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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Sulla poesia di Simone Weil (Roberto Taioli)


 

     Scrive Simone Weil in un passo dei suoi Cahiers che per “cambiare qualcosa (sopprimere un male) nell’ordine morale, in sé o nella società, è necessaria un’azione corrispondente all’effetto da ottenere. Altrimenti il male permane in aspetti diversi, ma equivalenti. Come si definisce una tale corrispondenza? Nell’anima la leva è l’attenzione o la preghiera. Ma nella società. Qual è il rapporto tra il soprannaturale e la società? Si può dire che la leva nella società è la religione (una qualsiasi religione buona). Ma in che senso? La leva nella società è il bello, le cerimonie, ecc. Quindi, la religione”. (1)

     Che il bello non sia avulso da un’idea complessiva di armonia che si riversa nella società, nel comportamento morale, nella stessa sfera dell’agire politico, è una conquista del pensiero della Weil che pensa il mondo mediante la categoria platonica e poi cristiana dell’amore. La stessa idea di una società sorretta da un principio di eguaglianza e di giustizia, a cui la Weil dedicò non pochi anni della sua breve vita, non è pensabile solo in nome del paradigma di un homo oeconomicus cui siano precluse le fonti della bellezza.

     L’armonia, quindi, non è mai solo parzialmente godibile; essa esiste tutta o altrimenti è solo una delle tante facce dell’alienazione e del mascheramento. Per questo una disanima dell’esperienza poetica di Simone Weil non può essere intesa solo nella sua intrinseca rilevanza estetica, ma anche come spia che focalizza un’area di valori e di pulsioni rinvenibili nell’intera compagine del suo pensiero.

     Il breve corpus poetico (2) di Simone Weil, come giustamente è stato osservato, non può essere letto e compreso al di fuori dell’intera opera filosofica della pensatrice. Esso infatti non ne è un’appendice. All’interno della scrittura delle Weil la scrittura poetica occupa senza dubbio una posizione marginale, privilegiando l’autrice altre forme della comunicazione linguistica, altri generi letterari (epistolario, scrittura diaristica, saggio ecc.). Ciò non di meno essa non può però neanche essere assunta come mera rappresentazione ed esemplificazione lirica della sua riflessione, poiché in tal modo ne verrebbe svilito e diminuito il significato, riducendolo a semplice supporto del pensiero..

     Per un’ermeneutica globale del pensiero della Weil collocheremo quindi le poesie come un non irrilevante momento chiarificatore che accompagna il dipanarsi del suo pensiero e rintracceremo nella sua simbologia poetica la presenza di alcuni nodi fondamentali della sua riflessione. Il tema della bellezza, non come mera categoria estetica rinviante al mondo sensibile, ma come fuoco spirituale che non si consuma nelle forme del desiderio, la bellezza avvertita come una percossa che ci raggiunge e sorprende (vedasi in Platone – di cui la Weil fu fine lettrice – la funzione stessa della meraviglia come fonte del sapere, fonte della filosofia), all’interno del pensiero più profondo della Weil, come un centro di luce da cui tutto rifrange.

     Le poesie weiliane si prestano a questa ricognizione come schegge luminose di questo pensiero che potremmo racchiudere nella dialettica  o meglio nel contrasto irrisolto e irrisolvibile tra la pesanterur e la grace, tra il chiuso mondo delle ombre e dell’oscurità che grava sull’uomo e lo stacco che lo sospinge verso Dio. L’uomo vive quindi nella condizione dell’attesa che per la Weil è un protendersi ad una richiesta di senso, ad un riempimento integrale che le religioni precristiane e poi lo stesso cristianesimo hanno interpretato  in una feconda semina del soprannaturale. La poesia allora si pone al confine di questa esperienza, in una prossimità al logos, sulla soglia sottile che rende dicibile sia l’opprimente gravame che appesantisce la vita dell’uomo, sia la tensione che lo sospinge a cercare un senso originale al suo cammino.

     Recupera così la Weil l’immagine eckhartiana dell’homo viator che non accetta la sua riduzione a cosa, a icona che ripete il male ma ingaggia con il malheur un incessante agone. E’ questo l’atletismo operante  sempre fungente nel pensiero di Simone Weil che richiede l’annullamento, il distacco, il portare su di sé l’abito della nudità. La bellezza infatti è sempre una conquista, non è data in partenza, non è prestabilita nel configurarsi dell’umano, così come il Cristo non ha potuto evitare l’esperienza della Croce. Leggiamo questo slancio creaturale nelle quartine di Lampo (3)

 

         Che il cielo puro mi mandi sul viso

-         Questo cielo spazzato da lunghe nubi –

Un vento così forte, profumato di gioia,

Che tutto nasca, mondato dai sogni:

 

Per me nasceranno le umane città

Che un soffio puro ha pulito da brume,

I tetti, i passi, i gridi, i cento limi,

Rumori umani, quanto consuma il tempo.

 

Nasceranno i mari, l’ondeggiante barca,

Il colpo di remo e i fuochi della notte;

Nasceranno i campo, il giavellotto lanciato;

Nasceranno le sere, stella che a stella segue.

 

Nasceranno il lampo e le ginocchia chine,

L’ombra, l’urto alle svolte della miniera;

Nasceranno le mani, i duri metalli rotti,

Il ferro morso nell’urlo della macchina.

 

Il mondo è nato;  fallo durare, vento, nel tuo soffio!

Ma esso muore coperto di fumo.

M’era nato in uno squarcio

Di pallido cielo verde tra le nubi.

 

                   

     Questo slancio, che ricorda l’energia divina creatrice nel libro della Genesi (ma rifrange anche qualcosa della breve ma dura esperienza lavorativa in fabbrica condotta dalla Weil), si raccoglie nella presenza vivificatrice del soffio, che sempre si ripete e si riproduce nel continuare del mondo (come il Logos che non muore a se stesso); se il soffio si inaridisce, il mondo verrebbe “coperto di fumo” e si chiuderebbe quello squarcio di luce apertosi tra le nubi. Il mondo cadrebbe sotto il dominio del malheur. Questo soffio è per la Weil il pneuma, luogo di verità e di luce, (Verità più grande del vero, come disse Cristina Campo che in Italia fu prossima al pensiero weiliano), ben diverso dalla psiche, che è invece l’Io psicologico tendente al possesso, al dominio, all’utile. Il pneuma richiede uno svuotarsi, un lasciare e quindi un ritorno al vuoto come condizione originaria per lo scaturire  del senso. Richiamando l’amato Eckhart, la Weil insiste sul tema della nascita e della durata che è il “tempo dello spirito” e della sempre rinnovata creazione, anche se sottoposta al maglio incombente del male.

     La presenza del male, pur se affrontato e combattuto a testa alta, introduce nella Weil un’etica della debolezza (4) che è acquisizione del senso del limite, della misura dell’operare umano e che richiede l’esercizio della responsabilità come imperativo etico ed ontologico. Così è tra l’altro possibile curare la malattia dello sradicamento e offrire all’uomo la strada per la ricerca della prima radice. A questa si accede non per via intellettuale ma lasciandosi andare sulla soglia dell’apertura, nell’abbandono gratuito, nella Gelassenheit che ritorna anche in Eckhart e in Angelus Silesius.

     Seguiamo in tal senso i versi del poemetto Prometeo, ove la figura del rapitore del fuoco è rovesciata nell’icona tragica di “Un animale smarrito e solo, / Morso nel ventre da un rovello incessante / Che lo fa correre, tremante di stanchezza, / Per fuggire la fame che solo morendo sfugge” (5). E’ forte, come peraltro notò anche Paul Valéry, in questa lirica il senso del movimento che è inquietudine e angoscia nella rappresentazione del détachement, dello sradicamento e del vuoto vissuto come condizione estrema.

     Cresciuta alla disciplina di questo status, che ha lontane ascendenze anche nelle filosofie orientali oltre che nell’esperienza dei grandi mistici, per Simone Weil il détachement è ad un tempo malattia e risorsa, capace di annichilire e di rigenerare. L’orrendezza e l’abiezione del male come viatico alla salvezza ritornano nel poemetto A un giorno nella dirompente forza salvifica della croce (6) :

 

Debole sorriso luccicante di lacrime,

Esordio di un mezzo in mezzo ai giorni

Vieni, afferraci, libera dalle ansie,

Ascendi, illumina, accendi, corri!

La tua fiamma slitta di ora in ora;

La tua ala d’un quieto lampo sfiora

Uno per uno i pallidi passi.

L’aria è in fiore sulle tue tracce.

Che una volta per i lenti spazi

Si assista al tuo sgorgare!

 

     Questa dialettica tra la levità della salvezza e il gravame del male sta al centro del pensiero di Simone Weil dando luogo anche a forti immagini di natura poetica. Il pensiero trasferisce alla parola la forza potente e aggregante della visione. Questo travaso del senso nella parola è caratteristico della Weil che conosce e abita sapientemente il confine tra filosofia e poesia. Su questa soglia si gioca l’avventura del linguaggio che è logos e mythos intrecciati nella figura. Dovremmo interrogarci sul perché di questo intreccio e sulla costituzione della poesia sul terreno del logos.

     Ma dovremmo anche capire se questo movimento sia reversibile, e in tal caso dovremmo poi indagare il tracciato che dal fondamento del mythos intreccia il logos. In ogni caso, appare nella Weil sotteso il suo abitare nel precategoriale e percepire la poesia come sporgenza di quel fondamento. Il male s’insinua in tutte le forme della vita quotidiana fino ad impregnarne le fibre più intime e profonde, come un succo che le pervade (7):

 

 

 

 

La pietra, giorno senza forza,

Tu non potrai traversarla

Un muro ti sottrae a chi ti ama;

E i muri di piombo peseranno

Fino alla notte sopra i petti,

Dal greve tumulto delle officine,

Dai mercati di carne da infangare,

Dal fondo di prigioni immutabili,

Salgono sguardi miserabili.

Qual raggio mai ti bagnerà?

 

     Il “raggio” è nel linguaggio weiliano la misura che si oppone alla dismisura. Quest’ultima è squilibrio, rottura, vulnus. La misura invece è il ricostituirsi dell’ordine, dell’equilibrio, il suturarsi della ferita. E’ l’irrompere del senso in un mondo che perde se stesso perché incapace di autocomprendersi smarrendosi nell’illimitato (“ogni ambizione è dismisura”)(8). L’illimitato è perdita e oblio, anche se assume talora il volto apparentemente appagante di un bene fittizio o di una concreta realizzazione. Il vero illimitato è solo Dio, come l’apeiron di Anassimandro .

     Sempre in agguato è la pesanteur nelle forme abiette e crude del male o più subdole di un bene mascherato. Tuttavia la degradazione non è mai scindibile dalla gioia che riemerge come polo dialettico e nuova emersione dalle schiume del naufragio. Ma non si tratta di una dialettica predeterminata. Si costituisce così per la Weil il tempo dell’attenzione e dell’attesa (9), tempo sospeso tra incombenza del presente e geometria del futuro. Tempo intermedio, ove sgorga la visione non ancora cristallizzata e condensata nella realtà, come le acque di una sorgente non ancora incanalate, l’attenzione estrema “costituisce nell’uomo la facoltà creatrice” (10) che agisce non condizionata dalla pressione di un problema o fagocitata da un oggetto, come facoltà pura (la Weil parla di “desiderare senza oggetto”), non determinata dalla volontà.

     Forse la poesia  è per la Weil in tal senso una forma della “attenzione estrema” che non si risolve in un campo finito. La “attenzione estrema” è una astrazione come la “visione” che compare sempre dentro uno sforzo di decreazione, da un disfarsi e rarefarsi dell’oggetto, da un tornare indietro. “Attenzione” è lo spasimo, il fremito oscuro e vago che precede il formularsi della parola. L’umiltà della poesia la avvicina alla preghiera che nasce anch’essa dal fondo della sofferenza e del malheur.

     Mossa dal palpito di una invocazione, da un andirivieni tra basso e alto, la parola si scioglie nella poesia che è un transito fragile e debole e che solo in questo riconoscersi trova la sua forza. E’ l’immagine della porta che chiude la breve stagione lirica della Weil. La porta segnala una chiusura ma anche un’apertura e ci connette al tema del vedere e dell’oltre. La porta che si apre ci svela la risorsa del mondo, ma prima di aprirsi ci resiste tenacemente e ci si oppone. Dobbiamo desistere allora? Rinunciare per sempre? Dobbiamo accettare di restare “gravati dal peso del tempo” (11). Ma infine la porta si apre ed ecco la visione irrealizzante : (12)

 

 Apritela porta, dunque, e vedremo i verzieri,

Berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato.

Il lungo cammino arde ostile agli stranieri.

Erriamo senza sapere e non troviamo luogo.

 

Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta.

Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta.

Se occorre l’abbatteremo coi nostri colpi.

Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte.

 

Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano.

Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile.

Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento piangiamo;

Noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo.

 

La porta è davanti a noi; a che serve desiderare?

Meglio sarebbe andare senza più speranza.

Non entreremmo mai. Siamo stanchi di vederla.

La porta aprendosi liberò tanto silenzio.

 

Che nessun fiore apparve, né i verzieri;

Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce

Apparve d’improvviso da parte  a parte, colmò il cuore,

Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere.

 

 

     La visione irrealizzante compare anche nelle intense righe del Prologo, un testo in prosa che la Weil aveva pensato come introduzione alla scrittura frammentaria dei suoi Quaderni (che la pensatrice definì “pensieri senza ordine”), ma che è soprattutto una meditazione solenne, avulsa dalle pagine successive e fluviali dei Cahiers.

    Un frammento di bellezza che riluce di luce propria. Il Prologo racconta una esperienza interiore nelle forme della parabola, in un lessico scabro e avvolgente, essenziale e semplice, evangelico. Povertà del linguaggio e dell’ambiente si toccano. Tra i due sconosciuti che animano la scena si instaura inizialmente una simbiosi in una coappartenenza di pensieri e paesaggio, di interno ed esterno. Si determina una Einfuhlung, una empatia che si fa gesti, atti, sostanza.

     La cornice mondana (la mansarda, la finestra aperta, il fiume ecc.) si dissolve ed evapora in una agape che è condivisione e partecipazione di un attimo che è fugace, di un frammento che sembra eterno e che si vorrebbe perpetuare: “Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo. Quel pane aveva davvero il gusto del pane. Non ho mai  più trovato quel gusto. Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era costruita quella città” (13).

    Ma poi nelle righe e nella scena avviene un’inversione di rotta, qualcosa si rompe, l’ospitalità si sgretola in una nuova forma della separazione. “Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade. Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa” (14). Si crea un vuoto, un’assenza enigmatica e misteriosa. E’ in questa solitudine dell’uno all’altro che si manifesta la grazia come evento del tutto nuovo che trasforma il vuoto in una pienezza: la grazia colma una lacuna, “può entrare soltanto là dove c’è un vuoto per riceverla, ed è essa stessa che compie quel vuoto” (15), che riscatta una assenza in una presenza. “La grazia è la legge del moto discendente” (16), scrive la Weil in un lapidario lampo della sua meditazione e conferisce senso a ciò che appare come una frattura, una lacerazione.

     Attesa e attenzione sono le condizioni perché il moto discendente appaia; in questo stato che fa del vuoto il fondamento precategoriale dello svelamento, la poesia non di discosta di molto dalla grazia discendente. Anch’essa sorge da un nulla e verso un nulla si dirige, messaggio archetipale, voce senza volto, volto senza voce, flusso, moto puro. “L’arte imita così la bellezza del creato”(17), platonicamente attinge ad una purezza che non è nel sensibile e che può anche stordirci, come la luce che abbaglia il prigioniero della caverna di Platone risalito in superficie. Come nella parte conclusiva del Prologo si manifesta l’avvertimento che il senso non è mai precostituito  ed acquisito (“Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è ovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione. Ovunque ma non in quella mansarda”) (18) e che va ritrovato in una perenne inquietudine, transitando continuamente dal vuoto che si ricostituisce in noi, così nella poesia riaffiora sempre l’eterna vacuità da cui sorge, nelle forme di una ferita insanata, di una piaga che attende la guarigione.

 

 

 

 

             NOTE

 

1.      S. Weil, Quaderni, vol. 2, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1991, pp. 136-137.

2.      S. Weil, Poesie,  a cura di Roberto Carifi, Mondatori, Milano, 1998.

3.      p. 35.

4.      Vedasi a proposito il saggio di A. Dal Lago, L’etica della debolezza. Simone Weil e il nichilismo, in AA.VV. Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1983. La nozione di “etica della debolezza” è ripresa anche da Roberto Carifi, in Poesie, cit. p. 6.

5.      Poesie, cit., p. 39.

6.      p. 53.

7.      p. 51.

8.      S. Weil. Quaderni, vol. I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1982, p. 261.

9.      Il tema dell’attenzione  ritorna anche in Cristina Campo, una grande lettrice e interprete della Weil. Vedasi il saggio Attenzione poesia, in C. Campo, Gli Imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, pp. 165-170.

10.  S. Weil, L’Ombra e la Grazia, trad. it. di Franco Fortini, Rusconi, Milano, 1996, p. 125.

11.  Poesie, cit., p. 65.

12.  p. 65.

13.  S. Weil, Prologo, in Quaderni, vol. I, cit. , p. 104.

14.  p. 104.

15.  p. 104.

16.  L’Ombra e la Grazia, cit., p. 24.

17.  S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, a cura di J-M, Perrin, Prefazione di Laura Boella, trad. it. di Orsola Nemi, Rusconi, Milano, 1999, p. 135.

18.  Prologo, cit., p. 104.

 

 

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