senso
mentale, nel giungere a essere questa contraddizione radicale o ‘blocco del
grande dubbio’. Il ‘grande dubbio’ o il ‘blocco del grande dubbio’ non
costituiscono altro che il predicamento intrinseco dell’ego nella coscienza
dell’ego, acutizzato in modo totale ed esaustivo. La finalità iniziale del koan
– come la metodologia dello zazen, del sesshin e del sanzen che l’accompagna –
consiste nel permettere all’ego di ridestarsi, di consolidarsi, di portarsi in
piena luce, e, quindi, anziché persistere, divenire in modo pieno e autentico
quella vivente contraddizione che, in quanto ego, effettivamente è.
Perché l’ego possa divenire vero a se stesso in quanto ego,
deve tentare di mettere in evidenza il suo limite essenziale non in termini di
fallimenti o impossibilità estrinseche, ma nei termini della sua intima
strutturale antinomia. In quanto è pur sempre un soggetto oggettivamente
orientato, è necessario di solito, perché l’ego possa intraprendere questa
realizzazione, che ogni possibile contenuto del suo atteggiamento oggettivo sia
esaurito, vuotato o negato. Incapace, in quanto soggetto, di compiere un altro
sforzo diretto fuori di sé verso l’esterno, l’ego può subire un’intima
trasformazione, non persistendo quale soggetto e semplicemente rovesciando il
proprio orientamento verso se stesso all’interno (facendosi cioè oggetto di
introspezione), ma diventando, invece, in modo radicalmente completo, la sua
stessa insita intima contraddizione. Solo quando sia divenuto pienamente quella
contraddizione, l’ego finalmente viene a non essere più soggetto e oggetto.
Ciò perché in quanto identificabile con il cuore stesso della
contraddizione, la coscienza dell’ego risulta ora, essa stessa, arrestata e
messa in scacco. Cessando di essere una soggettività instabile e condizionata,
l’ego è ora, senza soggettività o obiettività, un solido e totale blocco
d’esistenza. Questa non è, tuttavia, né la pre-coscienza dell’ego del neonato,
né l’abortita coscienza dell’ego dell’idiota, né la ritardata coscienza dell’ego
del bambino-lupo, la decaduta coscienza dell’ego dello psicotico, l’intorpidita
coscienza dell’ego dell’individuo anestetizzato, la letargica coscienza dell’ego
dello stupore, la quiescente coscienza dell’ego del sonno senza sogni, la
sospensione della coscienza dell’ego nella trance, o la inerte coscienza
dell’ego del coma. E’ piuttosto la stessa coscienza dell’ego, immobile e
impacciata nella sua propria e radicale contraddizione, e in quanto tale
contraddizione stessa. Non è né vacua, né vuota, non si cancella, né si
dissolve. Pur essendo, però, bloccata e impedita, mancando di un’attiva
discriminazione fra soggetto e oggetto, fra se stessa e non se stessa, non è
affatto opaca e senza vita. Al contrario essa è, invero, assai sensibile.
Inoltre, in quanto ancora irrisolta, la sua lotta non cessa, benché non sia più
semplicemente lotta dell’ego o da questo condotta in quanto ego. L’ego è
divenuto alla fine il koan stesso ed entrambi sono divenuti la lotta e la
‘concentrazione’ stessa, il ‘blocco del grande dubbio’ stesso. La contraddizione
radicale medesima, priva di soggetto e priva di oggetto.
Questo è l’ego completamente svuotato in quanto ego. Non più
affatto soggetto e oggetto, non è in grado di contendere o tentare. Nettamente
differenziandosi dall’abbandono, che è solo apparente, proprio dello stato che
precede il suicidio, è questo un completo abbandono esistenziale, in cui persino
il suicidio diviene impossibile. Fintanto che l’ego, in quanto soggetto, può
intraprendere un’azione persino se si tratti del proprio annientamento, non è
veramente in un autentico stato di abbandono.
Allo stesso modo, è proprio l’ego, in maniera netta e
genuina, la sua propria radicale contraddizione, la quale, costituisce
l’autentico dilemma, il vero impasse, il vero vicolo cieco, l’autentico
nichilismo della mancanza di valori e di senso, la vera aporia del ‘nessuno
scampo’. E’ questo il male e il predicamento dell’ego squarciato sino in fondo,
privo di ogni velame o copertura. E’ questa l’ultima essenziale negatività
stessa. Questa negatività ultima, pur essendo un antecedente necessario e non
semplicemente negativo, è tuttavia ancora soltanto una condizione preliminare.
Non è ancora una risoluzione o una realizzazione. Divenendo cioè il ‘blocco del
grande dubbio’, vale a dire la contraddizione radicale nella sua stessa radice,
non costituisce però il fine ultimo.
Non più affatto nella sua contraddizione di soggetto-oggetto,
l’ego, in quanto quella contraddizione stessa, è pienamente attenuato,
disadattato, immobilizzato. Il suo essere privo di soggetto e oggetto
costituisce una negatività di schiavitù e impaccio totali, in cui soggetto e
oggetto nella loro contraddittoria, dualistica, polarità si bloccano e si
chiudono del tutto l’un l’altro in una trappola chiusa, sconfortante. L’essere
pertanto privo di soggetto e di oggetto in senso negativo, il non avere né
corpo, né mente, non è ancora sufficiente. Senza corpo, senza bocca, senza
mente, deve pur esserci l’espressione. La contraddizione radicale o ‘blocco del
grande dubbio’ deve essere ancora radicalmente spezzata e risolta.
Tuttavia è soltanto quando siffatto stato critico del ‘blocco
del grande dubbio’ sia stato reso pienamente effettivo, che esso può essere
spezzato. E’ esattamente in tale condizione della più intensa, più delicata
tensione, che alcuni fortuiti eventi della vita quotidiana o, forse, alcune
parole, fatti o gesti del maestro, possono all’improvviso far esplodere il
fondamentale e rivoluzionario sconvolgimento per cui questa contraddizione
radicale del ‘blocco del grande dubbio’ si frantuma in quello che è nello stesso
tempo un emergere.
Proprio come l’ego nella coscienza nell’ego è inizialmente
tanto un atto quanto un fatto, così la sua eruzione e risoluzione hanno il
carattere tanto di un atto quanto di un fatto, ma ora non più relativamente né
semplicemente dell’ego in quanto ego. Perché, sia pure a livello della
contraddizione radicale del ‘blocco del grande dubbio’, la normale coscienza
dell’ego risulta, in effetti, già trascesa. Sebbene ancora negativa assenza di
distinzione fra soggetto e oggetto, sé e non sé, in quanto ‘blocco del grande
dubbio’, essa comprende l’intero ambito dell’essere, includente la propria
differenziazione dell’essere dal non essere. In quanto contraddizione radicale
nella sua radice, essa è l’abisso dell’essere o, più precisamente, l’abisso
dell’antinomia fra essere e non essere, esistenza e non esistenza. Tuttavia, nel
mentre che è negativamente contraddizione e abisso, la coscienza dell’ego è nel
contempo quel nucleo fondamentale che realmente costituisce fondamento e fonte.
Raggiunto dall’ego, questo nucleo è l’estremo ultimo e il
limite finale, l’intimo più profondo centro di quella contraddizione che è la
coscienza dell’ego. Realizzato in quanto tale centro, l’ego è superato, ma non
ancora completamente consunto. Finché continua a essere questo nucleo radicale
in termini di sé – per esausto che possa essere – l’ego continua a essere
negativamente quella radice, come limite radicale, barriera radicale, ostacolo
radicale. In quanto tale, l’ego è soltanto ‘come morto’. Se, però, questo nucleo
radicale negativo, rompendosi, si spacca e risolve in se stesso, allora l’ego
muore davvero della ‘grande morte’, che allo stesso tempo è la grande nascita, o
‘grande risveglio’.
La ‘grande morte’ è l’ego che muore a se stesso nella sua
radicale negatività. Non riguardabile in alcun senso come un contingente
distruggersi o spirare, nichilisticamente, in uno squallido vuoto o nel nulla,
questa improvvisa spaccatura, questo improvviso ribaltamento sono, piuttosto, la
rottura e l’eliminazione della contraddizione, dell’abisso, dell’aporia.
L’annullamento e la negazione della negatività ultima sono, in se stesse,
positive. La dissoluzione negativa è nello stesso tempo una risoluzione
positiva. L’ego, negato in quanto ego nella sua centrale contraddizione della
coscienza dell’ego, persegue, mediante siffatta negazione, positivamente e
affermativamente, la sua risoluzione e la sua realizzazione. Nel morire a se
stesso, in quanto ego, nasce e si ridesta al suo Sé in quanto Sé.
Deve inoltre porsi l’accento sul fatto che la contraddizione
radicale, nel suo fondo, non equivale qui ad alcun postulato metafisico o
ontologico di sorta. Al contrario essa è della più scottante e urgente realtà.
Allo stesso modo, il suo rompersi e mutarsi in se stessa costituiscono altresì
una concreta realtà. Nel suo frantumarsi e dissolversi, in quanto tale profonda
contraddizione radicale, l’ego consegue, con immediatezza diretta, la sua
riconciliazione e il suo completamento. Il limite estremo, bloccato e ostruito,
è ora la fonte primordiale nella libertà delle sue funzioni e il fondamento
ultimo. Non più incentrato nella contraddizione radicale dell’iniziale coscienza
dell’ego è, viceversa, incentrato nel fondamento e nell’origine del suo Sé. Il
limite radicale, in se stesso ribaltandosi, diventa la fonte radicale e il
fondamento radicale. Questo radicale e catastrofico sradicarsi, volgersi e
sconvolgersi del, mediante il, e al nucleo radicale, è chiamato, nello Zen, con
il termine giapponese di satori.
La rottura e dissoluzione satori dell’ego superato e bloccato
alla radice della sua contraddizione radicale costituisce il risveglio dell’ego,
ovvero la radice del suo fondamento e della sua origine nel proprio Sé. Questo
risveglio al suo Sé è immediatamente il risveglio del suo Sé. Nella prospettiva
della coscienza dell’ego, nella contraddizione di fondo del ‘blocco del grande
dubbio’, la rottura totale, la disintegrazione, la morte costituiscono un
ridestamento e un dischiudersi al suo Sé. Pure, in una prospettiva
corrispondente e opposta, il ridestamento e il dischiudersi nel suo Sé
equivalgono al risveglio e alla manifestazione del suo Sé. Questo è invero un
risveglio di Sé: quel che ridesta è quel che è ridestato, quello da cui è
ridestato, nonché quello a cui è ridestato. Tanto atto quanto fatto, il suo Sé è
nel medesimo tempo il fondamento, la sorgente radicale, e il prius dell’atto e
del fatto.
In quanto fonte, fondamento, né dinamico, né statico, esso
non è comunque una morta identità o una vacua, astratta, universalità o unità.
Non è neppure una semplice non-dualità, ovvero una ‘falsa medesimezza’.
Nonostante il suo Sé sia il fondamento, la sorgente, il prius della statica e
della dinamica, esso non resta nel suo Sé, ma si accinge sempre a pervenire
all’espressione del suo Sé. Anzi, ridestato nel suo Sé, esso comprende che
l’autentica soggettività dell’ego in quanto soggetto, deriva, persino nella sua
contraddittoria dualità, e scaturisce, in ultima analisi, dal suo Sé. Allo
stesso modo, l’origine ultima dell’aspirazione e brama dell’ego a trionfare
della sua alienazione ed estraniamento, a completare e a realizzare se stesso è
ancora proprio il suo Sé. Separato dal suo Sé, esso aspira e brama di ritornare
al suo Sé. L’ego, nella sua dualistica contraddizione dell’avere, e nel contempo
non avere, se stesso e il suo mondo, si trova, in effetti, nel disagio di avere,
e nel contempo non avere, il suo Sé.
Nella iniziale coscienza dell’ego, oltre a essere separato e
allontanato, in quanto soggetto, da se stesso, e dal suo mondo in quanto
oggetto, l’ego è tagliato fuori altresì e respinto dal fondamento e dalla
sorgente suoi propri. La sua individualità, fratturata dall’interno e isolata
dall’esterno, risulta infondata, e perciò insostenibile. Siffatta individualità,
dilacerata all’interno, dissociata all’esterno ed estranea alla sua propria
fonte, non può mai, in modo genuino, conoscersi o affermarsi, perché non è né ha
mai se stessa in modo genuino. Esclusivamente nel morire a se stesso, in quanto
ego, e nel ridestarsi al suo Sé, in quanto Sé, consiste la sua autentica,
autonoma individualità, resa per la prima volta effettiva. Cessando di essere
mero ego, esso è qui quel che può essere designato o caratterizzato come Sé-ego,
o ego-Sé.
L’implicito predicamento della struttura dualistica
soggetto-oggetto, esistenzialmente contraddittoria, dell’ego nella coscienza
dell’ego, è definitivamente risolto solo quando quella contraddizione, quella
vivente, radicale contraddizione, si rompe e muore a se stessa nella sua radice,
ridestandosi in una risoluzione e in un compimento nel suo Sé, in quanto suo Sé,
come Sé-ego. Il suo Sé, in quanto Sé, fonte di se stesso, in quanto ego, è
libero, alla fine dalla dilacerazione e dalla spaccatura di qualsiasi dicotomica
dualità interna o esterna. Non sforzandosi più di ‘essere’ fuori dal seno e
dall’abisso di un nucleo irrisolto e bipolare, esso è ora, nel contempo e
insieme scaturisce dal suo Sé, come la fonte e matrice di se stesso, in quanto
soggetto e oggetto.
A differenza della soggettività condizionata, della coscienza
iniziale dell’ego, nessun oggetto più lega, ostruisce, circoscrive o limita il
soggetto. Non avviene neppure, come ancora nello stato del ‘blocco del grande
dubbio’, che soggetto e oggetto si blocchino l’un l’altro nella profondità del
loro contraddittorio dualismo. Fratti e ribaltati in e presso quel nucleo
contraddittorio, essi vengono allora radicati e incentrati nella loro sorgente
ultima. Trans-radicati e trans-incentrati essi cessano di impacciarsi in una
mutua contraddizione e si fanno, viceversa, la libera fluente manifestazione di
quella sorgente.
Nella prospettiva di quella prima fonte che è nel e del suo
Sé, proprio questo libero e continuo scaturire del suo Sé, come soggetto e
oggetto, costituisce il suo ritorno, non più impedito né ostacolato, al suo Sé,
che si compie nel tempo, ma per l’Eternità. Di nuovo questa è manifestazione del
Sé: quel che manifesta è quel che è manifestato, quello mediante il quale esso è
manifestato, nonché quello di cui è manifestazione.
Nella prospettiva del soggetto ridestato, pienamente
realizzato, in quanto dispiegamento del suo fondamento ultimo, esso è puro o
incondizionato Sé-soggetto, in quanto il suo oggetto è esso stesso puro o
incondizionato Sé-oggetto. Proprio in quanto soggetto è espressione e funzione
del suo Sé, così pure come oggetto è egualmente espressione e funzione del suo
Sé. In quanto puro, incondizionato soggetto e oggetto, il soggetto è, invero,
oggetto, come l’oggetto è, invero, soggetto. La loro dualità non più
contraddittoria o dicotomica è, a questo punto, una dualità riconciliata, non
contraddittoria, non dualistica. Muovendosi inostacolato e non impedito
nell’assoluta libertà della soggettività incondizionata, il soggetto rispecchia
l’oggetto ed è da questo rispecchiato, come l’oggetto rispecchia il soggetto ed
è rispecchiato dal soggetto. Quel che rispecchia è quel che è rispecchiato,
quello da cui è rispecchiato e quello in cui è rispecchiato. L’ego, la coscienza
dell’ego, come la sua dualità soggetto-oggetto, divenendo trans-radicati,
trans-incentrati e trasformati, costituiscono adesso la non contraddittoria, non
dicotomica dualità dell’ego-Sé, o Sé-ego.
Poiché il Sé è fonte di se stesso in quanto ego, il Sé-ego è
subito tanto dotato di forma quanto senza forma. Il Sé-ego è forma senza forma.
In quanto fondamento inesausto, esso è privo di una qualsiasi precisa forma
definita; questa mancanza di forma è anch’essa una forma non definita. Non
teoretica, né astratta, tale mancanza di forma è, in Sé, la scaturigine della
forma. In quanto priva di forma, essa è in grado, nell’esistenza effettiva, di
dare luogo al suo Sé e di esprimerlo in tutte le forme, nonché di essere tutte
le forme.
Nella sua ridestata consapevolezza di Sé e nella sua
realizzazione in quanto Sé-ego, l’ego è e ha la forma di se stesso in quanto
Sé-ego. In quanto fonte primaria, tuttavia, esso non è mai semplicemente la
forma di se stesso, quale Sé-ego. Se stesso e non se stesso, in quanto forma
dello spazio, l’ego-Sé è il suo proprio essere e il suo proprio non essere, in
quanto esistenza nel tempo. Esso equivale, invero, a una ecstasis realizzata, al
di là di se stesso e del non se stesso, al di là del suo essere e del suo non
essere. Esso può asserire in affermazioni non condizionali, ‘io sono’, e ‘io non
sono’, ‘io sono io’ e ‘io non sono io’, ‘io sono io, perché io sono non io’, ‘io
sono non io perché io sono io’. La non condizionale affermazione di Sé è di
fatto un’incondizionale, dinamica affermazione-negazione di Sé, o una
negazione-affermazione di Sé. (Si può pensare che questo possa essere del pari
la natura – o logos – dell’amore)
Infine l’ego, riconciliato al suo Sé e nel suo Sé completato,
in quanto Sé-ego, è l’altro, come l’altro è il suo Sé. Non essendo se stesso e
l’altro che un aspetto della dualità di soggetto e oggetto, proprio perché è
esso stesso un dispiegamento del suo Sé, per questo appunto l’altro, del pari, è
un dispiegamento del suo Sé: ‘io sono io’, ‘tu sei tu’, ‘io sono te’, ‘tu sei
me’.
Come con soggetto e oggetto, con se stesso e l’altro, così
con se stesso e il suo mondo. “Quando io vedo il fiore, io vedo il mio Sé; il
fiore vede il mio Sé; il fiore vede il fiore; il fiore vede il suo Sé; il mio Sé
vede il suo Sé; il suo Sé vede il mio Sé”.
Quivi è l’Amore vivente, creativo in perfetta attivazione e
compiutezza, che sempre esprime il suo Sé, sempre quel che è espresso. Quello
che esprime è quel che è espresso, quello con cui è espresso, nonché quello per
cui è espresso. Qui soltanto è la totale e incondizionata affermazione di
soggetto e oggetto, di se stesso, dell’altro, del mondo, dell’essere, perché qui
soltanto è la totale e incondizionata affermazione del suo Sé, da parte del suo
Sé, mediante il suo Sé, in quanto Sé-ego.
Ora esso è e conosce il suo ‘volto originale’, anteriore alla
nascita dei suoi genitori. Ora esso vede ‘Mu’, ode ‘il suono di una sola mano’ e
può manifestare il suo Sé ‘senza usare il suo corpo, la sua bocca o la sua
mente’. Ora esso apprende che e dove esso sia ‘dopo che le ceneri della sua
cremazione siano state disperse’. Questa è infine l’esistenza umana completata e
realizzata al di là della contraddizione esistenziale della sua iniziale
coscienza dell’ego. Questo è, infine, l’Uomo, finalmente realizzato come Uomo
che pienamente è e pienamente ha Sé-stesso e il suo mondo, in grado di
‘trasformare montagne, fiumi e la grande terra, e ridurli a Sé [stesso]”, e di
“trasformare Sé [stesso], volgendolo in montagne, fiumi e nella grande terra”. Questa è, secondo la mia limitata comprensione, la relazione che il Buddhismo Zen ha con la condizione umana.
Da: www.rebirthing-milano.it
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