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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Cristina Campo, una biografia in un giardino
(Monica Farnetti)


 Scheda riguardante Cristina Campo in corso di stampa nel Dizionario dei giardini italiani, iniziativa del Ministero dei Beni Culturali

Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (1923-1977), nasce a Bologna e vi trascorre un’infanzia solitaria e appartata, a causa di una debolezza cardiaca presto manifesta e che provocherà infine, a soli cinquantaquattro anni, la sua morte. Dall’ambiente familiare agiato e colto in entrambi i rami (il padre, musicista e compositore, è direttore del Conservatorio musicale di Bologna, il fratello della madre, della famiglia Putti, primario di ortopedia all’ospedale di San Michele in Bosco) riceve un’eccellente educazione, nella quale si radicano i valori-chiave della sua futura opera di saggista, poetessa e traduttrice: forma, stile, bellezza, perfezione, sprezzatura.
Il giardino come spazio di riflessione, lettura e fantasticheria emerge presto nella sua esperienza biografica, essendo il giardino della villa dello zio Putti a San Michele in Bosco il luogo dove la Campo trascorre - sotto controllo medico - le lunghe estati della sua pressoché continua convalescenza. Con l’apporto della fiaba, genere letterario a lungo prediletto, il giardino si converte quindi a tema letterario, luogo di sortilegi, di metamorfosi e di magici incontri in cui le scene della vita quotidiana e domestica si trasfigurano e si mutano in emozionanti avventure («Acqua fluiva, mentre io leggevo sotto le finestre della nostra cucina, in luogo dell’aiuola di zinnie, della siepe di spiree … E in quei mattini d’estate abbacinati di sole liquido, trapunti dal clic delle cesoie di Riccardo tra i bossi, dal fresco zampettio dei cani sulla ghiaia, dal tubare dorato delle tortorelle sul cedro, una voce che mi chiamasse da una porta-finestra aperta improvvisamente mi faceva trasalire…», La noce d’oro, in Campo 1998, p. 226).
Alla stagione bolognese segue, nella giovinezza della scrittrice, un’altrettanto appartata stagione fiorentina, che coincide con lo sviluppo e l’approfondimento filosofico dei temi della fiaba sotto la guida spirituale e intellettuale di Simone Weil («La fiaba… si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli» (Campo 1987, p. 223).
 

Lo “spirito di geometria” insieme altero e soave delle architetture fiorentine, fatto di severe asciuttezze e di nobili proporzioni, e particolarmente manifesto in ville e giardini della città e dei suoi dintorni, le si offre come cifra di stile, nonché come sinonimo di quel concetto di sprezzatura che, appreso dalla letteratura rinascimentale, ella va perseguendo nell’arte dello scrivere. Di qui quel saggio, Ville fiorentine, col quale il 16 giugno del 1966 recensisce, sul «Giornale d’Italia» (numerose sono, fin dagli anni Cinquanta, le sue collaborazioni a riviste e quotidiani, e per contro parche le sue pubblicazioni in volume), il volume di Giulio Lensi Orlandi Cardini, Ville di Firenze, allora fresco di stampa. «Quest’arte del minus dicere» scrive , «del dissimularsi, dello stornare la curiosità, è un’arte tipicamente aristocratica e indicibilmente fiorentina; ed è una delle eredità che la città ha serbato dai propri grandi maestri» (Campo 1998, p. 124). Nelle «altere asciuttezze del palazzo rustico», che temperandole esaltano le «abbaglianti cerimonie» dei Medici, ella intravede la chiave dell’eleganza tanto del nucleo urbano di Firenze, «stretta, orgogliosa città» composta di «palazzi matematici», quanto delle sue ville di campagna: «Campagna che era un proseguire dei parchi, parchi che erano un proseguire della grande casa, in quelle ‘musicali proporzioni’ che sono il contrario dell’irreale, e perciò più vicine alla fiaba (…) Ville del Decamerone, delle Stanze del Poliziano, dell’Ambra di Lorenzo il Magnifico: corse da un fiume, vigilate da una sorgente, da un gruppo di cipressi, colme di geni locali» (ivi, p. 125).
Mentre nitidamente emerge, nella descrizione, il principio-guida (che Edith Wharton avrebbe approvato) della continuità fra casa, giardino e paesaggio circostante, altrettanto evidente risulta come l’elemento fiabesco, tenace tramite per una comprensione profonda del mondo, percorra sotterraneamente tutto il saggio, ponendosi come sua chiave di lettura assieme al canone della spezzatura. E mentre la Campo immagina gli antichi poeti e principi aggirarsi «per i cortili circondati da un portico di meravigliosa snellezza, con al centro un rorido, atavico pozzo; per i giardini murati, ‘piccoli, armonici, geometricamente precisi come patii orientali’, colmi di conche di limoni; per le luminose logge ai primi piani; per i labirinti di bosso» (ivi, pp. 125-126), si avvia a concludere nella più squisita e ispirata tonalità di fiaba: «E’ dunque per noi, leggere questo libro smagliante, ritrovare in filigrana la storia vera di una leggenda, la precisa situazione, in termini di arte architettonica, dei verdi paradisi dove una città riuscì (…) a difendere una sua incomparabile arte del vivere. I nomi, freschi come zampilli e illustri di antiche letture, fanno trasalire: Fontallerta, la Fonte dei Tre Visi, Palagio dei Pesci (…) Nomi che, come la madeleine della tazza fatata di Proust, liberano ancora nel tempo il nome puro d’Europa e la memoria di un rapporto tra gli uomini, i proprietari di villa, i vicini di villa, i vivi e i morti vissuti nella stessa villa, che solo in quel paesaggio, e in alcuni momenti fragilissimi e perenni, fu possibile e benedetto dal cielo» (ivi, pp. 127-128).
Negli anni Sessanta la Campo si trasferisce a Roma dove rimane fino alla morte, che sopraggiunge improvvisa a concludere anzitempo la nuova stagione della sua poesia e della sua scrittura: una stagione che potrebbe definirsi mistica, tanto diviene assoluto in lei il desiderio che ogni cosa – un oggetto, un paesaggio, un testo – trovi una forma compiuta, uno stile emanante splendore, un’eleganza imperiosa come una necessità. Poesia e preghiera, lavoro e devozione, concentrazione estetica e spirituale divengono per lei tutt’uno, mentre l’adesione al culto delle chiese orientali sigilla il passaggio da una concezione profana della bellezza a una bellezza intesa senz’altro come attributo divino. E mentre l’idea di giardino, consegnata anch’essa all’ordine dei “sensi soprannaturali” che tutto esige, si sovrappone in una specularità senza resti all’idea del Paradiso.


Bibliografia


1. Passo d’addio, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1956
2. Fiaba e mistero, Firenze, Vallecchi, 1962
3. Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971
4.Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987 (dove sono raccolti, assieme ad altri, i saggi già compresi in 2. e 3.)
5.Lettere a un amico lontano, Milano, Scheiwiller, 1989 (nuova edizione aggiornata ivi 1999)
6.La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991 (dove compaiono, assieme ad altre poesie e traduzioni, i testi poetici di 1.)
7.Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998
8.“L’infinito nel finito”. Lettere a Piero Pòlito, Pistoia, Via del Vento Edizioni, 1998
9.Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999
10.Il fiore è il nostro segno (carteggio con William Carlos Williams e Vanni Scheiwiller con traduzioni dal poeta americano), Milano, Scheiwiller, 2001

Per una bibliografia degli scritti di Cristina Campo aggiornata al 1998 cfr. 7.

 

Da: http://www.tufani.it/html/critica3.htm


 

 

 

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