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Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è la verità. Se ci si allontana da lui per andare verso la verità, non si farà molta strada senza cadere fra le sue braccia [1]. Abbozzare un quadro della breve esistenza di Simone Weil permette di comprendere meglio anche come si declina il suo rapporto con il Cristo. Simone nasce a Parigi il 3 febbraio 1909 da genitori ebrei, di cui padre ateo. In questo periodo c’è un risveglio dello spiritualismo, corrente filosofica che rivendica i “diritti del cuore” e si muove in opposta direzione rispetto al positivismo. Lo straordinario successo di questo nuovo orientamento culturale fa sì che esso divenga la filosofia egemone in ambiente universitario. Gabriel Marcel (1889-1973) ne è un esponente, ed inaugura un filone di marca esistenzialista e religiosa, contando tra le sue allieve più brillanti proprio Simone. Accanto alla filosofia spiritualista sono vive altre correnti filosofiche: l’hegelismo, che non suscita in lei un interesse sostanziale, ed il marxismo, che invece ha per lei un ruolo rilevante, anche se solo momentaneo. Nel 1919 Simone intraprende studi regolari a Parigi ed inizia a conoscere la letteratura religiosa, fino ad allora ignorata, e i Pensieri di Pascal. Nel frattempo si appassiona sempre più alla politica e sposa in un primo momento le idee rivoluzionarie del partito comunista. Negli anni seguenti matura la sua vocazione filosofica, aderendo all’impostazione del professore di filosofia Alain, che sul ruolo della coscienza morale, nella forma di un razionalismo etico quasi di stampo socratico, incentra tutta la sua riflessione. Il filosofo è convinto della priorità dell’agire morale rispetto ad ogni forma di pensiero teoretico: la Weil ha probabilmente tratto da questa convinzione il senso del suo impegno politico. Dal 1928 al 1930 frequenta la Normale e nel 1931 inizia l’insegnamento, ottenendo la cattedra di filosofia al liceo femminile di Le Puy, dove conduce una vita estremamente spartana e non sembra curarsi della sua salute cagionevole. In lei prevale l’impegno a favore dei più deboli e degli oppressi, l’interesse politico e sindacale che si concretizza in scritti teorici ed azioni di sostegno a scioperi e lotte operaie. Progressivamente, però, attraverso un’opera di disillusione giunge a considerare la rivoluzione il vero “oppio dei popoli”. Nel 1932 la visita di una miniera e la vista delle condizioni di lavoro difficili dei minatori la colpiscono fortemente. In seguito, mentre è in Germania, sboccia in lei la rottura definitiva con il Partito Comunista: comprende allora che i partiti politici difendono gli interessi dei loro vertici in ultima e principale istanza. Per loro null’altro conta. Frattanto, nelle lezioni che tiene al liceo, declina l’idea di Dio nel senso alainiano di un’idea-guida dell’azione in direzione del perfezionamento interiore. Nei primi mesi del 1933 si dedica a soccorrere personalmente gli emigrati politici tedeschi riparati in Francia. Solo la morte, secondo la filosofa, offre una via d’uscita all’insensatezza del nostro essere. Durante le vacanze natalizie del 1933 incontra Trotzkij e l’incontro si conclude con uno scambio di accuse. La “rivoluzione vera” in senso alainiano, che ha cioè come centro la propria interiorità cosciente dei valori etici iscritti nell’essere individuale, comincia ora a delinearsi per la filosofa secondo modalità sempre più marcatamente religiose. Nel periodo 1934-35 lavora come operaia a Parigi in mezzo a gravissime sofferenze fisiche, facendo diretta esperienza della condizione operaia, che finisce col giudicare simile alla schiavitù antica: le prepotenze, la fatica eccessiva, il rumore assordante la gettano in una desolazione profonda. Per Simone, il cristianesimo è prima di tutto ancora una guida morale della coscienza per la solidarietà nei confronti degli oppressi. Allo scoppio della guerra civile spagnola, entra a far parte di un gruppo internazionale di combattenti, in Catalogna. Il breve soggiorno le mostra che anche in questa desolante circostanza la violenza, il cinismo, la crudeltà fungono da sfondo all’azione degli uomini. E con questa realistica descrizione la filosofa si avvia sempre più sulla strada della ricerca di una dimensione trascendentale dell’etica e della vita. Nel 1937 compie il suo primo viaggio in Italia, di importanza determinante nel suo itinerario di ricerca religiosa, e riprende l’insegnamento, ma è torturata da un mal di testa che non riuscirà mai più a debellare. Nella Pasqua del 1938 è a Solesmes, la celebre abbazia benedettina nota per il rinnovamento del canto gregoriano, e segue tutta la liturgia della Settimana Santa. Durante questo periodo, il pensiero della Passione del Cristo entrò in lei una volta per tutte [2]. L’esperienza musicale, infatti, le permette per analogia, di comprendere meglio la possibilità di amare l’amore divino tramite la sventura [3]. Il Cristo ha ormai per lei il valore emblematico di un segno dell’inafferrabile trascendenza divina, la lezione di Alain sta evidentemente sempre più sfumando. Nell’autunno si produce in lei un evento interiore, inatteso, una specie di “conversione”, o, meglio, discesa del Cristo nella sua anima. Nel contempo la situazione europea precipita rapidamente: dopo gli accordi di Monaco, Hitler occupa Praga e nel settembre 1939 si giunge alla guerra. D’un colpo Simone vede bene le illusioni e le menzogne del pacifismo, cui pure era stata incline. In proposito scrive che nel pacifismo è insita una precisa inclinazione al tradimento, che lei stessa non aveva capito. Rinuncia ad entrare nella Chiesa perché le sue radici affondano nel mondo al di fuori della Chiesa, e dunque vuole essere cristiana dal di fuori, sulla soglia, in attesa. Nel giugno 1940 la famiglia Weil si rifugia a Marsiglia e qui Simone inizia a studiare il sanscrito, conosce il domenicano Padre Jean-Marie Perrin ed il filosofo cattolico Gustave Thibon. Studia la storia delle religioni, le Upanishad, il Tao te ching di Lao-Tse, e il suo orizzonte filosofico si disegna compiutamente. Nella Pasqua del 1942 segue la Settimana Santa all’abbazia benedettina di En Calcat, dove discute ancora del suo eventuale battesimo, questa volta col padre Clément Jacob. Nel maggio 1942 i Weil si rifugiano negli Stati Uniti e prima di partire Simone scrive a padre Perrin per chiarire i motivi per cui ha deciso di restare fuori dalla Chiesa cattolica. A New York Simone riesamina la possibilità di essere battezzata, ma soprattutto si mette in contatto con esponenti della Resistenza francese per prendervi parte attivamente. Si imbarca poi per l’Inghilterra. Nei primi del 1943 si impegna nella ricerca di consensi intorno all’idea del corpo di infermiere di prima linea. La sua salute però peggiora e le viene diagnosticata una grave forma di tubercolosi. Lei non vuole collaborare e non si nutre a dovere, non vuol mangiare più di quanto pensa sia la razione della Francia occupata e si lascia morire per condividere fino in fondo la forte di quegli oppressi che le stavano tanto a cuore. Muore il 24 agosto. [1] Weil S., Lettera a Padre Perrin del 15 maggio 1942. [2] Cfr. la lettera inviata a Padre Perrin da Marsiglia, datata 15 maggio 1942. [3] Weil S., Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 41-42.
La vicenda spirituale di Simone è quella di un’autodidatta e passa attraverso la filosofia innanzitutto: è solo studiando i grandi filosofi che Simone è costretta a fare i conti con il problema cristiano. Perciò, da un lato si avvicina al cristianesimo priva di qualsiasi nozione teologica, dall’altro con la consapevolezza che le deriva dalla sua peculiare libertà di giudizio ed onestà intellettuale, unite allo straordinario rilievo che ebbe la sua passione politica [1]: Ho avuto all’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi ed io con loro [2]. Potente fu l’influsso che Simone ricevette dalla bellezza della liturgia. Riferendosi al viaggio in Italia della primavera del 1937, scrive: mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli [ad Assisi] […] qualcosa di più forte di me mi ha obbligato, per la prima volta nella mia vita, ad inginocchiarmi [3] Sempre seguendo la sua testimonianza, Cristo si impadronì di lei mentre stava recitando la poesia Love di Herbert. Simone aveva sentito parlare di cose simili, ma non vi aveva mai creduto, inoltre non conosceva la letteratura mistica, e neppure il nome di Dio le diceva qualcosa. Ma in un momento di intenso dolore fisico, sforzandosi di amare senza però riuscire a dare un nome a questo amore, sentì una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, l’improvvisa irruzione dell’Assoluto. Da notare che ciò avviene in un momento di dolore fisico: il Cristo si manifesta in quanto Christus patiens, un Cristo che nella passione viene incontro e corrisponde alla sofferenza dell’uomo [4]. [1] Cfr. Vannini M., Simone Weil: l’amore implicito di Cristo, in: Zucal S. (ed), Cristo nella filosofia contemporanea, II. Il Novecento, San Paolo ed. Cinisello Balsamo (Milano) 2002, p. 951. [2] Weil S., Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 29. [ 3] Ibidem.
[4] Cfr. Vannini M., cit., pp. 953-954. La maggioranza dei lavori della filosofa, trattandosi solitamente di appunti, si sono facilmente prestati ad un’organizzazione diversificata ed hanno conosciuto un’edizione solo postuma. Nel 1947 usciva la prima raccolta parziale dei quaderni marsigliesi a cura di Gustave Thibon, sotto il titolo La pesanteur et la grâce, poi Padre Perrin nel 1949 pubblica la raccolta Attente de Dieu. Dal 1951 uscivano i Cahiers americani e londinesi e dal 1988 l’opera completa di Weil. In questa sede mi concentrerò su alcune opere in particolare che riguardano più da vicino il tema che stiamo indagando, e cioè Attesa di Dio, L’Amore di Dio e L’ombra e la grazia, ma accennerò in breve anche ad altre opere per meglio inquadrare la filosofa nel quadro della sua riflessione. Nell’opera giovanile Scienza e percezione in Cartesio, la filosofa intende mostrare che la scienza è un mero prolungamento dell’esperienza, e dunque una dimensione teorica della percezione. Ciò che le preme è l’esigenza di cogliere il legame tra percezione, scienza e lavoro. Ella rifiuta l’argomento cartesiano del cogito, perché ciò che noi crediamo costituire la nostra identità personale non è che un insieme di vissuti psicologici. Inoltre è difficile parlare della realtà in termini oggettivi, perché si mescola continuamente con i nostri atti percettivi e per questo motivo non riusciamo a coglierla come esterna a noi: è il nostro corpo che ci dà una mappa del mondo attorno a noi. E la nostra immaginazione è fallace. Dunque rischieremmo di perdere la nostra identità se il lavoro non si ponesse come mediazione necessaria tra noi e il mondo. Non solo, ma il lavoro si pone anche come fondamento della morale. In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la cui redazione risale al 1934, si ritrova il problema della libertà e dei limiti che accompagnano ogni tentativo di sottrarsi ai condizionamenti della natura e della società. La rivoluzione marxista è l’applicazione negativa di un’idea di libertà astratta che trascura il ruolo delle costrizioni necessarie che derivano dall’ambiente naturale, dai rapporti umani, dal lavoro. L’opposizione servitù-libertà sono i poli ideali in mezzo ai quali si dibatte l’uomo che, come un pendolo, oscilla tra i due sotto la spinta del caso, il quale non si dispiega liberamente nella storia. Da una parte quest’ultimo spinge il divenire sociale verso l’incoerenza, dall’altra volontà e condizioni di esistenza lo spingono verso forme dotate di regole determinate. L’oppressione ne è l’esito. E diventa anche una categoria esistenziale dell’uomo, un suo modo di trovarsi nel tempo della storia. In L’Iliade ovvero il poema della forza, che probabilmente risale al 1939, si fa strada l’idea che l’azione libera sia una pura illusione e che il credere in questa fallacia sia fonte di violenze e conflitti. Si delinea poi la convinzione che solo vivendo la miseria umana e l’amore per gli oppressi sia possibile accettare la necessità della nostra esistenza, che assume i connotati della forza. Lo stato ontologico dell’uomo oscilla tra la morte biologica e la soggezione alla necessità cosmica e l’unica possibilità reale di giustizia e morte è la sventura. Chi vive la sventura riesce a cogliere il senso negativo della storia umana, cioè la necessaria subordinazione dell’uomo alla forza. La sventura diventa uno status ontologico umano, ma offre all’uomo la via per raggiungere e scorgere la verità. Attraverso la sventura radicale, nell’uomo nasce un sentimento di amore per gli altri uomini e di giustizia che altrimenti rimarrebbe solo allo stato latente. Ma è indispensabile che la sventura venga accettata consapevolmente, perché proprio dalla consapevolezza della mancanza di libertà e di un destino negativo ogni soggetto umano trae il senso della propria vita e progetta cioè la propria morte nella propria vita per accedere alla verità. Lungo questo percorso interpretativo la Weil si avvia sempre di più verso un orizzonte filosofico. Con il titolo Intuizioni precristiane, padre Joseph-Marie Perrin ha raccolto alcuni scritti della Weil che vanno dal 1939 al 1942. In essi le tematiche che abbiamo già visto si colorano marcatamente di una sfumatura religiosa. La tesi di fondo è che si dà un unico asse di continuità spirituale dall’Egitto preistorico fino al cristianesimo, che si configura non come una religione “chiusa”, ma aperta a nuove forme di lettura. Ed il pensiero platonico, pitagorico, eracliteo diventano la lente attraverso cui esso viene reinterpretato. La prima sezione porta il titolo: “Ricerca dell’uomo da parte di Dio”, poiché la filosofa comincia la sua analisi dicendo che nel Vangelo non v’è alcun luogo nel quale sia l’uomo a cercare Dio, ma è sempre Cristo a cercare gli uomini, dato che la realtà divina sfugge sempre alla comprensione del credente. Dio si specchia nel mondo e gioca all’uomo il tranello della bellezza mondana, in cui l’anima umana cade senza accorgersene [1], irretita, non potendo più esimersi al desiderio di trascendenza che gli suscita. Inoltre, secondo la filosofa, il Dio rappresentato dalla letteratura e filosofia antica non può che essere sempre lo stesso Dio, colto sotto cornici diversificate. Ora il concetto di “forza”, pesanteur, è colto in un’accezione ancora diversa e diventa una sorta di attrazione verso il basso che ostacola il desiderio verso Dio, e perciò è necessario trovare una zona vergine dove non operi la forza, per sollecitare una tendenza contraria che, una volta attivata, metta l’uomo in equilibrio, in grado cioè di decidere del senso della propria esistenza. L’unico antidoto alla pesanteur, l’unica zona non toccata che essa non può e non riesce a raggiungere, è la zona dove vive l’amore, inteso come relazione compassionevole verso tutti coloro che soggiacciono al vincolo della forza. Ed in questa prospettiva, la Weil rilegge Platone in chiave originale, perché ritrova in lui l’idea dell’amore come dote etica innata grazie alla quale l’uomo può raggiungere Dio non in virtù di una presunta somiglianza, perché tra essi esiste una differenza ontologica che non può essere colmata in alcun modo, ma attraverso la figura del Cristo, mediatore indispensabile e modello etico tra Dio e l’uomo: da una parte possiede i caratteri indispensabili dell’uomo, e dall’altra le proprietà fondamentali di Dio, in un’analogia con il concetto di “media proporzionale”, preso a prestito dai pitagorici, il cui significato allora diventa il seguente: il rapporto che c’è tra Cristo e il Padre è lo stesso di quello che intercorre tra Cristo e l’uomo, sebbene questa identità di rapporti non sia letteralmente possibile. Ma, imitando il Cristo, il soggetto opera una sintesi tra condizione umana e vocazione alla trascendenza. In questi termini Dio diventa al tempo stesso personale e impersonale: l’impersonalità riferita al Padre, la personalità al Figlio. Pertanto, perché l’uomo possa comprendere il significato del divino, deve liberarsi della propria modalità di vedere il mondo, negando il proprio io e ponendo Cristo a principio del proprio agire morale, rinunciando cioè a far di sé il metro del proprio agire. La Weil, non a caso, fa poi riferimento alla nozione di “notte oscura” di San Giovanni della Croce, condizione estatica di abbandono della realtà e di proiezione nella dimensione partecipativa di Dio. Essere liberi equivale ad acconsentire alla necessità, poiché in essa si manifesta la mediazione di Dio. Sembra un’evidente contraddizione, ma per Weil “scegliere” viene a significare una negazione della scelta stessa, a favore di una necessità che priva l’uomo di ogni decisione autonoma. L’adeguarci alla necessità ci appare assurdo quando dietro di essa scorgiamo la grazia, che non a tutti è dato di ricevere [2]. Per questo motivo è necessario lasciar fare a Dio. [1] Cfr. Zani M., Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994, pp. 77-78.
[2] Cfr. Zani M., cit., p.90. La prima opera che prendiamo in considerazione raccoglie testi weiliani redatti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 e curati da padre Joseph-Marie Perrin, anche destinatario di una serie di lettere personali, incluse nella prima parte, in cui Simone vuole spiegare le ragioni della distanza che la separa dal cattolicesimo. Per Simone il rapporto con Cristo è diretto ed esclude la mediazione ecclesiastica. A partire dal Genesi, la Weil rifiuta il concetto di creazione. Il testo-chiave è per lei il Prologo di Giovanni: il Logos, che era in principio, si è fatto carne, ha posto la sua dimora tra gli uomini, ovvero nel dolore. Nessun ruolo privilegiato spetta alla storia biblica. In particolar modo, si avverte la contraddizione tra una comunità fondata su un dogma e l’universalità richiesta dalla ragione e dall’amore per la verità. Dio parla nel silenzio, nel segreto, all’anima singola, non alle comunità, secondo Weil. Proprio per questo motivo Simone rifiutò quel battesimo e quell’inserimento nella Chiesa che, pure, le veniva sostanzialmente offerto o concesso. Voleva vivere fino in fondo la prospettiva universalistica che il cristianesimo vero propone, non accettando la parzialità di un tipo di visione, ma cogliere la verità presente in tutte le culture, attribuendo alle Scritture un valore relativo. Weil costruisce la propria fede sul desiderio della verità [1] e rifiuta il battesimo perché così facendo abbandonerebbe i suoi sentimenti riguardo alle religioni non cristiane e ad Israele. Un tratto che accomuna la Weil a Nietzsche è l’interpretazione della storia dell’Occidente come scontro epocale tra la grecità e il giudaismo, la prima connotata positivamente, il secondo no. A differenza del filosofo tedesco, però, la Weil interpreta la romanità negativamente, ponendola tutta quanta sul versante giudaico. Israele e Roma sono infatti per lei le potenze, culturali prima che politico-militari, che incarnano l’adorazione della forza. Il Dio di Israele è un Dio della potenza, è il Dio della forza. La Weil legge nella Bibbia l’esaltazione della forza, ovvero del demonio [2], che non ha nulla a che fare con Cristo. Se di “popolo eletto” si deve parlare, allora si tratta di un popolo eletto per l’accecamento, eletto per essere il boia di Cristo, eletto per far valere la violenza della propria forza assoggettante. Avendo rifiutato il Dio-giustizia degli egiziani, gli ebrei ebbero il Dio di cui si erano dimostrati degni: un Dio carnale e collettivo, e la maledizione di Israele pesa anche sulla cristianità. Al contrario, dalla grecità viene quanto di puro si trovi nel cristianesimo: il senso della miseria umana, la non adorazione della forza, la concezione di Dio buono e misericordioso. In altre parole, dalla Grecia viene la mistica, il rapporto profondo tra Dio e l’anima del singolo, mentre da Israele, attraverso Roma e poi la Chiesa romana che ne ha preso l’eredità, viene il cristianesimo inteso come “idolatria sociale”, quello dell’ “extra ecclesia nulla salus” [3]. In parallelo con Nietzsche, la Weil vede in Israele il reale responsabile dell’alienazione della nostra civiltà, che pone al centro l’utilitarismo, la forza, al posto della nobiltà di spirito, della generosità e del distacco. Israele, dunque, è il corruttore supremo del cristianesimo che, per essere compreso davvero nei suoi più veri ed intimi caratteri, deve necessariamente essere ricondotte alla “fonte greca”. A sua volta, la grecità viene vista dalla Weil come sintetizzatrice delle tradizioni religiose di tutto il mondo mediterraneo. In questo senso, Simone è incline a vedere “figure” di Cristo anche in altre religioni e tradizioni, poiché a suo avviso il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezioni, essendo “cattolico”, termine che nella sua accezione greca designa il concetto di “universale”: Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza […]. Dal momento che il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto, considero legittimo da parte mia essere membro della Chiesa di diritto e non di fatto, all’occorrenza per tutta la vita e non soltanto per un periodo. [4] Ma è nella sfera del “qui ed ora” che sussistono le condizioni favorevoli alla venuta di Dio nell’anima, e tra esse il malheur è la più promettente. Il termine si può tradurre con “sventura” ed è una condizione che investe tutta la storia umana e, come l’oppressione, contiene qualcosa di misterioso e di inesplicabile, che è tuttavia anche lo stato attraverso il quale si manifesta la misericordia di Dio: La misericordia di Dio si manifesta nella sventura quanto nella gioia, a pari titolo, e forse anche di più, giacché in questa forma non ha equivalente umano. La misericordia dell’uomo appare soltanto nel dono della gioia, oppure allorché si infligge un dolore in vista di effetti esteriori, guarigione del corpo o educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della sventura che testimoniano la misericordia divina. Nel caso di una vera sventura gli effetti esteriori sono quasi sempre cattivi. Quando li si vuole dissimulare si mente. La misericordia di Dio risplende invece nella sventura stessa. E proprio nel fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce con il toccare qualcosa che non è più la sventura né è la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso di Dio. [5] Il dubbio appare però quando la sventura colpisce gli altri… In una sola circostanza non so davvero più niente di questa certezza: quando vengo a contatto con la sventura altrui. Anche, e forse a maggior ragione, se si tratta della sventura di coloro che mi sono indifferenti o sconosciuti, compresi quelli dei secoli più remoti. Questo contatto mi procura un male così atroce, strazia da parte a parte la mia anima a tal punto che per qualche tempo l’amore di Dio mi diventa quasi impossibile. [6] La differenza, dunque, tra oppressione e malheur consiste nel fatto che questa è mediatrice tra Dio e l’uomo. Purtroppo essa opera in modo paradossale e, tuttavia, apre a Dio: costituisce cioè “una forma di apprendistato della necessità e di preparazione all’obbedienza senza riserve che Dio richiede all’uomo” [7]. Ancora una volta, esempio lampante è la crocifissione, il cui dolore esprime l’impossibilità da parte dell’uomo di colmare questa distanza. Però, Se si va senza smettere di amare fino al fondo stesso della sventura, fino al punto di gridare: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si può rimanere in questo punto senza smettere di amare, vi si trova infine qualcosa che non è più il dolore né la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, non sensibile, della gioia e del dolore, ovvero il puro amore di Dio. [8] Per amore degli uomini, Cristo ha accettato di morire in croce, ed ora colui che sente il desiderio di Dio non ha altra strada che adottare l’esempio etico di Cristo e consentire alla necessità nella veste in cui si presenta, cioè quella della sventura. Di seguito la Weil dedica molte pagine a trattare i diversi tipi di amore, ognuno dei quali non è che una manifestazione dell’amore di Dio nel momento della creazione, un amore, dunque, “indiretto o implicito” [9], che ha solo tre oggetti: la bellezza del mondo, le cerimonie religiose e il prossimo. Per quanto riguarda quest’ultimo, si configura come un rapporto di solidarietà completa verso gli altri, soprattutto se sfortunati, perché ha il potere di restituire dignità a chi è stato annientato dalla sventura. E questa, in ogni caso, è un segno della generosità di Dio: Accade – benché assai di rado – che per pura generosità un uomo si astenga dal comandare là dove ne ha il potere. Quel che è possibile all’uomo è possibile a Dio. […] Lo spettacolo di questo mondo offre una prova ancora più sicura. Poiché quaggiù il bene puro non si trova da nessuna parte, o Dio non è onnipotente, o non è assolutamente buono, o non comanda ovunque ne avrebbe il potere. Pertanto l’esistenza del male in questo mondo, lungi dall’essere una prova contro la realtà di Dio, è ciò che ce la svela nella sua verità. [10] Attraverso lo slancio d’amore, l’uomo imita l’atto di amore di Dio nel momento della creazione: l’individuo deve lasciare una parte di sé, la propria soggettività, così come Dio ha rinunciato ad una parte di sé per dare origine al mondo: La Creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritrarsi, un atto di rinuncia. Dio insieme a tutte le creature è meno di Dio da solo. Egli ha accettato questa diminuzione. Ha svuotato di sé una parte dell’essere. Egli si è svuotato […] e attraverso l’atto creatore Egli ha negato se stesso, così come il Cristo ha prescritto a noi di negare se stessi. Dio si è negato in nostro favore per dare a noi la possibilità di negarci a nostra volta per Lui. [11] Ritroviamo qui un tema mistico: l’esigenza di negare se stessi per approssimarsi alla verità: Mediante questa negazione di sé si diventa capaci, sull’esempio di Dio, di affermare un altro essere con un’affermazione creatrice. Ci si offre come riscatto per l’altro. È un atto di redenzione. [12] E ancora: Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima. Un simile consenso è l’amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l’ordine del mondo, ovvero – che poi è la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo. [13] Solo l’uomo che si sottrae al proprio io può riuscire nell’intento di avere un contatto con Dio, visto che, in definitiva: Il contatto con Dio è l’unico sacramento. [14] Ed è ora che si può comprendere che la sventura non è un procedimento pedagogico di Dio: […] è Dio che attraversa l’universo e giunge fino a noi. […] Noi abbiamo la facoltà di acconsentire ad accoglierlo o rifiutare. Se restiamo sordi, Dio ritorna più volte […] Se acconsentiamo, Dio getta in noi un seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare – e noi anche – se non attendere. […] Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti per lasciare nella nostra anima un varco a quell’amore. In questo consiste la negazione di se stessi. Noi siamo creati unicamente per acconsentirvi [15] ma diventa … una meraviglia della tecnica divina. È un dispositivo semplice ed ingegnoso che riesce a infiggere nell’anima di una creatura finita quell’immensa forza cieca, bruta e fredda. La distanza infinita che separa Dio dalla creatura converge tutt’intera in un unico punto per trafiggere un’anima al suo centro. […] Chi perseveri nel mantenere orientata la propria anima verso Dio mentre un chiodo la trafigge si trova inchiodato sul centro stesso dell’universo. È il vero centro […] quel chiodo ha aperto un varco nella creazione bucando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio. Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima, senza lasciare il luogo e l’istante in cui si trova il corpo al quale è legata, può attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere al cospetto stesso di Dio. L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce [16] [1] Cfr. Sala Maria Concetta, Il promontorio dell’anima, p. XIII, in: Simone Weil, Attesa di Dio, cit. [2] Cfr. Vannini, cit., p. 957. [3] Cfr. Vannini, cit., p. 958. [4] Weil, Lettera IV, L’autobiografia spirituale, in Attesa di Dio, cit., p. 36. [5] Weil, Lettera VI, La fede implicita, in Attesa di Dio, cit., p. 49. [6] Weil, Ivi, p. 51. [7] Zani M., cit. p. 99. [8] Weil, Appendice alle lettere, in cit., p. 70. [9] Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in cit., p. 99. [10] Weil, Ivi, p. 106. [11] Weil, Ivi, pp. 106-107. [12] Weil, Ivi, p. 108. [13] Weil, Ivi, pp. 119-120. [14] Weil, Ivi, p. 169. [15] Weil, Ivi, pp. 186-187.
[16] Weil, Ivi, pp. 188-189. L'Amore di Dio. Con questo titolo sono raccolti una serie di testi (Appunti sull’Amore di Dio, Il cristianesimo e la vita dei campi, Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio, Israele e i Gentili) la cui redazione risale, si pensa, al periodo marsigliese. I temi della natura del bene e del male e dei loro rapporti risultano senz’altro al centro degli Appunti sull’Amore di Dio: Il male non è la sofferenza né il peccato; è l’una e l’altro insieme, è una realtà comune all’una e all’altro, poiché sofferenza e peccato sono strettamente collegati: il peccato fa soffrire e la sofferenza rende l’uomo cattivo. Questa unione indissolubile di sofferenza e di peccato costituisce il male, quel male in mezzo al quale dobbiamo vivere, nostro malgrado, provando orrore per il fatto che vi siamo invischiati. Proiettiamo parte del male che è in noi sulle cose che sono oggetto della nostra attenzione e del nostro desiderio. E queste rinfrangono quel male su di noi. [1] Bene e male sono su due livelli di realtà ontologicamente diversi. Ma possiamo trionfare sul male? Possiamo trionfare sul male solo quando nutriamo una specie di indifferenza nei confronti della nostra contaminazione, quando riusciamo ad essere felici al solo pensiero che esiste qualcosa di puro, senza ripiegarci su noi stessi. [2] L’uomo può liberarsi dal male attraverso il pentimento. Pentirsi infatti significa dirigere l’attenzione ad oggetti puri, poiché a contatto con la purezza il male si trasforma: La mescolanza indissolubile della sofferenza e del peccato non può essere distrutta che da questo contatto. Grazie ad esso la sofferenza cessa di accompagnarsi al peccato e il peccato si trasforma in semplice sofferenza. Questo processo soprannaturale è ciò che noi chiamiamo pentimento. Quando ci pentiamo illuminiamo con la nostra gioia il male che portiamo in noi. [3] L’unica cosa che può fare da contrappeso alla nostra tendenza al male è la grazia e noi non possiamo fare altro sforzo verso il bene se non quello di disporre la nostra anima a riceverla. Questo tema ricorre anche in Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio: Il male del mondo […] è un segno della nostra distanza da Dio. Ma questa distanza è amore e come tale dev’essere amata. Non dico che si debba amare il male. Ma bisogna amare Dio attraverso il male. Quando un bambino, giocando, rompe un oggetto prezioso, la madre non è contenta di questa distruzione. Se però in seguito il figlio va lontano o muore, la madre ripenserà a quell’incidente con una tenerezza infinita e vedrà in esso soltanto una manifestazione dell’esistenza del suo bambino. In tal modo noi dobbiamo amare Dio attraverso tutte le cose buone e cattive, indistintamente. Finché lo amiamo nelle cose buone, ci illudiamo soltanto di amarlo; in realtà amiamo qualcosa di terreno a cui diamo il nome di Dio. Non dobbiamo tentare di trasformare il male in bene, cercando dei compensi o delle giustificazioni al male. Dobbiamo amare Dio attraverso il male che c’è nel mondo, unicamente perché tutto quel che avviene è reale e dietro ogni realtà si trova Dio. [4] E allora bisogna attaccarsi a quella parte della nostra anima che vuole Dio perché Lui viene a noi quando lo fissiamo con lo sguardo. Ma non è che l’uomo debba cercare Dio, no. Deve solo rifiutarsi di amare tutto ciò che non è Lui, ed è allora che Dio verrà a lui. La fede, qui, dunque, non c’entra. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcuno, dato che non sappiamo ancora se c’è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. […] L’essenziale è sapere che si ha fame. Non è una credenza, questa: è una conoscenza assolutamente certa che non può essere oscurata che dalla menzogna. [5] In ogni caso, la distruzione del proprio io per lasciare spazio a Dio non richiede il canale della Chiesa cattolica (e questo è il tema del saggio successivo, Israele e i Gentili). Allo stesso modo, i sacramenti costituiscono solo un veicolo simbolico della grazia e non producono un contatto diretto con Dio. Nel saggio L’amore di Dio e l’infelicità (o meglio, sventura), la filosofa esprime l’idea che ciò che è sempre possibile amare è la possibilità dell’infelicità ed è proprio questa che rende possibile il processo che ci potrebbe inchiodare al centro della Croce: La Trinità e la croce sono i due poli del cristianesimo, le due verità essenziali: l’una gioia perfetta, l’altra perfetta infelicità […] La croce è la nostra patria. La conoscenza dell’infelicità è la chiave del cristianesimo. Ma questa conoscenza è impossibile. È impossibile conoscere l’infelicità senza averla attraversata. [6] E tutto passa attraverso di lei: L’adempimento dell’unico e doppio comandamento, “Ama Dio” e “Ama il tuo prossimo”, passa attraverso l’infelicità. […] Non si può dunque amare Dio se non fissando la croce. […] È innanzitutto l’infelicità che dobbiamo amare, l’infelicità dell’uomo, l’infelicità di Dio. […] Acconsentire all’esistenza dell’universo è la nostra funzione quaggiù. Dio non si accontenta di riconoscere buona la sua creazione. Egli vuole che essa stessa si riconosca come buona. […] E la funzione dell’infelicità è proprio quella di permetterci di pensare che la creazione di Dio è buona. […] L’infelicità è il segno più sicuro che Dio vuole essere amato da noi. […] Non bisogna pensare a Dio come essere […] Dio è amore e la natura è necessità, ma questa necessità diventa, grazie all’obbedienza, uno specchio dell’amore. […] L’infelicità racchiude la verità della nostra condizione. […] La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità è la croce di Cristo. […] Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nelle profondità della menzogna per sfuggire il viso dell’infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede. […] L’infelicità senza la croce è l’inferno, e Dio non ha posto l’inferno sulla terra. […] Nessuna attività può essere separata dalla croce di Cristo senza marcire interiormente o disseccarsi come un ramo tagliato. [7] C’è una domanda che non ha assolutamente senso fare e non avrà mai una risposta: questa domanda è “Perché le cose stanno così?”. Chi la pone è ingenuo: Chi è capace non solo di gridare ma anche di ascoltare, intende la risposta. Questa risposta è il silenzio. […] Cristo è il silenzio di Dio […] Non c’è un’armonia come il silenzio di Dio. […] Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore. E lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, poiché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio. […] La grande tentazione racchiusa nell’infelicità consiste nel fatto che l’infelice ha sempre la possibilità di soffrire di meno acconsentendo a diventare cattivo. Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo, solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. […] e se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio. [8] [1] Weil, Appunti sull’Amore di Dio, in L’amore di Dio, Borla, Torino 1968, p. 79. [2] Weil, Ivi, p. 80. [3] Weil, Ivi, p. 81. [4] Weil, Ivi, p. 105. [5] Weil, Ivi, p. 113. [6] Weil, Ivi, p. 189. [7] Weil, Ivi, pp. 197-203.
[8] Weil, Ivi, pp. 205-207. L’ombra e la grazia è una raccolta di pensieri impegnati in problemi sovrannaturali estratti dai diari della Weil del 1940-42 e riuniti sotto il titolo La Pesanteur et la Grâce da Gustave Thibon. Secondo la Weil tutta la natura soggiace alle leggi del determinismo, della necessità, della gravità (pesanteur), il che significa, per l’uomo e per la società, le leggi della forza. Per la Weil, la società è sempre cattiva. Di qui la sua critica ai totalitarismi, la sua simpatia per l’anarchismo, la sua convinzione che i partiti politici, forme degenerate del totalitarismo, siano cause essenziali della corruzione della società. All’indomani della guerra l’umanità non osava più guardarsi allo specchio, ed ecco che questo volumetto della Weil solleva l’umanità al di sopra di se stessa e rivela come la filosofa non riesca a resistere al bisogno di condividere la miseria altrui. Tutto ciò che appartiene alla natura, appartiene alla forza, alla pesanteur, ed è perciò sempre male. Ma v’è anche il sovrannaturale, la luce, la grazia: C’è un solo rimedio: una clorofilla che permetta di nutrirsi di luce. […] c’è una colpa sola: non aver la capacità di nutrirsi di luce. Perché, abolita questa capacità, tutte le colpe sono possibili. [1] E la grazia ha delle leggi altrettanto precise e determinate di quelle della pesanteur, soltanto meno note: anziché alla legge del moto ascendente, si sottopone a quella del moto discendente. Infatti, Abbassarsi significa salire nel senso della pesantezza morale. La pesantezza morale ci fa cedere verso l’alto. […] La pietà scende fino a un certo livello e non al di sotto. Come fa la carità a scendere anche al di sotto? [2] E ancora: Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare solo là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. [3] Coordinata essenziale è il distacco: si esce dal regno della forza semplicemente rifiutandone il dominio, nell’abbandono, nell’umiltà. Non v’è posto per lo sforzo umano, che sarebbe sempre tutto quanto nell’ordine della forza, l’unica cosa da fare è creare un vuoto, nel quale, e solo nel quale, può accedere la grazia. Anche se accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. D’altronde: Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. [4] Il primato del distacco deve però rimanere intangibile. L’immagine di Dio che la Weil ha è perciò quella di un Dio “supremo distacco”, alla Eckhart, un Dio che si ritrae e non agisce. Per raggiungere tale condizione di distacco non basta l’infelicità, è necessaria un’infelicità senza consolazione, ossia anche l’accettazione della morte. Così, Solo il distacco perfetto permette di veder le cose nude, fuor della nebbia di valori bugiardi. Per questo ci son volute le ulcere e il letame perché a Giobbe fosse rivelata la bellezza del mondo. Perché non c’è distacco senza dolore. E non c’è dolore sopportato senza odio e senza menzogna senza che vi sia anche distacco. [5] Una delle parole più profonde e più oscure del Cristo rivela la sua indifferenza assoluta ai valori morali. Giusti e criminali ricevono ugualmente i benefici del sole e della pioggia. Imitare questa indifferenza è semplicemente consentirvi. In primo luogo occorre comprendere l’universale dominio della necessità, che non è diversa dalla volontà di Dio. Ma è necessario smettere di pensare in prima persona, occorre cioè che sia morta la volontà personale. Consentire alla necessità significa infatti accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, compreso il male, trasfigurandolo in uno sguardo d’amore, vera e propria conoscenza sovrannaturale. Che è partecipazione della sofferenza del Cristo, condivisione della sua Croce. L’amore, in chi è felice, è volontà di condividere la sofferenza dell’amato infelice. L’amore, in chi è infelice, è essere pieno della nuda nozione della felicità dell’amato, senza partecipare a quella gioia, e nemmeno desiderare di parteciparvi. [6] Non c’è l’inserimento della figura di Cristo in qualche “perché” cosmico, la cristologia weiliana si comprende solo entro le coordinate della mistica. Una mistica della croce: Iddio è crocifisso dal fatto che esseri finiti, sottoposti alla necessità, allo spazio e al tempo, pensano. Sapere che, come essere pensante e finito, io sono Iddio crocifisso. Somigliare a Dio, ma a Dio crocifisso. A Dio onnipotente, per quanto è legato alla necessità. [7] [1] Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002, p. 9. [2] Weil, Ivi, pp. 9-11. [3] Weil, Ivi, p. 25. [4] Ibidem. [5] Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 95. [6] Weil, Ivi, p. 111.
[7] Weil, Ivi, p. 161. La Weil, nelle sue letture, venne anche in contatto con i classici della mistica speculativa, nei quali la sua intelligenza doveva ritrovarsi in modo più pieno. Il suo pensiero era peraltro in sintonia perfetta con il concetto fondamentale della generazione del Logos, ovvero del Cristo, nell’anima, che costituisce il centro della mistica. L’anima deve fare il vuoto in se stessa, diventare elemento puramente passivo, per poter accogliere l’irrompere di Dio. La nuova creazione a cui l’anima va incontro avviene non perché essa voglia esistere, ma perché aspira a non esistere. Essa ha compreso bene il male che è il proprio io e questo deve distruggere. Noi siamo nulla: l’impressione di essere qualcuno è solo un’illusione e dobbiamo spingere la nostra sottomissione fino ad acconsentire non solo ad essere nulla, ma anche ad essere nell’illusione: Se pensassi che Iddio mi manda il dolore per un atto della sua volontà e per il mio bene, crederei d’esser qualcosa e trascurerei l’uso principale del dolore, che è quello di insegnarmi che non sono nulla. Bisogna dunque non pensar nulla di simile. Ma bisogna amar Dio attraverso il dolore. Debbo amare di essere nulla. Come sarebbe orribile se fossi qualcosa! Amare il mio nulla, amar d’esser nulla. Amare con la parte dell’anima che è situata dall’altra parte dello schermo perché la parte dell’anima che è percettibile alla coscienza non può amare il nulla, e ne ha, anzi, orrore. Se crede amarlo, ciò che essa ama è altro. [1] La nuova creazione cui l’anima va incontro dopo la sua morte è definita come un’incarnazione. Questa seconda creazione non è propriamente una creazione, ma una generazione: il Cristo entra nell’anima e si sostituisce ad essa. Dio è il Logos, non un essere altro, connotato secondo la forza, ma la luce tutta presente nell’anima che ha fatto il vuoto di se stessa. La cristologia di Weil, e la sua filosofia, rimangono sulla soglia, invitano ad entrare e pongono al tempo stesso un limite, una zona di distanza, di attesa. Si attende, si pazienta, si tace. Questo è il luogo filosofico, e mistico, per eccellenza, nel quale è possibile l’incontro con Dio, e dunque una cristologia. E questa è possibile solo grazie ad una passione per la verità che diventa, in Weil, l’elemento di connessione tra la vita e la morte, emblema di una tensione tra l’uomo ed il dolore [2]. È il Cristo che diventa la via attraverso la quale l’uomo riesce ad assumere la propria situazione, non ottenendo però spiegazioni della sua sventura, ma riottenendo, grazie all’enigma della Croce, il vero significato racchiuso nell’accettazione del dolore stesso [3], poiché è la Croce il mistero essenziale del Cristianesimo, e la partecipazione ad essa il fulcro dell’autentica fede, nonché l’arrivo cui ogni uomo, per scoprire il proprio essere, deve poter giungere. L’uomo si staglia nella distanza tra Dio e Cristo crocifisso: più la sventura lo fa precipitare, allontanandolo da Dio, più si avvicina a Cristo [4]. È nel centro dell’anima che si sperimenta il proprio sé in unione con il divino e l’analisi dell’interiorità può diventare il terreno privilegiato per un incontro personale con Lui: un incontro che si configura come una vera e propria invasione del territorio personale da parte di una potenza esterna che irrompe nell’anima e la devasta. [1] Weil, Ivi, p. 201. [2] Cfr. Pezzini A., Pensare la soglia. La riflessione di Simone Weil tra filosofia e mistica, Cantagalli ed., Siena 2007, p. 52. [3] Cfr. Pezzini, Ivi, p. 56.
[4] Cfr. Pezzini, Ivi, p. 85.
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