"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Proseguiamo la riflessione su
Cristina Campo, autrice cui «Il Margine» ha dedicato il convegno di Sopramonte
(20 dicembre 1998: gli atti relativi sono stati pubblicati nel n. 2/1999 della
rivista).
L’esperienza letteraria di Cristina Campo porta il segno di una dedizione alla
scrittura che non ebbe tregua. La lettura delle sue pagine – un ristretto
numero di saggi, poesie e traduzioni, cui si aggiungono le molte lettere1 –
costringe ad accostarsi alla qualità che attribuiva ai poeti d’un tempo e a
quello stupore, a quella meraviglia per l’esistente, a quell’attenzione per
ciò che sembra manchi al reale per essere vero che trovò in lei forza
considerevole, tanta da imporle una strenua disciplina. Si potrebbe dire che lo
stupore prese in lei un’intensità tale che non si poteva arrendere se non
davanti all’esercizio della perfezione. Ciò costringe ad un chiarimento. La
sua partecipazione emotiva agli eventi dell’epoca crebbe al punto che la
scrittura, da lei concepita come una forma di esercizio spirituale, poteva aver
luogo solamente a patto di una rinuncia: una rinuncia agli aspetti più
convenzionali del discorso, all’opinione corrente, persino al costume di
riferire al proprio nome – alla propria personalità intesa come immagine
sociale – le poche pagine che vergava. Per questo il ricorso allo pseudonimo
le divenne irrinunciabile.
Avvertire la precarietà del reale, mantenendo nel contempo «un’accettazione
fervente, impavida» dello stesso: così la Campo si votava a quell’attenzione
che sola le sembrava essere un viatico, per quanto oneroso, al luogo del vero.
Il culto dello stile, la ricerca di uno splendore in esso, pur mantenendo
un’espressione nitida, di rado tortuosa od oscura, rappresentava il risultato
di una ricerca inesausta, una tensione verso ciò che non si coglie, la
professione di fede, «di incredulità nell’onnipotenza del visibile». Il suo
percorso giunse in questo modo ad assumere un carattere prossimo a quello
mistico, non senza incertezze o difficoltà. Un itinerario dal finito
all’infinito che, compiuta la fatica,
ha per premio una comprensione piena, la restituzione del reale.
Il rapporto con la scrittura, ciò nonostante, rimase una prova incerta.
L’elegante noncuranza, la sprezzatura del linguaggio nella quale, in un
saggio, l’autrice pareva intravedere un aspetto della poesia, sembra
contrastare con l’elemento cerimoniale dello scrivere, col bisogno di arrivare
all’opera in rapporto conflittuale con il già-detto, di cui in altri momenti
aveva sostenuto la presenza. Forse, su un piano diverso, non più letterario,
questo mutamento d’opinione può essere letto come uno sviluppo.
In un periodo, come risulta dalle lettere inviate ad Alessandro Spina, provò
forte il desiderio di scrivere della vita dei religiosi, poiché sosteneva di
non veder altro che valesse la pena d’essere raccontato: passeggiava in
giardino portando con sé un taccuino rosso su cui prendeva appunti per «un
racconto immenso ed impossibile, protagonista un monaco» come affermava. «Il
mistero di una vita consacrata. Non c’è assolutamente altro di interessante
al mondo».
Il lento confronto col silenzio non la portò ad esprimersi in un’opera, sicché
può forse valere l’opinione di chi, nonostante la qualità della sua prosa,
non la ritiene una scrittrice, poiché il risultato della sua esperienza
letteraria non è – e lei ne era ben consapevole – che un segno, il segno
dell’assenza, il geroglifico della dimensione ulteriore.