Presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci
Lettera di presentazione a Paolo VI
Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato dagli esperti
del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia, dopo
una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed
alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato -
opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime - il
Novu Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di
pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati,
rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante
allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu
formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando
definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile
contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura
- anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di
sussistere - non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus
Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto
minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di
certezza al dubbio - già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che
verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza
infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata
in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi
mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento
dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile
diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una
torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane
testimonianze.
3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto
dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco
nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre cosí profondamente sollecito
dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui
bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva,
hanno avuto, piú che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia
al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci
togliere - in un momento di cosí dolorose lacerazioni e di sempre maggiori
pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco
quotidiana e dolente nella voce del Padre comune - la possibilità di
continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum
di San Pio V dalla Santità Vostra cosí altamente lodato e dall’intero
mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato.
A. Card. Ottaviani
A. Card. Bacci
BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO
MISSÆ»
I
Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu
chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa
normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de
Sacra Liturgia.
Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con
una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali
riserve (62 juxta modum) e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa
internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo,
della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto
periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí
sintetizzò il nuovo rito:
«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In
sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il
sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione
Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua
sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze
Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo
interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l'antico messale,
promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a
Gregorio Magno e ad ancor piú remota antichità (1) fu per quattro secoli
la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino,
e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum
suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo... copiosus aluerunt». E
tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe
resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere
et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il
desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando - soprattutto per
merito del grande S. Pio X - esso cominciò a scoprire gli autentici ed
eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai,
onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio
comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e
carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che
cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse impedire una piú
piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e
perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia
stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo
cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa
normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ;
il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle
Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle
missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a
comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione
immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione
Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per
appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento
razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo
cattolico.
Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione
Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa
fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua
connexio clarius pateant». Vedremo subito come l'Ordo testé promulgato
risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel
risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di
portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa
normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti,
i protestanti piú modernisti.
II
Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7,
vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De
structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi
Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini
celebrandum (2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione
eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in
nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il
che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è
inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal
compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il
Giovedí Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del
Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore
intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza
dell'assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori
dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera
definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro
«superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma - aggravando il già
gravissimo equivoco - che vale «eminenter» per questa assemblea la
promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo,
ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda
soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta
sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello
sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia
della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa è
preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché
i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica
del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni
di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.
Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili
relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e
in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena
dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ
Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et
liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena e
sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del
Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis
Domini» è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo
Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il
frutto conseguente (5). Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella
stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali
equivoci siano rinnovati e ribaditi.
III
E veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima.
È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo
l'esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua
stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et oblationem
noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr.
10, 5).
Questa finalità è scomparsa:
- dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta
Trinitas,
- dalla conclusione della Messa con il placeat tibi, Sancta
Trinitas,
- e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara piú quello
della Santissima Trinità, riservato ora alla sola
festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l'anno.
2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché
mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si
mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo
istituí il Sacramento nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per
unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un
antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione
cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a
comunicarsi sacramentalmente (6).
3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio
e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun
sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che
ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus
Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra
l'uomo e Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»;
l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus
es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o:
vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis)
et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus
spiritualis)» (7).
Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule «panis
vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque
cosa. Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco della definizione
della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui
pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati (8).
Nella preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato
con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ
substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti»,
era un richiamo all'antica condizione di innocenza dell'uomo e alla sua
attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione
discreta e rapida di tutta l'economia del Sacrificio, da Adamo all'attimo
presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse
«cum odore suavitatis» al cospetto della maestà divina, di cui si
implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo
il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú
distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature;
sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco
i gesti che dovrebbero sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra
fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel
ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta
dell'Ostia da immolare. L'unicità primordiale di questa verrà del tutto
obliterata: la partecipazione all'immolazione della Vittima diverrà una
riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.
IV
Passiamo all'essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo
oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:
1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex
eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo
coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii».
(n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna risposta a
questi interrogativi.
La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc
centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex
eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis»
(n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una
sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era nel
Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione
rivela il mutamento di dottrina.
2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né
piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale,
cosí lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola
menzione - unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è
quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241,
nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo,
Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai.
La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità
(Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già
discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina
Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di
degradazioni a catena della Presenza Reale.
L'eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e
una, con eccezioni, del popolo, alla
Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano
dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e
non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell'altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile e sulla
«mensa», quando la celebrazione non avvenga in
luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene
eucaristiche» in case private);
- delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco
ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la
Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell'Ostia
consacrata, ridotte a un quasi sarcastico
«reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito
ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all'altare (n. 262).
L'altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa
dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr.
262). Si specifica che l'altare deve essere staccato dalle pareti perché
vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo
(n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione
dei fedeli cosí che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il
SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà
una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed
Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente.
Prima esse erano un'unica presenza (11).
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove
possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di
una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà piú il
Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e
nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si
drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie
Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi
dimensioni (12), cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte
almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il
Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro
strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie
consacrate (13).
4) Le formule consacratorie.
L'antica formula della Consacrazione era una formula propriamente
sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
a) il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera;
l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata
di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del
suo sacerdozio gerarchico;
b) la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a
dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo
narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali
in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso
colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava
sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
c) l'anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei
memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin»
- «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante
e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a ricordare
ciò che Egli fece («hæc... in mei memoriam facietis») e come Egli
lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
La formula paolina oggi sostituita all'antica («Hoc facite in meam
commemorationem») - proclamata come sarà quotidianamente nelle
lingue volgari - sposterà irrimediabilmente, nella mente degli
ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine dell'azione
eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea finale di
commemorazione prenderà ben presto il posto dell'idea di azione
sacramentale (14).
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio
institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della
anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit»
(n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle
parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di
modificare il modus significandi delle parole della
Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal
sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come
esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella
cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est
Corpus Christi») (15).
L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la
Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec
venias») introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità
sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa
della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in
cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che quella, e non
questa, fosse la vera venuta.
Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2
(Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem
bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le
diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e
secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).
V
Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell'ordine:
1) il Cristo.
2) il sacerdote;
3) la Chiesa;
4) i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione
attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi
totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra
synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote al popolo,
che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del Signore
(n. 28): «Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ
congregatæ mysterium».
Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della
Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale
presenza.
Ciò si ripete ovunque:
- il carattere comunitario della Messa ossessivamente
ribadito (nn. 74-152);
- l'inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa
sine populo» (nn. 203-231);
- la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n.
45), ove si sottolinea ancora una volta
l'«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui
sacerdotii munus exercens») presentato in
modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a
quello del sacerdote; tanto piú che questi si fa
interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte
le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei
due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è
addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis,
ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»:
ove l'affinché fa pensare che l'elemento indispensabile
alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è
precisato neppure qui chi sia l'offerente (17) il popolo stesso
appare investito di poteri sacerdotali autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo, tra
qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle
formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata,
falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú
come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che
celebra in persona Christi.
Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella
definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite
anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú giudice,
testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú
dato di impartire l'assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato»
ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel
Confiteor della «Missa sine populo».
Già prima di quest'ultima riforma era stata soppressa la significativa
distinzione tra la Comunione del sacerdote - il momento in cui, per cosí
dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si
fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del
Sacrificio) - e quella dei fedeli.
Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo
atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza
eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.
La sparizione o l'uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba
e stola bastano - n. 298) vanificano ancor piú l'originale conformazione
al Cristo: il sacerdote non è piú rivestito di tutte le virtú di Lui;
egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena
dalla massa (18): («un po' piú uomo degli altri» per citare la formula
involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]).
Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha
unito: l'unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di
ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr.
Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo»
non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i
presenti. «Presbyter celebrans... populum... sibi sociat in offerendo
sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60),
anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso «per
Spiritum Sanctum Deo Patri».
S'inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum
nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di
tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
- l'ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non
presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
- l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una
realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta
alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante -
non piú militante, si badi, contro la Potestas
tenebrarum - verso un futuro che non è piú vincolato
all'eterno (quindi anche all'eterno presente) ma a un vero e proprio
avvenire temporale.
La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica - è umiliata
come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha
sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus orthodoxis
atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né
piú né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero».
Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú trapassati «cum
signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt
in pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente
scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium
defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si
è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la
possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta,
snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio
(20).
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e
Santi sono ridotti all'anonimato nella seconda parte del Confiteor
collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di
Michele, dalla prima (21).
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza
precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
- Soppressa nel Communicantes la memoria dei
Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che
furono
senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le
completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa
romana.
- Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B.
Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro
intercessione non è
quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L'unità della Chiesa è compromessa fino all'intollerabile omissione,
nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e
con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi
degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della
Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e
segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la
soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte
le salutationes e della benedizione finale; dell'Ite Missa
est (22), poi, persino nella messa celebrata con l'inserviente.
- Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro
di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi
indegno dell'alta missione, del «tremendum mysterium» che andava
a celebrare, e addirittura (nell'Aufer a nobis) di
entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell'Oramus
te, Domine) i meriti dei martiri di cui l'altare
racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse.
Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio
Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa
sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo
sacro nel qual caso l'altare può essere sostituito da una semplice
«mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola
tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito
della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e
sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche
modalità dell'offerta;
- l'accenno al pane anziché all'azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella
comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
- la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si
alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista,
commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente
incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che sta per
compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i
fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la
colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza
antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea»
che, per la prima
volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le
lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra
presbyterium peraguntur» (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà
eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del
Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza
collettiva dei concelebranti (23).
VI
Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue
deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni
fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione
completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e
psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come
nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di
lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma
e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo (24) ha
immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è
potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena
tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla
transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si
presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro
protestante.
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale
pastorale», «testo piú pastorale che giuridico» su cui le
Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il
genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione
per il Culto Divino sarà responsabile «dell'edizione e della costante
revisione dei libri liturgici».
Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania,
Svizzera, Austria (25):
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari
popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle
Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere
trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso
costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua
universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II)
affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?)
eademque cunctorum precatio... quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano,
che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium» (Sacros.
Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat» (ibid.),
ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi
dell'Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come
pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo.
Spezzata cosí per sempre l'unità di culto, in che cosa consisterà ormai
quell'unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della
sostanza da difendere senza compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole piú
rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.
Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del
Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII
La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di
dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il
risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito
orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura opposto.
A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e
complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto,
nella liturgia romana, era piú prossimo all'orientale (26) e, rinnegando
l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú
gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con
elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú
prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiú ne
allontaneranno l'Oriente, come l'hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla
apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l'organismo, intaccandone
l'unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi
spirituale senza precedenti.
VIII
S. Pio V curò l'edizione del Missale romanum affinché (come la
stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i
cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso
doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede,
insidiata allora dalla Riforma protestante.
Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso
appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla
di promulgazione del suo Messale:
«Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem
Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit
incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570) (27).
Si è avuto l'ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus
Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino non
sussistono piú. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi,
non esitiamo a dirlo, di infinitamente piú gravi. Proprio facendo
fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del
deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum
novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno
le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi
pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto,
che divenne il monumento piú completo della sua fede.
Volere ad ogni costo riportare questo culto all'antico, rifacendo
freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità
primigenia, secondo quell'«insano archeologismo» cosí
tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28), significa -
come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le sue difese teologiche
oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli (29), e proprio in
uno dei momenti piú critici, forse il piú critico che la storia della
Chiesa ricordi.
Oggi, non piú all'esterno, ma all'interno stesso della cattolicità
l'esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta (30);
l'unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già tragicamente
compromessa (31) e gli errori contro la fede s'impongono, piú che
insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente
riconosciute (32).
L'abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno
e pegno di unità di culto (per sostituirla con un'altra, che non potrà non
essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente
autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi
contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo
piú mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini 1969
Note a "Breve esame critico del «Novus Ordo Missæ»"
1)
«Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis
(fine del IV-V secolo) ... La nostra Messa risale, senza mutamento
essenziale, all'epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla piú
antica liturgia comune.Essa serba ancora il profumo di quella liturgia
primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di
poterspegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si
riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo come aloro Dio [cfr.
Pl. jr., Ep. 96] … . Non vi è, in tutta la cristianità, rito
altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue).
«Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non
vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che,
rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità!
Agli occhi non solo degliortodossi, ma degli anglicani e persino dei
protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della
tradizione,gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a
rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai piú la vera Chiesa Cattolica »
(P. Louis Bouyer).
2)
In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del Concilio
Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che
giustifichi tale definizione.
Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: «
...I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo,
in modo che... nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui
che ininterrottamenteesercita la funzione sacerdotale in favore nostro
nella Liturgia... E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono
sacramentalmente il Sacrificio di Cristo».
Ed ecco l'altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum
Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo
annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i
canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote
che presiede l'assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di
tutto il popolo santo e di tutti gli astanti».
Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta
definizione.
Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa definizione della Messa,
di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est
ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium...». Fatto
sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio
stessa ne ha usurpato il posto.
3)
Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta
Synodus et aperte et simpliciterprofitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ
sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum
Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can.
1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB, 874).
Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente(De sanctissimo
Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a
956) e chiaramente sintetizzata in novecanoni:
1. La Messa è vero, visibile sacrificio - non simbolica
rappresentazione - «quo cruentum illud semel in cruce peragendum
repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a
nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2. Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem secundum ordinem
Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans,
corpus et sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac
sub earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti
sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in
sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite
in meam commemorationem” [Lc. 22, 19; I Cor. 11, 24] uti
semper catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.). Il
celebrante, l'offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò
consacrato, non il popolo di Dio, l'assemblea. «Si quis dixerit, illis
verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes,
aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem
suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
3. Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e
NON una «nuda commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si
quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones
aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem
propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis,
pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri
debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ errores
continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB, 953) e il canone 8:
«Si quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter
communicat, illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).
4)
Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito,
crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il
principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero
Gerarchico, papale o conciliare che sia.
5)
Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione ove si volesse riprendere l'Unde
et memores, che d'altronde non accomuna ma nettamente e finemente
distingue: ...«tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed
et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
6)
Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente
eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione
della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio
satisfattorio era applicato.
7)
Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del
simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e «transfinalizzazione».
«...aut ratione signi... ita instare quasi symbolismus, qui nullo
diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et
exhauriat rationem presentiæ Christi inhoc Sacramento... aut de
transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione
totiussubstantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem
Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in
sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, utaiunt, consistant» (A.A.S.
LVII, 1965, p. 755).
8)
L'introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei
testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate
in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui
formano una inscindibileunità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus
spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente denunciata e
condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: «servata
Fidei integritate, aptus quoque modusloquendi servetur oportet, ne
indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide
altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita Sant'Agostino: «Nobis
tamen ad certam regulam loqui Fas est, ne verborum licentia etiam de
rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei,
X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo
sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum
auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ
facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu
novæ scientiæ immutare præsumat... Eodem modo ferendus non est quisquis
formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad
credendum proposuit, suo marte derogare velit» (A. A. S. LVII,
1965, p. 758).
9)
In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48)
il Vaticano II.
10)
Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in
quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur». Non
sembra molto per eliminare gli equivoci dell'altra costante denominazione.
11)
«Separare il Tabernacolo dall'altare equivale a separare due cose che in
forza della loro natura debbono restare unite» (Pio XII, Allocuzione al
Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre
1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
12)
Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia», tradizionale
nei libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima».
Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli
aspetti di «cena» e di «cibo».
13)
Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per
l'altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella
parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt'altra natura perché
non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile,
obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel
Sacramento.
Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur...
Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr.
Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha
senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto
dello spirito, alla condizione spirituale dell'individuo e limitata nel
tempo.
L'errore non è senza la piú tragica conseguenza: l'affermazione, o
l'insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all'usus e finisca
insieme con esso.
14)
L'azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel
dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le
specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella
mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del
Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II - «Il
Culto Eucaristico» - della Mediator Dei).
15)
Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del
Novus Ordo, possono essere valide in virtú dell’intenzione del
ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o piú
precisamente in virtú del modus significandi che avevano finora nella
Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno
ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al
Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa»
consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
16)
Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che
queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico.
La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per
rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi
esprimono.
17)
Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani
siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis
theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes
sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est
quidem principalis minister. Fideles mediate, non autem sensu stricto, per
sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
18)
Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente
disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la
commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa
tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota
28).
19)
P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
20)
In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii, lucis et
pacis» veniva reso come un semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che
dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa
purgante?
21)
In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l'omissione,
menzionata nell'accusa dei peccati al Confiteor...
22)
Alla conferenza stampa in cui fu presentato l'Ordo, il P. Lecuyer,
in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus
tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine
populo», «...perché non vi sia nulla che non corrisponda a
verità ».
23)
A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti
che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione,
di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa.
24)
Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel
canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
25)
Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
26)
Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali,
lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione
del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un
rito completo in sé stessa, delle offerte alla roscomidia;
alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte,
della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche
(che, nell'Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come
invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel
Cherubicon); alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio,
clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell'Inconoscibile
a cui l'intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante
versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata
sempre e solo dal celebrante; ai continui e profondi segni
di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all'atteggiamento
essenzialmente contemplativo del popolo.
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di
un'ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e
inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri
», ecc.) bastino a dir tutto. Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia
di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come
il concetto di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente
subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era nella Messa romana.
27)
Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di
Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret zizania
execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo... in doctrina fidei
usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.)...
quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit
eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et
copulatos, esse voluit» (DB, 873).
28)
«Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac
laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines
remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad
formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius
dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia
ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex
recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere;
qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras
imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem
acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat,
quos passus est, cruciatus... Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam
illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam
illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos
restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem
cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt,
quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei depositi” custos
sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator
Dei, I, 5).
29)
«...Non ci illuda il criterio di ridurre l'edificio della Chiesa,
diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio
magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano
solo le vere, solo le buone...» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
30)
«Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la
Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
31)
«Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ» che la prima
lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura,
dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
32)
È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio
da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che - mentre il
Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla - ne
partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione.
Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú parve inesplicabile, ha
consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam
Constitutionem de Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al
Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino,
gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali
consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato
di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora
piú catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero
ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la
docilità dovuta alla Sede Apostolica.
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