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Simone Weil
Da La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1999
Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell'Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L'anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l'imperio della forza che subisce. Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi. La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell'uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadayere. C'era qualcuno, e un attimo dopo non c'è nessuno. E un quadro che l'Iliade non si stanca di presentarci. ... i cavalli scotevano i vuoti carri sulle vie della guerra, in lutto dei loro aurighi senza macchia. Essi per terra giacevano, agli avvoltoi più cari assai che alle spose.
L'eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere:
tutto intorno, i capelli neri erano sparsi e la testa intera nella polvere giaceva, or ora incantevole; ora Zeus ai nemici aveva concesso avvilirla sulla sua terra natale. L'amarezza di uno spettacolo simile l'assaporiamo pura, senza
che nessuna finzione confortante venga ad alterarla: nessuna immortalità
consolatrice, nessuna scialba aureola di gloria o di patria.
La sua anima fuor delle membra volò, se ne andò alla casa di Ade, Più crudele ancora, a causa del contrasto doloroso, è l'evocazione improvvisa, subito cancellata, d'un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo dove l'uomo è per coloro che lo circondano ciò che conta di più. Ella gridava alle sue ancelle dai bei capelli per la dimora di porre al fuoco un tripode, ché vi fosse per Ettore un bagno caldo al ritorno dalla battaglia. O ingenua! Non sapeva che ben lungi dai bagni caldi l'ha piegato il braccio d'Achille, causa Atena dagli occhi glauchi. Certo, era ben lungi dai bagni caldi, lo sventurato. E non era il solo. Quasi tutta l'Iliade si svolge lontano dai bagni caldi. Quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi. La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Quanto più varia nei suoi procedimenti, quanto più sorprendente nei suoi effetti l'altra forza, quella che non uccide, cioè quella che non uccide ancora! Ucciderà sicuramente, o ucciderà forse, ovvero è soltanto sospesa sulla creatura che da un momento all'altro può uccidere; in ogni modo, muta l'uomo in pietra. Dal potere di tramutare un uomo in cosa facendolo morire, procede un altro potere, e molto più prodigioso: quello di mutare in cosa un uomo che resta vivo. È vivo, ha un'anima; è, nondimeno, una cosa. Strana cosa una cosa che ha un'anima; strano stato per l'anima. Chi sa quale sforzo le occorre ad ogni istante per conformarsi a ciò, per torcersi e ripiegarsi su sé medesima? L'anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è più nulla in essa che non patisca violenza. Un uomo inerme e nudo sul quale si punti un'arma diventa cadavere prima di esser toccato. Per un istante ancora pensa, agisce, spera: Egli pensava, immobile. L'altro, perduto, s'accosta, ansioso di toccargli i ginocchi. Voleva, nel suo cuore, scampare alla morte malvagia, al destino nero... E con un braccio gli stringe, supplice, i ginocchi, con l'altro trattiene la lancia acuta, senza lasciarla... Ma ben presto intuisce che l'arma non devierà da lui e, mentre ancora respira, non è più che materia; anche se è ancora un essere pensante, non può pensare più nulla: Così parlò quel figlio di Priamo, così fulgido, in supplici detti. E udì una parola inflessibile: ………………………………………………………………… Disse; all'altro mancarono i ginocchi ed il cuore; lascia l'asta e cade seduto, le mani tese, le due mani. Achille sguaina la spada acuta, colpisce alla clavicola, rasente il collo, e intera immerge la lama a due tagli. Lui, faccia a terra, giace disteso e il sangue nero sgorga umettando la terra. Quando, al di fuori di ogni battaglia, uno straniero debole e senz'armi supplica un guerriero, non è necessariamente condannato a morire; ma un attimo d'impazienza da parte del guerriero basterebbe a togliergli la vita. Basta questo perché la sua carne perda la principale proprietà della carne viva. Un pezzo di carne viva rivela la vita soprattutto nel sussulto: una zampa di rana, sotto la scarica elettrica, sussulta; l'apparizione vicina o il contatto di una cosa orribile o terrificante fa sussultare qualsiasi fascio di carne, di nervi e di muscoli. Solo un tale uomo supplicante non trasale, non freme; non ne ha più la possibilità; le sue labbra toccheranno l'oggetto che per lui è il più carico d'orrore: Non fu veduto entrare il grande Priamo. Si arrestò, serrò i ginocchi di Achille, baciò le sue mani tremende, omicide, che gli avevano massacrato tanti figlioli... Lo spettacolo di un uomo ridotto a questo grado di sventura agghiaccia pressappoco come la vista di un cadavere: Come quando la dura sventura colpisce un uomo che al suo paese ha ucciso, ed egli alfine arriva alla dimora di qualche ricco e un brivido afferra chi lo vede, così Achille fremette vedendo il divino Priamo. E anche gli altri fremettero, guardandosi l'un l'altro.
Ma non è che un momento; subito dopo la presenza dello sventurato è dimenticata:
Disse. L'altro, pensando a suo padre, bramò di piangerlo. Afferrandolo al braccio, spinse un poco il vegliardo. Entrambi rammentavano: l'uno Ettore, uccisore d'uomini e si scioglieva in lacrime ai piedi di Achille, faccia a terra; ma Achille piangeva suo padre, e a momenti anche Patroclo; e i loro singhiozzi riempivano la dimora. Non è certo per insensibilità che Achille, con un gesto, ha spinto a terra il vegliardo avvinto alle sue ginocchia; le parole di Priamo, facendogli ricordare il suo vecchio padre, l'hanno commosso fino alle lacrime. Semplicemente, egli si sente libero di muoversi e di spostarsi, come se invece di un supplicante fosse un oggetto a toccargli le ginocchia. Gli esseri umani che vengono a trovarsi intorno a noi hanno, grazie alla loro sola presenza, un potere (che appartiene soltanto a loro) di arrestare, reprimere, modificare ciascuno dei movimenti che il nostro corpo abbozza; un passante devia il nostro cammino per una strada in un modo diverso da quello di un cartello; quando siamo soli non ci alziamo, non camminiamo, non stiamo in una stanza nello stesso modo in cui lo si fa quando c'è un visitatore. Ma questa influenza indefinibile della presenza umana non è esercitata da quegli uomini che un moto di impazienza può privare della vita prima ancora che un pensiero abbia avuto il tempo di condannarli a morte. Dinanzi a questi uomini gli altri si muovono come se loro non esistessero; ed essi a loro volta, nel pericolo di esser ridotti al nulla in un attimo, imitano il nulla. Spinti, cadono; caduti, restano a terra fin quando il caso non faccia passare nello spirito di qualcuno il pensiero di rialzarli. Non credano però, dopo essere stati rialzati e onorati di parole cordiali, di prendere sul serio questa resurrezione, di osare esprimere un desiderio; una voce irritata li ridurrebbe subito al silenzio: Disse, e il vegliardo tremò e obbedì. I supplici almeno, una volta esauditi, ridiventano uomini come gli altri. Ma vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi è alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro. Non si tratta di uomini che vivano più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un'altra specie umana, un compromesso tra l'uomo e il cadavere. Che un essere umano possa essere una cosa, è da un punto di vista logico una contraddizione; ma, quando l'impossibile è divenuto realtà, la contraddizione diventa strazio nell'anima. Questa cosa aspira ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento vi riesce. E una morte che si allunga, si stira per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa. La vergine, figlia di un sacerdote, subirà questa sorte: Non la restituirò. L'avrà prima sorpresa vecchiezza nella mia casa d'Argo, lontana dalla sua patria, a correre innanzi al telaio, a muovere verso il mio letto. La subirà la giovane donna, la giovane madre, sposa del principe: E forse un giorno in Argo tesserai per un'altra la tela, porterai l'acqua della Mèsside o d'Iperea, ben tuo malgrado, sotto l'imperio di dura necessità. La subirà il fanciullo, l'erede dello scettro regale: Esse di certo se ne andranno in fondo alle concave navi, io fra di loro; tu, mio bambino, o con me mi seguirai, a fare avvilenti cose, penando sotto gli occhi di un padrone senza dolcezza... Agli occhi della madre una tal sorte è altrettanto paurosa per suo figlio quanto la morte stessa; lo sposo si augura di perire prima di sapervi ridotta sua moglie; il padre invoca tutti i flagelli del cielo sull'armata che vi sottomette sua figlia. Ma in coloro sui quali si abbatte, un destino a tal punto brutale cancella le maledizioni, le rivolte, i paragoni, le meditazioni sull'avvenire e sul passato, quasi il ricordo. Non è da schiavo essere fedele alla propria città, ai propri morti. Quando soffre o muore uno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto, che hanno devastato la sua città, massacrato i suoi sotto i suoi occhi, allora lo schiavo piange. Perché no? Soltanto allora il pianto gli è concesso. Gli è addirittura imposto. Ma in schiavitù le lacrime non sono forse pronte a scorrere non appena possano farlo impunemente? Ella disse piangendo; e le donne a gemere, col pretesto di Patroclo, ciascuna i propri affanni. In nessuna occasione lo schiavo ha il permesso di esprimere qualcosa, se non ciò che può piacere al padrone. Ecco perché, se in una vita così tetra un sentimento può germogliare e animarla un poco, non potrà essere se non l'amore per il padrone; ogni altro cammino è sbarrato al dono d'amare, così come a un cavallo attaccato al carro le stanghe, le redini, il morso sbarrano tutte le vie tranne una. E se per miracolo si mostra la speranza di ridiventare un giorno qualcuno per un atto di grazia, la riconoscenza e l'amore verso uomini, il cui passato più che recente dovrebbe ispirare orrore, giungeranno ad un grado incredibile. Il mio sposo, al quale mi diedero mio padre e mia madre [onorata, l'ho visto, innanzi alla mia città, trafitto dal bronzo acuto. I miei tre fratelli, che per me partorì una sola madre, così cari! incontrarono il loro giorno fatale. Ma tu non mi lasciasti - quando il mio sposo dal rapido Achille fu ucciso, e distrutta la città del divino Minete - versare lagrime; e m'hai promesso che Achille, il divino, mi farebbe sposa legittima, mi condurrebbe nelle sue navi a Ftia, per celebrare le nozze tra i Mirmidoni. Così senza tregua ti piango, o tu sempre dolce. Non si può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde ogni vita interiore. Non ne ritrova un poco se non quando si manifesti la possibilità di mutar destino. Tale è l'imperio della forza: un imperio che arriva lontano quanto quello della natura. Anche la natura, quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore, persino il dolore di una madre: Poiché anche Niobe dai bei capelli pensò a mangiare, lei, a cui dodici figli nella sua casa perirono, sei figlie e sei figliuoli nel fiore dei loro anni. Essi, Apollo li uccise con il suo arco d'argento, nella sua collera contro Niobe; esse, Artemide, amante delle frecce. Poich'ella si era eguagliata a Latona di belle guance dicendo: "Ella ha due figli; io assai di più ne partorii". E i due, seppur due soli, li fecero tutti morire. Per nove giorni giacquero nella morte; nessuno venne a sotterrarli. Le genti erano impietrite per volere di Zeus. E il decimo furon sepolti dagli dèi dell'Olimpo. Ma ella pensa a mangiare, quando fu stanca di lagrime. Mai fu espressa con tanta amarezza la miseria dell'uomo che lo rende incapace persino di sentire la sua miseria. La forza usata dagli altri è imperiosa sull'anima come la fame estrema, quando consiste in un potere perpetuo di vita e di morte, ed è un imperio altrettanto freddo, altrettanto duro come se fosse esercitato dalla materia inerte. L'uomo che si rivela il più debole è solo nelle città quanto, se non più di quello sperduto in mezzo a un deserto. Due tini stanno alla soglia di Zeus; coi doni che egli dona: buoni nell'uno, cattivi nell'altro... A cui fa doni funesti, egli lo espone agli oltraggi; l'orrendo bisogno lo insegue per tutta la terra divina; egli erra, e non lo rispettano gli uomini né gli dèi. Tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell'Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato, in vincitori e capi dall'altro; non vi si trova un solo uomo che a un certo momento non sia costretto a piegare sotto la forza.
Da: http://www.bibliosofia.net/files/ILIADE.htm
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