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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Simone Weil e il lavoro (Corrado Marchi)


 

L’intellettuale Simone Weil fu anche operaia, lavorò in fabbrica, partecipò alle lotte sindacali, condivise in tutto la condizione del lavoro mortificato dalla catena di montaggio. Il motore di tutto ciò non fu un’appartenenza politica, quanto, piuttosto, la certezza che anche l’esperienza  del lavoro potesse diventare umanamente costruttiva.

 

Simone Weil(1) è ricordata come una delle poche donne filosofo del XX secolo insieme ad E. Stein ed H. Arendt, si menziona la sua attività politica e sindacale, la sua militanza nella guerra civile spagnola fra le file anarchiche, la sua particolarissima ricerca mistica. Tuttavia il suo lavoro come operaia è forse fra gli aspetti più incisivi, seppur breve nel tempo, della sua esistenza terrena: a venticinque anni, fra il 1934 e il 1935, prende un “anno sabbatico”, lascia la scuola e gli studi per entrare come operaia, impiegata alle presse, nell’azienda elettrica Alsthom di Parigi.

Già la sua riflessione giovanile ha dato ampio spazio alla tematica del lavoro(2), convinta che la nozione di lavoro potesse collegare i due ambiti, divergenti, nei quali essa indagava, ovvero la politica e i fondamenti della matematica. Il problema, posto così, può sembrare strano, in realtà è comprensibile come ricerca dei fondamenti delle scienze implicanti la volontà e quindi un valore morale. In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale(3), scritto nel 1934 poco prima di entrare in fabbrica, possiamo trovare un’analisi già matura sui meccanismi dello sfruttamento industriale, sul tema della libertà, ma si tratta di un’analisi razionalistica, potremmo dire cartesiana, fondata sulla certezza incrollabile della centralità della ragione. Poi il cambiamento, nello stesso 1934, dopo una quindicina di giorni dalla conclusione di Riflessioni: l’esperienza in fabbrica sconvolge la vita dell’appena venticinquenne insegnante di filosofia. Si cala fino al fondo dell’esperienza degli operai, senza vantare privilegi; solamente qualche collega suppone, dalle sue mani curate, che fosse una studentessa bocciata. Leggendo le descrizioni che ci presenta in La condizione operaia(4) le fabbriche di allora sembrano dei gironi danteschi: sperimenta il lavoro alla catena di montaggio come una schiavitù; prova la dipendenza assoluta ai superiori, la docilità rassegnata da “bestia da soma”(5) e la “reificazione”(6). “Come sarebbe bello lasciare l’anima dove si mette il cartellino di presenza e riprenderla all’uscita. Ma non si può. L’anima la si porta con sé in officina. Bisogna farla tacere”(7). Il pensiero diventa impotente. “Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana…Non sono fiera di confessarlo… Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto… Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”(8). Alla visione razionalistica subentra un “romanticismo” basato sulla visione spirituale della realtà, sulla convinzione che l’uomo possa trasfigurare il mondo in una ri-creazione.

La nostra contestatrice sui generis sta dalla parte degli operai: frequenta circoli sindacali già durante il periodo della vita dedicato all’insegnamento, s’impone di vivere nelle loro ristrettezze in una specie di comunione spirituale, praticando strettissimi digiuni, trascorrendo l’inverno senza riscaldamento convinta che anch’essi non lo possedessero (in realtà non era così), organizza manifestazioni antifasciste che le costeranno la segnalazione alle autorità scolastiche e i conseguenti trasferimenti, ospita per breve tempo il leader comunista antistalinista Trotzkij. Non partecipa però attivamente alla vita politica e partitica della Francia del suo tempo in quanto non si riconosce con alcuna posizione politica precisa: qualcuno la definisce trotzskista, rifiuta però del marxismo il carattere materialista, il determinismo economico, la visione etica e assolutista dello stato. Tuttavia la denuncia dello sfruttamento del lavoro a causa della proprietà dei mezzi di produzione la avvicina al pensiero di Marx: ad una veloce lettura si potrebbe pensare ad una dipendenza della prima dal secondo, a parte l’esito mistico di Simone, ma, vedremo, non è così. Anche la critica al taylorismo  riecheggia temi e linguaggio del marxismo ottocentesco e del ‘900: “Taylor era un caposquadra del tipo di quelli (…) che si credono nati per fare i cani da guardia dei padroni. Le sue ricerche non le iniziò né per curiosità né per bisogno di logica. È stata la sua esperienza di caposquadra e di cane da guardia che lo ha orientato in tutti i suoi studi e che gli è servita da bussola durante trentacinque anni di pazienti ricerche”(9).

 

Un problema di significato

 

Il lavoro di per sé non è opprimente, può certo produrre noia, costrizione, ma non avvilisce. È quanto ad esso si aggiunge nella produzione industriale che opprime: l’idea che il tempo passato lavorando sia perduto per la vita, l’impressione che in nessun momento si produca qualcosa di reale, la cadenza monotona dei gesti, la sottomissione passiva ai capireparto, la schiavitù cui bisogna costringersi da soli, il senso di solitudine pur in mezzo agli altri, l’esperienza dello sradicamento perché si vive in un luogo che non appartiene al lavoratore, la schiavitù che differisce da quella classica perché non consente una libertà interiore come è invece possibile per la figura dello schiavo stoico: meschina consolazione, senza dubbio, ma proibita all’operaio(10).

Il problema del lavoratore è sì una questione di riscatto sociale, ma alla base di tutto deve essere posto il valore della persona e il significato della sua esistenza. La rivolta sociale è giustificabile, ma non bisogna illudersi che possa risolvere i veri problemi dell’uomo che invece trovano radice nel profondo del suo animo: “in questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’infelicità”(11) e in La prima radice scrive “L’iniziativa e la responsabilità, il senso di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana. Una completa privazione di questo si ha nell’esempio del disoccupato, anche quando è sovvenzionato sì da consentirgli di mangiare, di vestirsi, di pagare l’affitto. Egli non rappresenta nulla nella vita economica e il certificato elettorale che dimostra la sua parte nella vita politica non ha per lui alcun senso”(12). La ricostruzione politica della società deve appoggiarsi innanzitutto su basi etiche, poi religiose, scindendo i due termini solo per motivi espositivi. Quale fondamento di questa ricostruzione ci deve essere appunto l’idea di responsabilità che si coniuga con quella di libertà. La libertà è una condizione politica (e Simone Weil combatté per essa nella guerra civile spagnola e cercò di farlo nella seconda guerra mondiale), ma deve essere inquadrata all’interno di una visione etica: non basta essere liberi, bisogna diventare liberi, cioè bisogna sapere come spendere la propria libertà. Però la libertà è anche un’utopia che riesce a mobilitare persone e popoli, che non è pienamente raggiungibile, almeno su questa terra, una specie di idea regolativa, usando il linguaggio di Kant.

La concezione del lavoro propria dell’autrice francese è fortemente influenzata dalla visione ebraica e cristiana: alla base del suo pensiero si trova l’accezione pessimistica propria dell’antico Testamento che considera il lavoro come una condanna conseguente all’espulsione dal paradiso terrestre; tuttavia a questo presupposto si aggiunge quello cristiano del divino che si cala nella storia e del lavoro come contributo dell’uomo alla realizzazione del disegno di Dio e come strumento che l’uomo possiede per mediare tra la propria interiorità e il mondo esterno(13).

 

Il riscatto dell’operaio dalla condizione servile

 

L’emancipazione degli operai avviene per la Weil soprattutto a livello di interiorità e di crescita umana. Ella non esclude le forme di lotta esplicita, ma è scettica sulla loro efficacia. Fa notare R. Chenevier(14) che, quando la nostra autrice parla di sciopero, usa l’espressione “gioia pura”; ma anche questo strumento di lotta è inefficace per un riscatto pieno: “gli operai fanno lo sciopero – afferma la pensatrice francese(15) – ma lasciano ai militanti il compito ristudiare il particolare delle rivendicazioni. L’abitudine della passività contratta quotidianamente nel corso di anni ed anni, non si perde in pochi giorni, anche se così belli”. In fondo lo sciopero è solo una compensazione del lavoro servile. E la rivoluzione? In uno studio del 1941(16), elencando altre forme di compensazione, riporta “l’ambizione ad un’altra condizione sociale per se stessi o per i propri figli”, “i piaceri facili e violenti”, la dissolutezza come stupefacente e conclude: “infine la rivoluzione è una compensazione dello stesso tipo; è l’ambizione trasferita nel collettivo, la folle ambizione dell’ascensione di tutti i lavoratori al di sopra della condizione di lavoratori”. Anche la biografa di Weil e compagna di scuola, Simone Pétrement, ritiene che la sua amica di gioventù non credesse in un riscatto del lavoratore sul piano materiale; scrive infatti: “Ha scoperto come possa l’operaio diventare libero nel suo stesso lavoro? Non sembra. Ne ha detratto – e già lo sospettava – che una certa schiavitù, attualmente, è legata alle condizioni materiali, agli stessi strumenti di lavoro, alle macchine. (…) Non arriva a vedere che cosa si dovesse fare; avvertiva solo la necessità di studiare certi problemi; ma la soluzione restava sempre lontana”(17).

Il riscatto dalle condizioni servili del lavoro è un fatto soprattutto interiore.  La prima condizione perché esso avvenga viene identificata dalla nostra autrice nell’importanza della formazione dei lavoratori. Come insegnante di filosofia aveva individuato l’obiettivo fondamentale dell’azione educativa nello sviluppo della capacità di attenzione delle allieve al fine di renderle atte a mettere in pratica i processi e le nozioni necessarie a operare nel contesto sociale e professionale(18). A questo obiettivo si deve aggiungere quello dell’educazione all’azione che scaturisce dalla passione per il mondo, per l’umanità, per la storia; la formazione cultuale dei lavoratori in quest’ottica deve servire a renderli veri uomini per far sorgere in loro le domande sulle motivazioni che stanno alla base della produzione, dell’organizzazione del lavoro e sui riferimenti al quadro etico.

Un terzo obiettivo della formazione del lavoratore è rappresentato dalla ricerca delle proprie radici in una società dove il denaro distrugge le radici, ovunque penetra, sostituendo ad ogni altro movente il desiderio del guadagno. “Esiste una condizione sociale – il salariato – completamente e perpetuamente legata al denaro, soprattutto da quando il salario a cottimo costringe ogni operaio ad essere sempre teso mentalmente alla busta paga. La malattia dello sradicamento raggiunge il massimo della gravità in questa condizione sociale”(19). La Weil auspica un vero radicamento nel passato, non però per gusto antiquario, ma quale fondamento di una rigenerazione spirituale personale dell’individuo e di una nuova democrazia. Afferma: “Il radicamento è forse l’esigenza più importante e più misconosciuta dell’anima umana. È tra le più difficili a definirsi. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente”(20).

 

Lavoro e bellezza

 

Altro aspetto della formazione culturale è costituito per Simone dall’educazione alla bellezza. Potrebbe sembrare questa sua convinzione una pura evasione intellettuale o mistica, avulsa dal mondo del lavoro, invece per lei questo tipo di educazione serve a radicare nella vita quotidiana, a rendere più accessibile la routine della fabbrica: “C’è un solo caso in cui la natura umana sopporta che il desiderio dell’anima si volga non verso quel che potrebbe essere o quel che sarà, ma verso quel che esiste. Questo caso è la bellezza. Tutto quello che è oggetto di desiderio, ma non si desidera che sia diverso, non si desidera mutarvi nulla, si desidera quel che è. (…) Poiché il popolo è costretto a portare tutto quello che possiede, la bellezza è fatta per lui stesso ed esso è fatto per la bellezza”(21). In questo senso la realtà del mondo del lavoro, per la nostra originale e particolare pensatrice, offre pur sempre occasione di apertura al divino e trova nella fede il significato di ogni azione quotidiana. Afferma infatti: “Il lavoro fisico costituisce un contatto specifico con la bellezza del mondo e, persino nei momenti migliori, un contatto di una pienezza tale che nulla di equivalente può trovarsi altrove. L’artista, il saggio, il pensatore, il contemplativo devono, per ammirare realmente l’universo, bucare questa pellicola d’irrealtà che lo vela e ne fa quasi per tutti i momenti della loro vita, un sogno o uno scenario di teatro. Essi lo devono, ma più sovente non lo possono. Chi ha le membra rotte per lo sforzo di una giornata di lavoro, ossia di una giornata in cui è sottomesso alla materia, porta nella sua carne la realtà dell’universo come una spina. La difficoltà per lui è di guardare e di amare; se ci arriva, ama la realtà”(22).

 

 


 

 

(1) Su quest’argomento si veda P. Viotto, Simone Weil: per insegnare a filosofare”, in “Nuova Secondaria”, 7 (marzo) 1997, pagg. 59 – 61.

(2) “Il lavoro fu al centro della sua riflessione durante i due primi anni di Ecole, e la teoria che elaborò a questo proposito fu, forse, la sua prima realizzazione importante nel campo del pensiero”. (S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Milano, 1994, Adelphi, pag. 90).

(3) Milano, 1983, Adelphi.

(4) La condizione operaia, Milano, 1994, SE.

Opera postuma, uscita nel 1951, raccoglie appunti di diario del periodo, saggi e lettere sulla condizione operai, alcune indirizzate anche a imprenditori, altre a sindacalisti. Nel complesso una descrizione della vita degli operai, dei rapporti fra loro, dei loro ritratti.

(5) Op. cit., pag. 47.

(6) "Si è come cavalli che si feriscono se si tirano sul morso – e ci si piega. Si perde persino coscienza di questa situazione, la si subisce e basta. Ogni risveglio del pensiero allora è doloroso” (op. cit., pag. 36).

(7) Op. cit., pag. 183.

(8) Op. cit., pag. 34.

(9) La condizione operaia, cit., pag. 237.

(10) Cfr. l’intero saggio di R. Chenavier, La filosofia in fabbrica, in “Nuovi Orizzonti”, n° 15, 1985, pagg. 57 – 77.

(11) La condizione operaia, cit., pag. 283.

(12) La prima radice, Cremona, 1954, Ed. di Comunità, pag. 21.

(13) Cfr. al riguardo la prima parte del volume di Borrello G., Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil, Napoli, 2001, Liguori.

(14) La filosofia in fabbrica, cit., pag. 65.

(15) Ivi.

(16) Ibid., pag. 66.

(17) La vita di Simone Weil, cit., pag. 334.

(18) Cfr. Bussini M.-Marchi C., Simone Weil educatrice: l’importanza dell’attenzione, in “Nuova Secondaria”, n°7 (marzo 2004), pagg. 73-75.

(19) La prima radice, cit, pag. 51.

(20) La prima radice, cit, pag. 49.

(21) La condizione operaia, cit., pag. 285.

(22) Attente de Dieu, Paris, 19775, Ed. du Seuil, pag. 161 (tr. nostra).

 

Da: http://www.corradomarchi.it/pubblicazioni/articoli/weil_lavoro.htm

 

 

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