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Beat Zen, Square Zen e Zen da: Beat Zen e altri saggi,
Arcana, Roma 1978,
Nota Il seguente saggio è apparso per la prima voIta sulla Chicago Review dell'estate '58 e venne ripubblicato con alcune aggiunte dalla City Lights Books di San Francisco poiché questo sembrava un buon contesto in cui discutere l'influenza dello Zen sull'arte occidentale e perché l'originale era stato pubblicato prima dell'uscita de «I vagabondi del dharma» di J. Kerouac. Questa versione contiene alcune ulteriori aggiunte e correzioni. Pensavo che l'originale di questo saggio avesse chiarito perfettamente la mia posizione nei confronti dello Zen, sia di quello «beat» che «square». Era ovvio che non usavo la parola «square» come un insulto, dal momento che non mi ponevo dal punto di vista «beat». Ma in seguito ad un articolo di Stephen Mahoney «L'affermarsi dello Zen» apparso su The Nation nell'ottobre del '58, cominciò a circolare la voce che io fossi un assertore dello Zen «square». Con questo termine indicavo le scuole Zen giapponesi ufficiali e tradizionali, Rinzai e Soto, alle quali in effetti molti occidentali appartengono. Le cose non stanno affatto così e io non rappresento queste scuole. Non che non le rispetti o che sia in polemica con esse, ma per per temperamento, non amo prendere posizione in faccende di questo genere. Non mi definisco nemmeno un buddista Zen. infatti l'aspetto dello Zen che mi interessa non può essere organizzato, insegnato, trasmesso, formalizzato o racchiuso in alcun tipo di sistema Non può nemmeno essere imparato, perché ciascuno deve scoprirlo da solo. Come dice Plotino: «È una fuga del solo verso il Solo» e come dice anche una vecchia poesia Zen: Se non lo trovi in te stesso, -dove andrai a cercarlo?
Questa è in un certo senso la posizione comune all'intera tradizione buddista. A rigor di termini non ci sono maestri Zen perché lo Zen non ha nulla da insegnare. Fin dai tempi, più antichi coloro che sperimentavano questa disciplina rifiutavano sempre aspiranti discepoli, non solo per saggiarne la sincerità ma anche per mettere lealmente in chiaro che l'esperienza del risveglio (satori) non si raggiunge se la si rincorre e, in ogni caso, non è qualcosa che si possa acquisire o far succedere artificialmente. Ma i cercatori della verità si sono costantemente rifiutati di accettare questo «no!» come una risposta e a questo fatto i saggi Zen hanno replicato con una sorta di Judo. Accorgendosi della inutilità di rispondere semplicemente, a colui che ricerca, che cercando non avrebbe trovato, cominciarono a rispondere con altre domande (koan) allo scopo di stimolare lo sforzo della ricerca, per farla poi esplodere con tutta la sua forza, affinché l'allievo comprendesse la follia di cercare se stesso - non solo a livello concettuale, ma proprio dentro di se. A questo punto l'allievo ha lo Zen. Egli sa di essere una cosa sola con il tutto e non separa più se stesso dall'universo cercandovi qualche cosa. Superficialmente questo sembra essere -un normale rapporto di tipo maestro-allievo. Ma in realtà è quello che i buddisti chiamano upaya o «mezzi sottili», conosciuto come l'arte di «dare una foglia gialla ai bambini che piangono perché vogliono l'oro». Nel corso dei secoli, comunque il processo di rifiuto dell'insegnamento, il rispondere alle domande con altre domande, è diventato sempre più formale. Sono sorti dei templi e degli istituti dove viene impartito un vero e proprio insegnamento e questo a sua volta ha creato problemi di proprietà, amministrazione e disciplina, costringendo il buddismo Zen ad assumere la forma di una gerarchia di tipo tradizionale. Nell'estremo oriente questo fenomeno è continuato fino a divenire parte del paesaggio e alcuni dei suoi inconvenienti sono annullati dal fatto che sembra essere del tutto naturale. Non vi è nulla di «esotico o di speciale» in questo fenomeno. Anche le cose organizzate possono crescere con naturalezza. Ma a me sembra che trapiantare questo stile Zen in occidente sarebbe una cosa del tutto artificiale. Diventerebbe semplicemente un'altra delle numerose organizzazioni di culto con le loro pretese spirituali, gli interessi scontati e i gruppi di fedeli ed in più l'ulteriore inconveniente della attrazione snobistica che eserciterebbe lo Zen in quanto forma di buddismo «molto esotica». Lasciamo che lo Zen si espanda in occidente senza formalità come l'abitudine di prendere il tè. In questo modo potremo digerirlo meglio. Assimilare qualcosa di così cinese come lo Zen è compito difficile sia per gli anglosassoni che per i Giapponesi. Infatti anche se la parola «Zen» è giapponese, e anche se il Giappone è attualmente la sua dimora, il buddismo Zen, è una creazione della dinastia cinese T'ang. Non faccio questa premessa per sottolineare ancora una volta le sottigliezze incomunicabili delle culture straniere. Il fatto è semplicemente che la gente che sente una profonda necessità di giustificare se stessa, ha delle difficoltà nel capire il punto di vista di coloro che non si comportano allo stesso modo, e i cinesi che crearono lo Zen erano gente dello stesso stampo di Laotzu, che, secoli prima, aveva detto: «Quelli che giustificano se stessi non convincono». Infatti il bisogno di provare che la propria posizione è quella giusta ha sempre suscitato il senso del ridicolo dei cinesi, dal momento che sia come confuciani che come taoisti - per quanto diverse possano poi essere queste filosofie in altri sensi - i cinesi hanno sempre apprezzato l'uomo che riesce a «distaccarsi». A Confucio pareva molto meglio essere di buon cuore che virtuosi e ai grandi taoisti, Laotzu e Chuang-tzu, era sempre sembrato ovvio che non si potesse aver ragione senza avere anche torto, visto che le due cose erano inseparabili, come il dritto e il rovescio. Diceva Chuang-tzu: «Coloro che vogliono avere un buon governo senza il correlativo malgoverno e il giusto senza il corrispondente sbagliato non capiscono i principi dell'universo». Alle orecchie degli occidentali queste parole possono sembrare ciniche e l'ammirazione confuciana per la «ragionevolezza» e il compromesso può sembrare una dimostrazione di debolezza e di mancanza di principi. In realtà esse riflettono una meravigliosa comprensione e rispetto per quello che chiamiamo l'equilibrio della natura, umano non - una visione universale della vita come il Tao o una concezione metafisica della natura in cui il bene e il male, le forze creative e quelle distruttive il saggio e lo stolto, sono le polarità inscindibili dell'esistenza. «Tao» diceva il Chung-yung, «è quella cosa da cui non ci si può separare. Tutto ciò da cui ci si può separare non è il Tao». Perciò la saggezza non consisteva nel cercare di scindere il bene dal male ma nell'imparare a «cavalcarli» come un pezzo di sughero cavalca le creste e gli avvallamenti delle onde. Alle radici della vita cinese c'è una fiducia nel bene e nel male della propria natura, che riesce particolarmente estranea alle persone educate nella concezione manichea delle culture giudaico-cristiane. Eppure è sempre stato ovvio per i Cinesi che un uomo che non si fida di se stesso non può nemmeno fidarsi della sua sfiducia e deve trovarsi perciò in uno stato di disperata confusione. Per ragioni piuttosto diverse i Giapponesi tendono a trovarsi a disagio nei confronti di se stessi tanto quanto gli occidentali, visto che possiedono il senso del rispetto umano acuto quasi quanto il nostro più metafisico senso del peccato. Questo si verificava soprattutto nella classe più sensibile allo Zen, quella dei samurai. Ruth Benedit nella sua discontinua opera intitolata Il crisantemo e la spada, aveva, credo, perfettamente ragione quando diceva che l'attrazione che la casta dei samurai provava per lo Zen derivava dal potere che questa dottrina aveva di liberare da un'autocoscienza estremamente imbarazzante, dovuta al tipo di educazione un partita ai giovani. Di questa autocoscienza fa parte quell'obbligo che i Giapponesi sentono a competere con se stessi, un obbligo che riduce ogni arte e sapere a una maratona di autodisciplina. Anche se l'attrazione esercitata dallo Zen consiste nella possibilità che esso offre di liberarsi da questa autocoscienza, la versione giapponese dello Zen combatteva il fuoco con il fuoco, superando «l'io che osserva se stesso» con il portarlo a un'intensità tale da farla esplodere. Quanto sono lontane dalla prassi dei monasteri Zen giapponesi, le parole del grande maestro T'ang, Lin-chi: «Nel buddismo non c'è spazio per l'uso dello sforzo. Siate semplici, normali, spontanei. Mangiate il vostro cibo, fate agire l'intestino, e defluire l'acqua e quando siete stanchi andate a sdraiarvi. L'ignorante riderà di me ma il saggio capirà». Eppure lo spirito di queste parole è altrettanto lontano da un certo tipo di Zen occidentale, che userebbe questa filosofia per giustificare una vita bohémienne che altro non è che una forte autodifesa. Non esiste una ragione specifica che giustifichi la straordinaria diffusione dell'interesse per lo Zen in occidente in questi ultimi vent'anni. Il fascino esercitato dalle arti sullo spirito «moderno - dell'occidente, l'opera di Suzuki, la guerra con il Giappone, il fascino stimolante dei «racconti Zen» e l'attrazione esercitata da una filosofia a-concettuale ed empirica in un clima di relativismo scientifico - tutto questo spiega il successo dello Zen. Si Possono anche menzionare le affinità fra lo Zen e quelle tendenze puramente occidentali come la filosofia di Wittgenstein, l'esistenzialismo, la semantica generale, la metalinguistica di B.L. Whorf e certi aspetti della filosofia della scienza e della psicoterapia. C'è sempre, sullo sfondo, la nostra vaga inquietudine nei confronti dell'artificialità e delI'«innaturalezza» sia del cristianesimo, con la sua cosmologia politicamente ordinata sia della tecnologia, con la sua meccanizzazione imperialista di un mondo naturale verso il quale l'uomo stesso si sente estraneo. Infatti ambedue riflettono una psicologia in cui l'uomo viene identificato con una intelligenza e una volontà conscia che sono separate dalla natura e la controllano, come il Dio-architetto sulla cui immagine è costruita questa versione dell'uomo. L'inquietudine nasce, dal sospetto che li nostro tentativo di governare il mondo dal di fuori sia un circolo vizioso in cui saremo condannati all'insonnia perpetua per controllare i controlli e sorvegliare le sorveglianze all'infinito. Per l'occidentale che cerca l'armonia dell'uomo e della natura esiste un fascino che va ben oltre ciò che di puramente sentimentale c'è nel naturalismo dello Zen - nei paesaggi Ma-yuan e Sesshu, in un'arte che è allo stesso tempo spirituale e secolare, che rappresenta il misticismo in termini di naturalismo e che, in effetti, non ha mai nemmeno immaginato una frattura fra i due. Ecco una visione del mondo che dà un senso profondamente rinfrescante della totalità a una cultura in cui lo spirituale e il materiale, il conscio e l'inconscio sono stati separati con conseguenze catastrofiche. Per questa ragione l'umanesimo cinese e il naturalismo dello Zen ci incuriosiscono molto di più che non il buddismo indiano o il Vedanta. Anche queste dottrine hanno discepoli in occidente ma sembra che i loro seguaci siano per lo più cristiani mal riusciti - gente in cerca di una filosofia più plausibile del soprannaturale cristiano per continuare la ricerca essenzialmente cristiana del miracoloso. L'uomo ideale del buddismo indiano è chiaramente un superuomo, uno yogi che possiede una padronanza assoluta della propria natura, che si accorda perfettamente con l'ideale fantascientifico dell'«uomo superiore al genere umano». Invece il Buddha o l'uomo risvegliato dello Zen cinese è «normale, niente affatto speciale»: egli è umano, arguto come i monaci itineranti Zen descritti da Mu-ch'i e da Liang-k'ai. Queste cose ci attraggono perché in loro per la prima volta troviamo la concezione di un saggio e di un santo che non è lontanissimo e irraggiungibile, che non è un superuomo ma un essere del tutto umano e soprattutto non un solenne e asessuato asceta. Inoltre nello Zen il satori, l'esperienza del risveglio alla nostra «originaria inscindibilità» dall'universo sembra, per quanto elusiva, sempre dietro l'angolo. C'è anche la possibilità di incontrare gente alla quale sia accaduto proprio questo e queste persone non siano più misteriosi occultisti dell'Himalaya o scheletrici yogin di un ashra claustrale. Ma sono persone come noi, eppure molto più a loro agio nel mondo, galleggiano più facilmente sull'oceano dell'insicurezza e della transitorietà. Soprattutto io credo che lo Zen affascini molle persone dell'occidente post-cristiano perché non predica, non moralizza, non rimprovera come il profetismo giudaico-cristiano. Il buddismo non nega l'esistenza di una sfera relativamente limitata in cui la vita umana può essere migliorata dall'arte e dalla scienza, dalla ragione e dalla buona volontà. Ma considera questa sfera di attività altrettanto importante, seppur subordinata, della sfera comparativamente illimitata nella quale le cose sono come sono, come sono sempre state e come sempre saranno, una sfera completamente al di là delle categorie del bene e del male, del successo e del fallimento, della salute individuale e della malattia. Da una parte questa è la sfera del grande universo. Guardandole di notte noi non facciamo confronti fra stelle giuste e sbagliate, né fra costellazioni collocate bene o male. Le stelle sono per natura piccole e grandi, luminose e opache. Eppure la sfera nel suo insieme ha uno splendore e una meraviglia che qualche volta ci fa rabbrividire di timoroso rispetto. Dall'altra parte questa è anche la sfera della vita umana, di ogni giorno, che potremmo chiamare esistenziale. Infatti c'è un punto di vista dal quale le cose umane sono altrettanto al di là del bene e del male quanto le stelle, e dal quale le nostre azioni, le nostre esperienze e i nostri sentimenti non possono essere giudicati più di quanto possano essere giudicate le differenze di altezza fra vette e valli in una catena di montagne. Anche se è al di là di ogni valutazione morale e sociale questo livello di vita umana può anche essere considerato altrettanto meraviglioso e inquietante quanto il grande universo. Questa sensazione può diventare particolarmente acuta quando l'io individuale tenta di penetrare la propria natura, di scandagliare le fonti interiori delle sue azioni e della sua coscienza. Infatti qui scopre una parte di se stesso, la parte più intima e più grande, che è nuova a lui stesso e superiore alla sua comprensione e al suo controllo. Anche se può sembrare strano l'io scopre che il proprio centro e la propria natura sono al di là di se stesso. Quanto più profondamente penetro in me stesso, tanto più io non sono me stesso, eppure questo è proprio il mio cuore. Qui trovo i miei lavorii interiori che funzionano da soli, spontaneamente, come la rotazione dei corpi celesti e i vagare delle nuvole. Per quanto strano e ignoto questo aspetto di me tesso sembri essere in un primo momento, mi accorgo presto che è me stesso, molto più me stesso che non il mio io superficiale. Questo non è fatalismo o determinismo, perché non esiste più nessuno che venga predestinato o sballottato; non c'è niente che non venga fatto da questo «Io» profondo. La configurazione del mio sistema nervoso, come la configurazione delle stelle, trae origine da sé e questo «sé» è il vero «me stesso». Da questo punto di vista, e qui il linguaggio rivela i propri limiti fin troppo chiaramente, scopro che non posso esimermi dal fare o dallo sperimentare abbastanza liberamente ciò che è sempre «giusto» nel senso che le stelle sono sempre al loro posto «giusto». Come dice Hsiang-yen:
«Non c'è bisogno di discipline
artificiali A questo livello la vita umana è superiore all'angoscia perché non può mai sbagliare. Se viviamo, viviamo; se moriamo, moriamo; se offriamo, soffriamo; se siamo spaventati, siamo spaventati. Non c'è problema. Una volta fu chiesto a un maestro Zen: «Fa tremendamente caldo, e come faremo a sfuggire il caldo?» «Perché» rispose i maestro, «non andiamo in quel posto dove non fa né caldo né freddo?». «Dov'è quel posto?». «In estate sudiamo in inverno tremiamo». Nello Zen non ci si sente colpevoli di morire o di aver paura o di odiare il caldo. Allo stesso tempo lo Zen non impone che questo punto di vista debba essere adottato; non lo predica come un ideale. Infatti se non lo si capisce anche il fatto di non capirlo è il tutto. Non ci sarebbero stelle lucenti senza stelle opache e, senza l'oscurità circostante, non ci sarebbero stelle del tutto. L'universo giudaico-cristiano è un universo in cui il bisogno morale, l'ansia di essere nel giusto abbraccia e penetra ogni cosa. Dio, l'Assoluto stesso, è il bene opposto al male e così essere immorali o sbagliare significa sentirsi un esiliato non solo dalla società umana ma anche dall'esistenza stessa, dalla radice e dalla base della vita. Sbagliare suscita quindi un'angoscia metafisica e un senso di colpa - uno stato di dannazione eterna - del tutto sproporzionato al crimine commesso. Questa colpa metafisica e così insopportabile che infine sfocia nel rifiuto di Dio e delle sue leggi che è proprio quello che è successo al movimento del secolarismo, del materialismo e del naturalismo moderni. La moralità assoluta distrugge profondamente la stessa moralità perché le sanzioni che invoca contro il male sono eccessive. Non ci si cura il mal di testa tagliandosela. Il fascino dello Zen, come quello di altre forme di filosofie orientali, è dato dal fatto che questo rivela, dietro al regno incalzante del bene e del male, una vasta regione di se stessi per la quale non è necessario sentirsi in colpa o fare recriminazioni, dove infine l'io non è distinto da Dio, Ma l'occidentale che è attratto dallo Zen e che è in grado di capirlo profondamente deve avere un attributo indispensabile: deve capire la propria cultura in modo così completo da non venir più influenzato inconsciamente dalle sue premesse. Deve realmente aver trovato un accordo con il Dio Jehova e con la sua coscienza giudaico-cristiana così da poterli prendere o lasciare senza paura o ribellione. Deve essersi liberato dalla necessità di giustificare se stesso. In mancanza di ciò il suo Zen sarà beat o «square» sarà cioè o una rivolta alla cultura e all'ordine sociale o una nuova forma di rispettabilità e pregiudizio. Infatti lo Zen è prima di tutto la liberazione della mente dal pensiero convenzionale e questo è qualcosa di completamente diverso dalla rivolta contro le convenzioni da un lato e dall'adottare un conformismo di tipo esotico, dall'altro. Il pensiero convenzionale è in breve, la confusione dell'universo concreto della natura con le cose, gli eventi e i valori concettuali del simbolo culturale e linguistico. Infatti nel taoismo e nello Zen il mondo viene visto come un campo interdipendente, inseparabile e continuo, nessuna parte del quale può in realtà essere scissa o giudicata migliore o peggiore del resto. Fu in questo senso che Huingeng, il Sesto Patriarca, intese dire «fondamentalmente nessuna cosa esiste», accorgendosi che le cose sono termini, non entità. Esistono nel mondo astratto del pensiero ma non nel mondo concreto della natura. E chiunque senta realmente che le cose stanno così, non sente più di avere un io, tranne che per definizione. Capisce che il proprio io è la sua persona, o il ruolo sociale, una selezione in un certo senso arbitraria delle esperienze con le quali gli è stato insegnato a identificarsi. (Perché, per esempio, diciamo «Io penso», ma non «io batto il mio cuore»?). Capito questo continua a recitare la proprio parte nella società senza farsi assorbire da questa. Non si precipita ad adottare un nuovo ruolo né a recitare la parte di colui che non ha una parte. Semplicemente recita in modo distaccato. La mentalità «beat» come io la concepisco è qualcosa di più ampio e vago della vita «hipster» di New York e San Francisco. È la non partecipazione di una generazione più giovane all'«American way of life», una rivolta che non cerca di cambiare l'ordine esistente, ma semplicemente gli gira le spalle per cercare il significato della vita nell'esperienza soggettiva piuttosto che nel suo conseguimento oggettivo. È in contrasto con la mentalità «square» e con altre mentalità derivanti dalle convenzioni sociali, indifferente alla correlatività fra il giusto e lo sbagliato, al fatto che per sopravvivere il capitalismo ha bisogno del comunismo e viceversa, al fatto che puritanesimo e licenziosità sono intimamente identici o, per esempio, all'alleanza fra chi della chiesa fa un affare e il crimine organizzato per mantenere la legge contro il gioco d'azzardo. Lo Zen «beat» è un fenomeno complesso. Va dall'uso dello Zen per giustificare il puro capriccio nell'arte, nella letteratura e nella vita a una critica sociale molto violenta e a una «indagine sull'universo» come si può trovare nella poesia di Ginsberg, Whalen, e Snyder o, a tratti, in Kerouac, che è però sempre un po' troppo autocosciente, soggettivo e stridente per avere il sapore dello Zen. Quando Kerouac enuncia la sua dichiarazione filosofica finale: «Non so. Non mi importa. E non fa nessuna differenza», non è più Zen perché c'è un'ostilità in queste parole che assomiglia molto all'autodifesa. Ma proprio perché lo Zen sorpassa veramente la convenzione e i suoi valori, non ha nessun bisogno di mandarli al diavolo, né di sottolineare con violenza il fatto che tutto va bene. In effetti è l'intuizione basilare dello Zen, che esiste un punto di vista definitivo dal quale «tutto va bene». Nelle famose parole del maestro Yunmen: «Ogni giorno è un bel giorno». O come troviamo scritto nello Hsin-hsin Ming:
Se vuoi sapere la pura verità Ma questo punto di vista non esclude e non è ostile alla distinzione fra giusto e sbagliato ad altri livelli e in punti di riferimento più limitati. Il mondo viene visto come entità al di là del bene e del male quando non si pretende di incorniciarlo: cioè quando non osserviamo una particolare situazione in se stessa prescindendo dalla sua relazione con il resto dell'universo. In una stanza c'è una chiara differenza fra il sopra e il sotto; non così nello spazio interstellare. Dentro i confini convenzionali di una comunità umana ci sono chiare distinzioni fra bene e male. Ma queste differenze spariscono quando le cose umane vengono viste come parte integrante dell'intero regno della natura. L'esistenza di una struttura restringe il campo delle relazioni e la restrizione diventa legge o regola. Ora un bravo fotografo può riprendere con la sua macchina qualunque scena e soggetto e creare una meravigliosa composizione a seconda del modo in cui li inquadra e li illumina. Un fotografo alle prime armi che cerchi di fare la stessa cosa crea solo pasticci, perché non sa fare un'inquadratura, non riesce a stabilire i limiti della fotografia, dove essa sarà in rapporto al contenuto. Questo dimostra eloquentemente che non appena vogliamo inquadrare le cose queste non vanno più bene. Ma ogni opera d'arte ha bisogno di una cornice. La cornice, qualunque essa sia, è precisamente la cosa che distingue un dipinto, un poema, una composizione musicale, un'opera teatrale, un balletto o una scultura dal resto del mondo. Alcuni artisti possono ribattere che non vogliono che le loro opere siano diverse dall'universo nel suo insieme, ma se è veramente così non dovrebbero allora presentarle in gallerie d'arte o alle mostre. Soprattutto non dovrebbero né firmarle né venderle: è immorale quanto vendere la luna o firmare con il proprio nome una montagna. (Un artista di questo genere può forse essere perdonato se sa quello che sta facendo e se si sente molto orgoglioso di sé non come poeta o pittore, ma come abile truffatore). Soltanto maleducati ragazzini e volgari escursionisti se ne vanno in giro incidendo le proprie iniziali sugli alberi. Oggi ci sono artisti occidentali che usano apertamente lo Zen per giustificare l'uso indiscriminato di tutto quanto passa loro per la testa: tele in bianco, musica completamente silenziosa, brandelli di carta stracciata lasciati cadere su una tavola e incollati dove cadono o dense masse di filo lacerato. Le opere del compositore John Cage sono abbastanza tipiche di questa tendenza. In nome dello Zen egli ha dimenticato le sue precedenti opere molto buone per affrontare il pubblico con otto nastri Ampex che producono simultaneamente rumori scelti a caso. Oppure ha presentato silenziosi concerti di pianoforte dove il musicista non fa altro che pause, aiutato da un assistente che gira le pagine allo scopo di scuotere il pubblico rendendolo conscio dei molteplici suoni che riempiono il vuoto musicale - piedi che si muovono, pagine del programma che frusciano, risatine imbarazzate, colpi di tosse e il fragore del traffico all'esterno. C'è in effetti un forte valore terapeutico nel permettersi di essere profondamente conscio di ogni immagine o suono che sorge. Intanto questo porta ad accorgersi della meraviglia del vedere e del sentire in sé. Poi la profonda propensione ad ascoltare o a guardare qualcosa a caso libera la mente dagli stereotipi di bello, creando, come se esistesse, uno spazio libero in cui forme e relazioni del tutto nuove possono nascere, ma questa è terapia; non è ancora arte. È al livello delle libere associazioni mentali di un paziente sul sofà di una psicanalista: è molto importante come terapia, anche se non è affatto lo scopo degli psicanalisti il sostituire queste associazioni mentali con conversazioni e letture. I lavori di Cage potrebbero essere accettati se li inquadrasse e presentasse come sedute di gruppo di audioterapia, ma come concerti sono semplicemente assurdi. Si può sperare comunque che, dopo che Cage avrà con tutto questo ascoltare liberato la propria mente dal plagio pressoché inevitabile del compositore dalle forme del passato, ci darà nuovi modelli di rapporti musicali che non ha ancora espresso. Proprio come il bravo fotografo spesso ci meraviglia con le sue riprese e le inquadrature di soggetti fra i più inverosimili, così ci sono pittori e scrittori in occidente, e anche nel Giappone moderno, che sono riusciti a conoscere a fondo l'arte autenticamente Zen di controllare le imperfezioni e le irregolarità. Storicamente quest'arte nacque nell'estremo oriente dalla valutazione della rozza trama dei colpi di pennello nell'arte della calligrafia e della pittura e nel casuale correre dello sguardo sulle tazze fatte per la cerimonia del tè. Un classico esempio di ciò accadde quando si ruppe una bella scatoletta da tè di ceramica che apparteneva a uno dei vecchi maestri della cerimonia del tè giapponese. I frammenti vennero ricomposti insieme con dell'oro e il proprietario rimase strabiliato nel vedere come la rete casuale di linee dorate aumentava la bellezza dell'oggetto. Bi sogna ricordare comunque che questo era un objet trouvé - un effetto accidentale scelto da un uomo di gusti squisiti e custodito il più gelosamente possibile, esibito come una meravigliosa pietra o un pezzo di legno trasportato dalla corrente. Infatti nell'arte del bonseki ispirata allo Zen, l'arte di disporre le pietre nei giardini, queste pietre vengono scelte con cura infinita e anche se la mano dell'uomo non l'ha mai cambiato non è affatto vero che si possa usare qualunque vecchio sasso. Inoltre nell'arte della calligrafia, della pittura e della ceramica, gli effetti accidentali di una svista o di una sbavatura fatta con un pelo del pennello fuori posto erano accettati e presentati dall'artista solo quando questi sentiva che erano meraviglie accidentali e inaspettate nel contesto dell'opera vista nel suo insieme. Che cosa guidava il suo giudizio? Che cosa dà certi effetti casuali quando si dipinge la stessa bellezza di quella della frange delle nuvole? Secondo lo Zen non c'è una regola precisa, non c'è regola che possa essere formulata a parole e insegnata sistematicamente. D'altra parte c'è in tutte queste cose un principio d'ordine che nella filosofia cinese viene chiamato li, e che Joseph Needham ha tradotto con il termine «modello organico». La parola li in origine era usata per indicare i segni sulla giada, la grana deI legno e la fibra dei muscoli. Indicava un tipo di ordine che è troppo multidimensionale, sottilmente interdipendente e intrinsecamente vitale per essere rappresentato a parole o con immagini meccaniche. L'artista deve conoscerlo come deve conoscere il modo in cui far crescere i propri capelli. Egli può riprodurlo più volte ma non potrà mai spiegare come. Nella filosofia taoista questo potere è chiamato te o «Virtù magica». È elemento del miracoloso che sentiamo sia nelle stelle in cielo che nella nostra capacità di essere coscienti. È il possesso del te, quindi, che distingue nettamente dei comuni graffi dalla «scrittura bianca» di Mark Tobey, che per sua stessa ammissione si è ispirato proprio alla calligrafia cinese, o le spontaneità multidimensionali di Gordon Anslow-Ford, che è sia detto per inciso, un importante maestro di scrittura cinese formale. Non è affatto una sbavatura di colore puramente accidentale o un movimento incontrollato del pennello, perché il carattere e il gusto di maestri del genere è visibile nella grazia (un possibile equivalente del te) con cui essi danno le loro pennellate anche quando non vogliono rappresentare niente tranne appunto delle pennellate. È anche ciò che distingue puri e semplici chiazze, sgorbi e scie di inchiostro nero dalle opere di artisti giapponesi moderni come Sabro Hasegawa e Onchi, che è dopotutto nella tradizione haboku o dello «stile rozzo» di Sesshu. Chiunque può scrivere in un giapponese assolutamente illeggibile, ma chi sa farlo in modo così incantevole come Ryokwan? Se è vero che «quando l'uomo sbagliato adopera i mezzi giusti, i mezzi giusti funzionano in modo sbagliato», è spesso vero anche che quando l'uomo giusto usa i mezzi sbagliati, i mezzi sbagliati funzionano nel modo giusto. Il vero genio degli artisti Zen cinesi e giapponesi quando fanno uso di fatti accidentali controllati, va oltre la scoperta della bellezza fortuita. Sta nella capacità di esprimere, al livello artistico, la percezione di quel punto di vista finale dal quale «tutto va bene» e col quale «tutte le cose sono della stessa essenza». La semplice scelta di una cornice per una qualunque forma, non fa altro che confondere i regni della metafisica e dell'arte; non esprime l'una in funzione dell'altra. Messo in cornice, qualunque vecchio sgorbio viene immediatamente tagliato fuori dalla totalità del suo contesto naturale e proprio per questa ragione la sua manifestazione del Tao viene nascosta. Il mormorio informe dei rumori notturni in una grande città possiede un incanto che sparisce immediatamente quando viene presentato in modo formale come musica in una sala da concerto. Una cornice delimita un universo, un microcosmo, e se i contenuti della cornice devono essere classificati come arte, devono possedere la stessa capacità di relazionarsi al tutto e l'una con l'altra come eventi nel grande universo, il macrocosmo della natura. In natura l'accidentale è sempre riconoscibile in relazione a quello che è governato e controllato. L'oscurità, yin, non esiste senza la luce, yang. Così la pittura di Sesshu, la calligrafia di Ryokwan e le tazze di ceramica delle scuole Hagi e Karatsu rivelano la meraviglia dell'accidentale in natura attraverso l'accidentale nel contesto di un'arte altamente disciplinata. La percezione della costante «giustezza» di tutto quanto accada non è certamente facilitata più da un'assoluta illegalità nella condotta sociale che dal puro capriccio in arte. Mentre lo Zen è stato usato come pretesto per questo capriccio dei nostri tempi, il suo uso quale scusa per una condotta illegale è vecchio come il mondo. Parecchi delinquenti si sono giustificati usando la formula buddista, «Nascita-e-morte (samsara) è il Nirvana; le passioni umane sono l'Illuminazione». Questo pericolo è implicito nello Zen com'è implicito nella libertà. Il potere e la libertà non possono mai essere sicuri. Sono pericolosi come sono pericolosi il fuoco e l'elettricità. Ma è una cosa penosa vedere lo Zen usato come pretesto per la sregolatezza quando lo Zen in questione è soltanto un'idea nella testa, una semplice razionalizzazione. E così lo «Zen» talvolta viene usato da quel sottobosco culturale che si rifà alle varie comunità artistiche e culturali. Dopotutto, il modo di vita bohemien è fondamentalmente la conseguenza naturale del fatto che artisti e scrittori sono così assorti nel loro lavoro che non hanno interesse a competere con i proprio vicini di casa, come fanno invece normalmente le persone più conformiste. È anche un sintomo dei mutamenti creativi nelle maniere e nella morale che in un primo tempo sembrano ai conservatori altrettanto biasimevoli quanto le nuove forme nell'arte. Ma ciascuna di queste comunità attrae un certo numero di deboli imitatori e seguaci, specialmente nelle grandi città ed è soprattutto in questa classe che si trova ora lo stereotipo del «beatnik» con il suo Zen fasullo. E se non ci fosse lo Zen a servire da pretesto per questa esistenza inutile e priva di risorse, ci sarebbe un'altra cosa. È dunque questo il mondo che viene descritto ne I Vagabondi del Dharma di Kerouac? È abbastanza risaputo che I Vagabondi del Dharma non è un romanzo ma un resoconto romanzato delle esperienze dell'autore i California nel 1956. Per chiunque abbia una certa dimestichezza con l'ambiente descritto, è facile identificare i personaggi e non è un segreto che Japhy Ryder, il protagonista della storia, è Gary Snyder [1]. Qualunque cosa si possa dire dello stesso Kerouac e di alcuni altri personaggi della storia, sarebbe in effetti difficile far quadrare Snyder con qualunque stereotipo dall'ambiente bohemien. Snyder passò un anno a Kyoto a studiare Zen, e recentemente, nel 1959, vi è ritornato per un altro periodo, forse per due anni questa volta. È anche un serio studioso di cinese, che ha studiato con Shih-hsiang Chen all'University of California e ha tradotto in modo superbo un certo numero di poesie dell'eremita Zen Han-shan [2]. La sua stessa opera, pubblicata su parecchi periodici, ci autorizza a considerarlo uno dei migliori poeti del rinascimento di San Francisco, Ma Snyder resta, nel senso migliore del termine, un vagabondo. Il suo modo di vivere è una deviazione tranquillamente individualistica da qualunque comportamento ci si aspetti da un «buon consumatore». La sua temporanea dimora è una baracca senza servizi di sorta su una collina nella Mill Valley, in cima a un sentiero molto ripido. Quando ha bisogno di soldi si imbarca oppure lavora con i guardaboschi o taglialegna. Altrimenti sta a casa o va a scala le montagne, il più delle volte scrivendo, studiando o praticando la meditazione Zen. Parte della sua casa è adibita a «stanza per la meditazione», e il posto è arredato nella tradizionale semplicità e sobrietà Zen. Ma questo non è un tipo di ascetismo cristiano o buddista Hinayana. Come abbiamo chiaramente visto ne I vagabondi del Dharma, questo ascetismo è una combinazione di povertà volontaria e abbastanza gioiosa, con una ricca vita erotica, e per la religiosità occidentale e gran parte di quella orientale, questo è il massimo della diavoleria. Non è questa la sede più adatta per discutere il complesso problema della spiritualità e della sensualità [3], ma si può soltanto dire «tanto peggio per questa religiosità». Questo atteggiamento ha fatto raramente parte dello Zen, nuovo e vecchio, «beat» o «square». Ne I vagabondi del Dharma comunque vediamo Snyder con gli occhi di Kerouac e la sua immagine viene un poco distorta perché il buddismo di Kerouac è un vero buddismo Zen «beat» che confonde il «tutto va bene» al livello esistenziale con il «tutto va bene» ai livelli sociale e artistico. Nondimeno c'è qualcosa di tenero nella personalità di Kerouac scrittore, qualcosa che si riversa nel calore della ammirazione che nutre per Gary e nell'entusiasmo generoso, vigoroso per la vita che zampilla in ogni momento dalla sua prosa colorita e indisciplinata. Questo calore esuberante rende impossibile porre Kerouac nella classe della mentalità «beat» descritta da John Clelland-Holmes, il freddo, finto-intellettuale «hipster» in cerca di emozioni, che usa boriosamente frasi e parole Zen e gergo jazz per giustificare la sua rottura con la società che in effetti non è altro che un'ordinario, insensibile sfruttamento degli altri. A North Beach, nel Greenwich Village e altrove, questi personaggi non sono difficili da trovare ma nessuno ha mai sentito parlare di alcuno di essi e soltanto l'immaginazione dei giornalisti li identifica con gli attivi poeti e artisti di queste comunità. Sono, comunque, l'ombra di un'essenza, la caricatura di bassa lega che non manca mai nei movimenti culturali e spirituali, portandoli ad estremismi che non erano mai stati nelle intenzioni dei loro fondatori. In questo senso lo Zen «beat» semina confusione idealizzando come arte e vita cose che sarebbe meglio tenere per sé e usare come terapia. Una delle caratteristiche più problematiche dello Zen «beat», condivisa in un certo senso sia dagli artisti creativi che dai loro imitatori, è il fascino della marijuana e del peyote. Il fatto che molte di queste persone «prendono droghe» naturalmente li espone alle forme più estreme di «giusta» indignazione, nonostante la marijuana e il peyote (o il suo derivato sintetico, la mescalina) siano molto meno dannosi dello whisky e del tabacco e sia più difficile assuefarsi ad esse. In questi ambienti il fatto di fumare marijuana è in un certo senso un punto d'onore sacramentale, una sfida religiosa all'autorità costituita, che equivale al rifiuto dei primi cristiani di bruciare incenso agli dei di Roma. Viceversa per la polizia è una questione di principio, distinto dall'applicazione della legge razionale: la condanna della marijuana e gli arresti conseguenti costituiscono sempre un comodo diversivo dell'attenzione pubblica dai crimini molto più seri che continuano ad essere ignorati. Pretendere che sostanze di questo genere procurino stati di coscienza equivalenti al satori o all'esperienza mistica è un argomento che va trattato con molte cautele. Queste droghe non hanno automaticamente un effetto di questo genere e alcuni dei loro effetti sono totalmente diversi da qualunque cosa si possa trovare nel misticismo genuino. Comunque è certamente vero che alcune persone forse particolarmente dotate, con il peyote, la mescalina o l'acido lisergico raggiungono uno stato mentale favorevole all'esperienza mistica. Per quello che riguarda la marijuana ho i miei dubbi anche se apparentemente riduce la velocità del tempo soggettivo [4]. Ora questo aspetto di illegalità, di protesta dello Zen «beat» infastidisce molto seriamente i seguaci dello Zen «square». Infatti lo Zen «square» è lo Zen della tradizione in Giappone con la sua gerarchia ben definita, la sua rigida disciplina e i suoi precisi esami di satori. Più precisamente è il tipo di Zen adottato dagli occidentali che studiano in Giappone e che poi lo portano con sé tornando a casa. Ma c'è una ovvia differenza fra lo Zen «square» e il tradizionalismo del Rotary Club o della Chiesa Presbiteriana. È infinitamente più fastidioso, sensibile e interessante. Ma è sempre tradizionale perché è una ricerca della giusta esperienza spirituale, di un satori che riceverà il timbro (il ka) di approvazione e l'autorità stabilita. Ci saranno perfino certificati da appendere alla parete. Se lo Zen tradizionale cade i questi eccessi è nella direzione dello snobismo spirituale e del preziosismo artistico, anche se non ho mai conosciuto un insegnante di Zen ortodosso che si sia potuto accusare dell'una o dell'altra cosa. Questi signori sembrano prendere piuttosto alla leggera il loro compito elevato, sembrano rispettare la dignità senza montare in cattedra. I difetti dello Zen «square» sono i difetti di ogni setta spirituale con una disciplina esoterica e gradi di iniziazione. Gli allievi dei livelli inferiori possono diventare spiacevolmente presuntuosi riguardo alle conoscenze interiori che non possono divulgare - «e comunque non capiresti anche se potessi spiegartelo» - e spesso si soffermano a descrivere in modo abbastanza disgustoso le immense difficoltà e la disciplina di ferro di cui devono dar prova. A volte comunque tutto ciò è comprensibile, specialmente quando proprio questi presuntuosi sentenziano di star seguendo I'ideale Zen di «naturalezza». L'allievo Zen «square» tende anche a volte a gingillarsi stabilendo paralleli fra lo Zen e le altre tradizioni spirituali. Poiché l'essenza dello Zen, che è un'esperienza e non un insieme di idee, non può mai essere accuratamente e pienamente formulata, è sempre possibile essere critici nei confronti di tutto ciò che si può dire su di esso senza inventare né tacere. Qualunque dichiarazione sullo Zen o su un'esperienza spirituale di qualsiasi tipo, conserverà sempre qualche aspetto oscuro, una qualche sottigliezza. Nessuna è in grado di spiegare l'intera esperienza. Il seguace occidentale dello Zen dovrebbe resistere alla tentazione di usare una forma di snobismo anche peggiore, quello snobismo intellettuale così caratteristico dei partecipanti ai corsi sull'Estremo Oriente che si tengono nelle università americane. In questo particolare campo la moda di far diventare «scientifici» gli studi umanistici è arrivata a tali estremi che perfino Suzuki viene accusato di essere un «divulgatore» invece che un serio studioso - probabilmente perché è poco sistematico per quello che riguarda le note a pie' di pagina e copre un'area vastissima invece di studiare rigorosamente un singolo problema, per esempio «Un'analisi di alcuni caratteri illeggibili e arcaici nel manoscritto Tun-huang del Sutra del Sesto Patriarca». C'è un posto appropriato e onorevole nella scienza anche per lo sgobbone pignolo, ma quando questi è il maestro invece che la sua ombra la pericolosa invidia che nutrirà per la vera intelligenza rischierà di togliere di mezzo tutti gli studiosi dalla mente creativa [5]. Nella sua espressione artistica lo Zen «square» viene spesso studiato in modo noioso e diventa una ricercatezza, e questo destino tocca troppo facilmente a una venerabile tradizione estetica quando le sue tecniche sono così altamente sviluppate che lo studio approfondito di anche sola una di esse richiederebbe una vita. Allora nessuno ha il tempo di andare oltre gli insegnamenti dei vecchi maestri e così le nuove generazioni sono condannate alla ripetizione senza fine e all'imitazione delle loro ricercatezze. L'allievo di pittura sumi, di calligrafia, di poesia haiku o della cerimonia del tè può quindi restare intrappolato in una affettazione noiosa e ripetitiva di stili, variati solo da allusioni sempre più esoteriche alle opere del passato. Quando si arriva al punto di imitare gli «errori» artistici dei vecchi maestri in un modo tale che effetti primitivi» e «rozzi» vengono riprodotti dopo ripetuti tentativi, deliberatamente, l'intera cosa diventa così penosa che perfino i più tremendi eccessi dello Zen «beat» sembrano giustificati. In effetti è possibile che lo Zen «beat» e lo Zen «square» si completino a vicenda e si incontrino e che da questo incontro nasca una forma di Zen sorprendentemente pura e vivace. Per questa ragione io non vedo nessun serio antagonismo fra i due estremi. Non ci fu mai un movimento spirituale privo di eccessi e distorsioni. L'esperienza del risveglio, che è la vera essenza dello Zen, è troppo universale e fuori dal tempo per rischiare di essere intaccata. I fanatici dello Zen «beat» non devono allarmarsi perché come disse Blake, «Il pazzo che persiste nella sua pazzia diventerà saggio». Per quanto riguarda lo Zen «square», l'importanza delle esperienze spirituali «autoritarie» va sempre diminuendo dando così luogo alla richiesta di qualcosa di genuino e di unico che non ha bisogno di timbri ufficiali. lo ho visto seguaci dell'una e dell'altra dottrina estremista arrivare a perfette esperienze di satori poiché dal momento che non esistono particolari vie per arrivare al satori, non ha alcuna importanza quale via si scelga. Ma l'antagonismo fra gli estremi è di grande interesse filosofico perché è una forma contemporanea della vecchia disputa fra la salvezza per mezzo delle opere e la salvezza per mezzo della fede, o fra quelle che gli Indù chiamano la via della scimmia e la via del gatto. Il gatto - e il paragone è abbastanza appropriato - segue la via più agevole, poiché è la gatta a portare i suoi gattini. La scimmia segue la via più dura perché è il piccolo a doversi aggrappare al pelo della madre. Cosi per lo Zen «beat» non ci deve essere sforzo né disciplina, non ci devono essere artifizi per raggiungere il satori o per essere qualcosa di diverso da quello che si è. Ma per lo Zen «square» non ci può essere un vero satori senza anni di pratica e di meditazione sotto la severa sorveglianza di un maestro qualificato. Nel Giappone del diciassettesimo secolo questi due atteggiamenti erano approssimativamente rappresentati dai grandi maestri Bankei e Hakuin; accadde che i seguaci di quest'ultimo ebbero la meglio e stabilirono le caratteristiche odierne del Rinzai Zen [6]. Si può ottenere il satori seguendo ambedue le vie. È la concomitanza di un atteggiamento dei sensi non abbarbicato all'esperienza e questo distacco può essere ottenuto mediante la disciplina di dirigere con la massima intensità questo distacco verso un unico e sempre sfuggente obbiettivo. Ma ciò che rende la via dello sforzo e della volontà sospetta a molti occidentali non è tanto una pigrizia intrinseca quanto una totale affinità con la saggezza della nostra stessa cultura. I seguaci dello Zen «square» occidentali sono spesso molto ingenui quando si tratta di capire la teologia cristiana o tutto ciò che è stato scoperto nel campo della moderna psichiatria, perché entrambe hanno avuto a che fare per lungo tempo con la fallibilità e l'inconscia ambivalenza della volontà. Entrambi hanno proposto i problemi del circolo vizioso di tentare di lasciarsi andare o di «fare una libera associazione di proposito» o di accettare i propri conflitti per sfuggirli e per chiunque conosca qualcosa di cristianesimo o di psicoterapia questi sono problemi molto reali. L'interesse suscitato dallo Zen cinese e da persone come Bankei sta nel fatto che essi trattano questi problemi nel modo più diretto e stimolante e cominciano a suggerire delle risposte. Ma quando al maestro di arco giapponese di Herrigel venne chiesto «come posso dimenticare il proposito di proposito?», egli rispose che nessuno gli aveva mai fatto prima quella domanda. Non sapeva suggerire nessuna risposta se non di continuare a tentare alla cieca per cinque anni. Le religioni esotiche possono sembrare molto attraenti ed essere sopravvalutate da coloro che sanno poco e specialmente da coloro che non hanno studiato e superato questo poco. Questa è la ragione per la quale il cristiano scontento o inconsapevole può usare così facilmente sia lo Zen «beat» che quello «square» per giustificare se stesso. L'uno vuole una filosofia che giustifichi il fatto che egli fa ciò che vuole. L'altro vuole una salvezza autoritaria più plausibile di quella che la Chiesa o gli psichiatri sembrano essere in grado di offrire. Inoltre l'atmosfera dello Zen giapponese è libera da tutte quelle spiacevoli associazioni infantili con Dio Padre e Gesù Cristo - anche se conosco molti giovani giapponesi che provano le stesse sensazioni nei confronti dei loro primi anni di scuola di buddismo. Ma la vera essenza dello Zen resta quasi incomprensibile a coloro che non hanno superato lo stadio di immaturità in cui si ha bisogno di giustificarsi sia davanti al Signore Iddio che alla società paternalista. I vecchi maestri cinesi Zen erano impregnati anche di Taoismo. Essi vedevano la natura nella sua totale interdipendenza e capivano che ogni creatura e ogni esperienza è in accordo con il Tao della natura proprio così com'è. Questo li rendeva capaci di accettarsi così come erano, momento per momento, senza il minimo bisogno di giustificarsi. Non lo facevano per difendersi o per trovare una scusa liscia in tutti i casi. Non ne facevano un vanto e non si mettevano su un piedistallo. Al contrario il loro Zen era wu-shih, che significa all'incirca «niente di speciale» o «senza tante ostentazioni». Ma lo Zen è una ostentazione quando viene mescolato con le ostentazioni «bohemien» e anche quando si immagina che l'unica via giusta per raggiungere il risveglio è di rinchiudersi in un monastero giapponese o fare speciali esercizi nella posizione di loto per cinque ore al giorno. E ammetto anche tutto il baccano che si fa sullo Zen, anche in un saggio come questo, è «ostentazione» - ma un po' meno che negli altri casi. Dopo aver detto tutto questo, voglio aggiungere qualcosa per tutti gli ostentatori dello Zen, «beat» o «square». Anche tutta questa ostentazione va bene. Se siete impazziti per lo Zen non c'è nessun bisogno di far finta di non esserlo. Se volete veramente passare qualche anno in un monastero giapponese, non c'è nessuna ragione al mondo per cui non dovreste farlo. 0 se volete passare la vita saltando su carri merci e a fraternizzare con Charlie Parker ebbene, siamo in un paese libero. In un paesaggio di primavera non c'è né il meglio né il peggio; i rami in fiore crescono naturalmente, alcuni lunghi e alcuni corti.
Note [1] I nomi vennero cambiati all'ultimo momento, e ad un certo punto rimase «Gary» al posto di «Japhy». L'estratto del libro, pubblicato nell'estate del '58 sulla Chicago Review con il titolo di «Meditazione nei boschi», mantiene i nomi originali. [2] «Cold Mountain Poems», Evergreen Review, vol. 2, n. 6, 1958. [3] Si veda il mio «Nature, Man and Woman». [4] In seguito ai risultati degli e sperimenti con l'acido lisergico condotti dopo la stesura della versione originale di questo saggio, sono stato costretto a cambiare la mia opinione espressa allora riguardo alla totale diversità fra alcuni di questi stati di coscienza e l'esperienza mistica. Il problema viene discusso ampiamente nel saggio finale di questo volume, «La nuova alchimia». [5] Suzuki, sia detto per inciso, è un uccello raro tra gli asiatici contemporanei, è un pensatore originale. Non è semplicemente il portavoce di una tradizione e ha espresso delle tesi sulle religioni comparate e la psicologia delle religioni che sono di enorme importanza, a parte il lavoro da lui compiuto nel tradurre e interpretare la letteratura Zen. Ma è proprio questo il motivo per cui i sostenitori dello Zen «square» e gli accademici di Sinologia lo accettano con tante riserve. [6] Il Rinzai è la forma di Zen più conosciuta in occidente. Esiste anche il Soto Zen, che ne differisce alquanto nella tecnica, ma che si avvicina più allo Hakuin che al Bankei. Comunque il Bankei non dovrebbe essere identificato proprio con lo Zen «beat» come io l'ho descritto, visto che non era di certo un difensore della vita indisciplinata e capricciosa, nonostante quello che diceva dell'importanza della vita non programmata e della follia di cercare il satori.
Da: http://www.ilbolerodiravel.org/filosofia/beatzen.htm
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