"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
La musica della grazia interiore: Cristina Campo
(Antonio Castronuovo)
Rubò il tempo delle sue prime letture all’ombra di San Michele in Bosco.
Era nata a Bologna nel 1923 con un altro nome, quello familiare destinato a
sparire in chi usa la vita anche per nascondersi. Presto apprese ad ascoltare i
battiti incerti del suo cuore. Trascorse la giovinezza a Firenze e fu poi a
Roma, dove alla fine degli anni Cinquanta conobbe Elémire Zolla,
di poco più giovane, e visse con lui la rivelazione di un sentimento maturo. Non ebbe mai tregua dall’assillo di un cuore che smetteva di pulsare,
eppure sviluppò al massimo grado la forza incomparabile della voce femminile,
«sempre nuova nella sua freschezza, sempre identica nella sua passione». Si fece
donna occulta prendendo i voti di quella “provenza cortese” che ha per paladine
Caterina da Siena,
Teresa d’Avila,
Gaspara Stampae Inés de la Cruz, e che anche si prolunga
nell’epoca della dispersione, istillandosi nelle anime solitarie di Emily
Dickinson,
Simone Weil,
Marina Cvetaeva,
Christina Rossetti, Katherine
Mansfield:
donne che hanno quotidianamente commerciato col dolore e ne hanno ricevuto una
grazia. La malattia fu certo una causa della forma, trasparente ma arcana, dello
stile di Cristina Campo, del suo
stesso vivere. Scorrendo un vangelo gnostico, quello di Filippo,
si fermò su questa frase: «La verità non può venire al mondo nuda anzi è venuta
nei simboli e nelle figure. C’è una rinascita, e c’è una rinascita in figure. In
verità essi dovranno rinascere in grazia della figura». La incastonò ad epigrafe
del saggio Attenzione e poesia affinché
lettori sapienti ne scorgessero i segni di un’estetica. Filippo afferma – con la grande semplicità delle
anime profonde – che se la verità fosse nuda l’occhio dell’uomo ne sarebbe
attratto come da corpo nudo, in modo spontaneo e immediato, e così diventerebbe
mercato di tutte le anime: cosa nuda in anime nude. La verità invece si trova
nelle figure e nei simboli, nascosta all’aperto, celata nell’evidente. Essa «è
sempre un po’ più grande del vero» e parla per iperboli esatte, come
quella che fa dire a Edipo«portate via il mio cadavere». Per essere raccolta, la verità “un po’ più grande del vero” reclama
attenzione, l’arte di cercare in modo vigile anche nell’ozio, l’arte di trovarsi
in una “società discreta” più che “segreta”. Perché la discrezione coglie meglio
il nucleo delle cose rispetto alla segretezza. L’attenzione si diffonde attorno,
come l’onda montante della marea, e porta un ordine: fa capire la figura
guardata, ne fa cogliere il senso. Va ringraziato chi la applica alla tua
persona, alla tua opera. «Grazie ancora per la sua attenzione: lei sa che cosa
significa questa parola per me. Equivale, come minimo, ad amicizia», scrive in
una lettera Cristina a chi, da quel momento, è diventato amico.
Fu colta dalla mistica della perfezione, che toccò nel misurato rigore formale
della scrittura. Sviluppò uno stile affascinante e prezioso come uno smeraldo:
l’arma con cui Cristina punse tutto ciò che sonnecchia. Le sue pagine sono di
sconcertante bellezza, tali da farsi dogmatiche, contenitori di materia
inoppugnabile.
Ebbe bisogno di disciplinare al massimo grado le letture, l’invenzione,
l’afflusso delle idee. Si trovò a dover applicare tutto questo nel bel mezzo di
un mondo orribilmente semplificato, peggio: nel mondo la cui gioventù è spoglia
dello «scintillante mantello di Ariele»,
guidata da un cristianesimo parziale e tetro, senza nulla di lieto, di
graziosamente mondano, di affabile e verecondo. Una gioventù inchiodata alla
croce della jattanza, da cui pende una carità cupa e figée, che «farebbe
fuggire i cherubini coprendosi i molti occhi con le molte ali». Tutto ciò non ha alcuna affinità con la sprezzatura, al culmine della
quale si pose Cristina, giungendo a scriverne in un saggio celebre, Con lievi
mani. Ma non si trattava di farsi
sprezzante per contrastare la musoneria e le cattive maniere, quanto per
rivelarne la difformità dai fini originari. Cristo, ad esempio. La sua
sprezzatura se ne fugge tra i mille rivoli della predicazione, eppure è
«qualcosa che incontriamo ad ogni pagina dei Vangeli». Qui la capacità di leggere di Cristina si fa a tal punto aguzza da
cogliere nei Vangeli una sfumatura sulle labbra del Redentore, una lieve piega
del sopracciglio senza la quale sarebbe impossibile penetrare il senso di certe
apostrofi. Gli esempi sono tanti, fino a quell’acume di sprezzatura, di assoluto
oblio di sé, che fa dire a Cristo, in Matteo5.41, «se uno ti angaria per un miglio, tu
vai con lui per due», e a quell’altra esclamazione di natura estetica che sempre
in Matteo(6.16-18) fa scoprire a Cristo l’ipocrisia
della macerazione che dà spettacolo di sé, e lo induce ad ammonire: «Ma tu,
quando digiuni, ungiti i capelli e lavati la faccia, così da non apparire agli
uomini col volto del digiunante, ma al padre tuo che è nel segreto». Qui c’è un Cristo ignoto, col quale non è stato concesso alcun contatto;
c’è il tono ineffabile del primato, la supremazia dell’ironico, il naturale
rigetto di quel che è ipocrita, deteriore, mezzano. Caratteri che sembrano
aboliti nella lettura guidata del Canone, quando si espungono parti offerte alla
predica piagnucolante, o in altre occasioni di scadimento...
È uno degli esempi che si possono portare come prova della carneficina dei
contesti. La sprezzatura altro non è che un ritmo morale, che per continuare a
battere necessita proprio di quel contesto perduto: se lo si cerca e lo si
intravede, esso diventa «la musica di una grazia interiore, il tempo nel quale
si manifesta la compiuta libertà di un destino». Una qualità legata allo stile,
ma anche al rischio, all’audacia, all’ironia, tanto che di questo dono mancherà
«chi non abbia mai avuto sopra di sé un sovrano – o sotto di sé un popolo –
capace, per un salto d’umore, di fargli saltar la testa dal collo». Con lievi maniè un vertice della saggistica
novecentesca, cammino sospeso tra meditazione e figure, tra racconto e purezza
dell’astratto, esempio insuperato di equilibrio tra chi scrive e ciò di cui sta
scrivendo, e forse per questo favorevole all’indugio, come nella pausa sui
canoni della cortesia provenzale – joy, largüeza, proeza – di cui godette
la gioventù di Francesco d’Assisi. Vertice, ancora, perché riempie lo spazio
cavo che l’incipit di un saggio determina con le sue prime righe, qui
rappresentato da versi che si accendono di luce e indicano il cammino da
compiere: «Con lieve cuore, con lievi mani / la vita prendere, la vita
lasciare...». E se l’incedere saggistico, la trama intessuta di figure e parole non è
sufficiente a dispiegarne il senso, c’è un ritratto fotografico di Cristina che
di colpo chiarifica ogni cosa. Una fascia bianca le tiene fermi i capelli, il
sorriso delle labbra è poco meno che sardonico, ma quanto basta a rendergli un
significato completamente diverso. Gli occhi esprimono una dolcezza ferma, come
controllassero l’intera realtà e da loro si alzasse una pietà speciale, perché
indifferente e altera. Occhi in cui c’è la sprezzatura così come definita da
Cristina medesima: la briosa impenetrabilità all’altrui bassezza e violenza, una
costante disposizione a rinunciare a questo mondo, la capacità di volare
incontro alla critica con impeto sorridente.
La morte le concesse un ultimo desiderio. Raccolse i tre petali – attenzione,
perfezione, sprezzatura – e ne fece un infuso con cui sfiorare la radice del
collo, subito sotto la piega della mandibola, o lo zigomo che prolunga a tutta
la guancia il significato espresso dagli occhi. Il profumo che si eleva è la
pienezza sovrabbondante, la rara condizione che si chiama compiutezza.
La scrittura fu elemento della sua fisiologia, per la quale confessò: «Se
qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io
non voglio separarmi da loro». Ha lasciato versi di una profondità quieta – e
inquieta a un tempo. Scrisse poco. Invece di tracciare un profondo segno nel
mondo, Cristina ebbe il destino di essere lei stessa un segno, una rivelazione
di quel che è nascosto e che, seppur rivelato, lo resta.
Morì nel 1977, per una crisi cardiaca poco più violenta di quelle che l’avevano
visitata ogni giorno per cinquant’anni. A volte resuscita, si incarna per un’ora
e si concede all’ascolto: la musica si avvolge in lunghi quilismi sul
tetragramma gregoriano della sua pagina.
Da: Antonio Castronuovo,
Ombre del Novecento, Imola, Editrice La Mandragora, 2002.