"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
L’oggetto di studio più interessante che possa esserci,
lo dico veramente con tutto il cuore, è la morte, sia che si tratti della nostra
morte o di quella di coloro con cui siamo in relazione, come medici e infermieri
o come familiari.
Se c’è un tema eterno, vero in
tutte le epoche, sotto tutte le latitudini, in tutte le culture e civiltà, un
tema universale, è proprio la morte. Non sappiamo quali avvenimenti ci riservi
il futuro, se per esempio ci ammaleremo, ma della morte possiamo essere
assolutamente certi.
Su quest’argomento, ancora una
volta, il mondo occidentale della fine del XX° secolo si separa nettamente sia
da ciò che è stato conosciuto nelle epoche più antiche e di cui abbiamo
testimonianze inconfutabili, sia da quello che di queste società tradizionali
sopravvive nei paesi del terzo mondo o nelle religioni diverse dalla nostra.
Fino a questi ultimi decenni, il mondo dell’Islam era ancora, in larga misura,
mussulmano e il mondo dell’India era indù, ma il mondo occidentale è cristiano
ormai solo a parole. Oggi, le emozioni e le idee concernenti la morte sono del
tutto anormali se le compariamo con quelle che sono sempre state e che ancora
potrebbero essere. Il mondo moderno non vuole più guardare in faccia né
accettare veramente l’inevitabilità della morte. Se esiste una realtà certa,
manifesta, impossibile da negare è proprio la morte, e se c’è una realtà che la
mentalità attuale tenta di eliminare a tutti i costi è proprio la morte.
La fiducia nei saggi che
avevano scoperto la Coscienza che sopravvive alla morte è scomparsa, e oggi la
morte è considerata quasi dovunque – non dico senza eccezioni, ma quasi senza
eccezioni – come un disastro puro e semplice, come la scadenza che bisogna
rinviare il più a lungo possibile. Se consideriamo questo atteggiamento nel modo
giusto, non può che apparirci aberrante, perché la morte è dovunque, ci
circonda, ci attende alla svolta della nostra esistenza, ed è così per i nostri
cari, per quelli che ci amano e ci sono vicini – e lo sappiamo bene.
Non c’è spiritualità degna di
questo nome, se la morte non è pienamente accettata, tanto pienamente e
gioiosamente accettata quanto l’idea di partire in vacanza l’estate prossima. Ma
questa partenza è ben più importante e va preparata molto più seriamente di un
viaggio in vacanza.
L’umanità ha posseduto e
trasmesso, di generazione in generazione, un insieme di conoscenze concernenti
la morte. Cosa ne resta oggi? Come ci si prepara e come si aiutano gli altri a
morire? Se la malattia riguarda il medico, la morte riguarda il lama o il prete,
non il medico. Ma oggi la morte è gestita dai medici, nell’attesa che se ne
approprino i ricercatori scientifici. Scienza, scienza profana e disumana,
quanti crimini si commettono in tuo nome! Ho visto morire intorno a me i miei
parenti e ho ascoltato discutere i medici, a volte persino con foga, delle
misure da prendere o da non prendere per riuscire a prolungare la loro esistenza
di due o tre giorni. Quanto all’idea che ci sia un’arte di morire, una maniera
cosciente, giusta, di morire, di questo nessuno se ne occupa. E’ tragico, ma la
nostra indignazione non porterà nessuna soluzione positiva.
L’alternativa è questa: o la
morte, la vostra e quella degli esseri che il destino mette sulla vostra strada,
è vissuta liberamente, coscientemente, oppure è una morte mancata. La verità è
che ogni essere umano deve prepararsi molto tempo prima per non mancare la
propria morte e oggi sembra così difficile poter dire a qualcuno che certamente
morirà. Quanto siamo scesi in basso collettivamente in questa civiltà moderna,
se abbiamo fino a questo punto snaturato l’evento che segna il culmine di tutta
la nostra esistenza umana e che è certamente il più importante che ci sia dato
di vivere. Tra poco condividerò con voi alcune osservazioni e riflessioni che ho
fatto circa il modo in cui possiamo aiutare gli altri. Ma, almeno per quanto
riguarda ciascuno di voi, cominciate fin d’ora a prepararvi per riuscire la
vostra morte. Ogni verità che ascoltate, ogni momento del Cammino spirituale
vissuto in maniera giusta è una preparazione alla morte.
Per usare il linguaggio tecnico
dell’induismo, la morte rappresenta una dissociazione del corpo fisico e del
corpo “causale” e “sottile”, di conseguenza rappresenta una perturbazione a
livello di manomayakosha (il piano mentale) e di pranamayakosha
(il piano energetico). Se per tutta la vostra vita avete imparato a essere uno,
pienamente ‘uno con’ i malesseri, le sofferenze, i disturbi, tutti gli stati di
coscienza anche quelli più sconvolgenti, sarete pienamente ‘uno con’ i fenomeni
che precedono o che accompagnano il momento stesso in cui avviene l’ultima
espirazione e in cui viene normalmente costatato il decesso. Dico il momento in
cui ‘normalmente’ si accetta il decesso, perché, oggi, una conseguenza del
successo ottenuto dalla scienza medica è l’emergere di domande che una volta non
esistevano circa quando e come un essere debba essere considerato morto. Se voi
avete nel corso della vostra esistenza preso coscienza del Sé, della vostra
“Natura di Buddha”, di quel piano della Coscienza che è indipendente
dall’identificazione con il corpo grossolano o sottile, non potete più sentire
la morte nel modo ordinario ed è anche a questo che il Cammino può prepararvi.
Ma potete subito fare vostro
questo atteggiamento: mi considero impegnato su un cammino spirituale,
iniziatico, mistico, yogico – non so quale definizione vi convenga di più – come
mi pongo fronte all’ineluttabilità della mia morte? Conservo un timore,
un’apprensione? La morte rimane per me misteriosa, angosciante o si tratta di
una certezza che non comporta altre implicazioni a parte la necessità di morire
coscientemente e completamente vigile? Questo non avverrà miracolosamente
all’ultimo minuto, a meno che non siate stati così impregnati di una fede
religiosa che l’idea di morire significa per voi la certezza di vedere Gesù
faccia a faccia o di accedere alla coscienza del Regno dei Cieli. Ma, a parte
quei pochi che hanno conservato la fede dei semplici e sono ancora intrisi a
livello di tutti i kosha (rivestimenti del Sé) di questa certezza, come
sapere, senza ombra di dubbio, chi è pienamente pronto a morire in tutta
serenità?
Bisogna esercitarsi. Se, ogni
volta che avete una malattia fisica, ogni volta che uno stato d’animo vi turba,
rifiutate, “create un secondo”, stabilite una dualità, non siete ‘uno con’ la
situazione, come potete sperare di aderire perfettamente, con tutto il vostro
essere e con tutto il vostro cuore, ai fenomeni fisiologici inevitabili al
momento della morte? Potete morire bene, positivamente, gioiosamente solo
se avete già l’esperienza della possibilità reale (ma forse ancora sconosciuta
da voi che mi leggete) d'essere libero, autonomo, perfettamente centrato,
pienamente sicuro e in pace, qualunque siano i fenomeni che si possono produrre
in voi. L’esistenza è lì per permettervi di fare questa esperienza.
L’insegnamento fondamentale è: essere ‘uno con’, aderire, non creare un secondo,
e si applica in modo particolare al tema della preparazione alla morte.
La verità fondamentale che
dovete ascoltare è: non considerare la morte come un disastro, come il
fallimento della medicina, come l’ultima sconfitta del medico, delle industrie
farmaceutiche e di una battaglia che è comunque persa in anticipo. Se non è
questa malattia, sarà la prossima o un incidente o semplicemente lo spegnimento
all’età di 101 anni, come Alexandra David-Neel.
Io non parlo ai medici o per
loro, ma se leggete certi libri, certi saggi critici, certe serie inchieste
sulla morte “oggi”, vi renderete conto fino a che punto la prospettiva medica è
contraria al punto di vista spirituale. Io ho letto dei testi importanti,
scritti da professori famosi nella loro specialità, ma molto ignoranti circa
l’esperienza liberatrice, che descrivono perfettamente ciò che chiamano “la
sconfitta estrema della medicina”. Non c’è nessuna sconfitta estrema della
medicina; esiste una legge universale che è quella del cambiamento nel mondo
manifestato; solo il Non-Manifestato, paragonabile allo schermo che sottende la
proiezione di un film, sfugge alla nascita e alla morte. Il mondo manifestato è
sottomesso al tempo e alla molteplicità, alla trasformazione, a Brahma, Vishnu e
Shiva, alla nascita e alla morte. Non è tragico, è la legge stessa
dell’esistenza, dovunque, nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente
grande, nella microfisica o quando si tratta delle galassie, e questo gioco di
nascita e morte, morte e nascita è chiamato dagli induisti la danza di Shiva:
ogni gesto, ogni postura del danzatore è la sparizione di quelli precedenti e la
manifestazione dei successivi, ma il Danzatore è eterno.
Eppure, nel momento in cui ci
si sente improvvisamente male, in cui bruscamente si prova un intenso dolore
nella regione del cuore, non c’è più filosofia o teoria induista che tenga. Dal
punto di vista vitale, lo slancio del vostro essere è un Sì pieno e totale, o un
NO, a quello che può forse rivelarsi come il momento dell’arresto del vostro
funzionamento fisico? E’ ancora più importante essere pronti, perché la morte
spesso si annuncia con sei mesi o un anno d’anticipo, ma talvolta sopraggiunge
senza preavviso.
Esiste una legge – ma voi
l’accetterete come tale? – che afferma che la morte è differente a seconda di
come ci si è preparati. Un essere che si è preparato a morire bene, che è
impegnato su un Cammino spirituale induista, cristiano, sufi, non morirà nelle
condizioni che gli rendano impossibile riuscire questa morte: anche se il saggio
è condannato, assassinato, giustiziato, avrà i pochi istanti necessari per
riuscire la sua morte. Non sarà ucciso all’improvviso, in un incidente di
macchina, senza tuttavia rendersene conto. Se siete veramente pronti, potete
morire in un secondo, questo secondo sarà sufficiente perché il Sì, l’Amen, l’Aum
siano totali.
Se siete convinti che dopo la
morte è finita, che non rimane niente a parte un corpo chiamato cadavere e che
si decomporrà, se cercate soltanto il mezzo per soffrire meno in questa vita,
per contenere le emozioni e non esserne travolti, per trovare una serenità che
vi manca, ma se pensate che la morte sia la fine di tutto, allora a cosa vi
serve impegnarvi a morire bene?
Vi parlo con la convinzione,
che può essere acquisita sperimentalmente in questa vita, che la morte non è
né triste né tragica, per lo meno per chi muore, a condizione che sia pronto.
Preparatevi. Ma gli esseri umani sono e sono sempre stati pronti a morire in
modo disuguale. Anche nelle culture impregnate di spiritualità, come io ne ho
conosciute ancora quindici o vent’anni fa in Afganistan, in India, nell’ambiente
tibetano dell’Himalaya, non ci sono solo i Ramana Maharshi e i Socrate.
Tuttavia, le persone religiose, per le quali morire non è fonte di paura,
possono essere aiutate a morire. Ma oggi, l’aiuto dato a chi muore è
completamente dimenticato. Consiste soprattutto a somministrare antalgici che
evitano certe sofferenze. Non affermo che, fisicamente, non sia giustificato, ma
la vera questione non è questa. Non parlo di un aiuto medico, parlo di un aiuto
spirituale. Per quanto riguarda l’aiuto medico, tutto termina al momento della
morte. Non ci sono iniezioni di morfina che producano il loro effetto dopo la
morte. L’aiuto spirituale non considera che tutto finisce al momento della
morte. La Coscienza esiste ancora, staccata dal corpo fisico.
***
La cosa più importante che
dovete capire circa la morte, anche se contraddice le abitudini ordinarie, è la
seguente: non aiuterete qualcuno che muore o che è appena morto se voi
stessi soffrite per la sua morte, se vi disperate, piangete e vi lamentate. E’
così serio e importante che vi chiedo di osservare quello che reagisce in voi e
di non ascoltare queste parole con un orecchio distratto. Per quanto dolorosa vi
sembri la morte di vostra moglie, di vostro marito, di vostro figlio, della
migliore amica, del padre e della madre, non potete aiutare chi muore o chi è
appena morto se non accettate totalmente e con tutto il vostro cuore che ciò
che è sia, cioè che quella persona muoia o sia morta.
Mi ricordo di una lettera che
Swamiji aveva scritto a due di noi, un marito e una moglie, che avevano perso il
loro neonato. Forse è meno terribile perdere un lattante di un bambino di tre o
quattro anni che ci ha dato tanti sorrisi, tanti sguardi affascinati, tante
parole gentili; ma quando qualcuno ha desiderato un figlio e quando questo
figlio arriva a rappresentare un simbolo che trascende la persona, è una cosa
atroce scoprire che è morto durante la notte. E Swamiji ha scritto a questo
padre e a questa madre una lettera insieme scioccante e ammirabile di cui ho
letto e riletto spesso la copia in inglese.
In questa lettera Swamiji non
utilizzava mai la parola ‘morte’ o ‘morire’, death o to die, ma
sempre “to go, to go away, he has gone away”, che significa partire,
allontanarsi. Scriveva in sostanza – cito a memoria: “Se questo bambino vi ha
lasciato e questo bambino vi era così caro, non potete immaginare di fare
qualcosa di crudele o di doloroso per lui. Ebbene se piangete, se deplorate la
sua dipartita, esercitate su di lui un’attrazione opposta al movimento naturale
del suo destino, che è quello di passare a un'altra forma d’esistenza. Il suo
karma termina qui. La necessità di questa incarnazione era di venire sulla
terra per qualche settimana soltanto, prima di continuare sotto un’altra forma o
un’altra incarnazione. Gemendo interiormente, soffrendo, sentendosi lacerati dal
rifiuto di ciò che è e dall’emozione dolorosa, voi attirate questo bambino, lo
chiamate, il vostro cuore grida: “Perché ci abbandoni, perché te ne vai lontano?
Rimani con noi. Non è possibile, non può essere vero, fa che non sia vero”.
Penso con un amore infinito al
grido che sale dal cuore di una madre davanti al cadavere gelato: “Mi dica che
non è vero, dottore, che vivrà!” Mentre sa bene che non vivrà, ma è troppo duro
da accettare. E’ perché siamo troppo abituati a girare le spalle alla verità e a
rifiutare che ciò che è sia, che abbiamo, nei confronti della morte di coloro
che ci circondano, un atteggiamento che è puramente e semplicemente menzognero e
dunque scandaloso per chi pretende di essere “un ricercatore della verità”. In
quella lettera, Swamiji diceva pressappoco: potete mettere il bambino che vi è
così caro in difficoltà, potete farlo sentire lacerato tra il movimento del suo
destino che è di allontanarsi e il grido del vostro cuore che è di rifiutare
questo movimento e di richiamarlo indietro? No, certamente no, l’amate troppo
per fare questo. So you may gladly – e la parola gladly significa
volentieri, se non persino gioiosamente – so you may gladly, così voi
potete dal fondo del cuore dirgli: “Va, figlio mio, va dove il tuo destino ti
chiama, farewell my son, farewell, addio figlio mio, addio”.
Se nostra figlia parte in
viaggio di nozze con il marito, non vorremmo rovinare la sua partenza
singhiozzando sulla banchina da cui parte la nave o all’aeroporto da dove
decolla l’aereo che la porta via. Lamentarsi perché nostra figlia ci lascia per
la sua nuova vita di sposa, sarebbe distruggere la sua gioia e non sarebbe anche
l’espressione di un egoismo totale, mascherato sotto parole come compassione,
generosità, sensibilità, amore? Allora come possiamo rovinare con i nostri
errori, il momento straordinario in cui un essere umano abbandona il corpo
fisico e può abbandonarlo in modo cosciente?
Per quello che concerne voi,
l’idea di cui dovete impregnarvi è di vedere la vostra morte come un avvenimento
a cui siete decisi a dire un sì totale e che vi impegna totalmente. Per quello
che riguarda la morte degli altri, si tratta anche qui di vederla come un
avvenimento a cui siete decisi a dire un sì totale e che vi impegna totalmente.
Non è facile, eppure è la verità.
***
Dovete esercitarvi a vedere fino in fondo i vostri
eventuali rifiuti della verità, per essere pronti, un giorno, ad andare oltre
questa menzogna che consiste nel negare ciò che è. Aderire perfettamente alla
propria sofferenza, senza resistere, è anche rendere possibile che essa non sia
più insopportabile e che al fondo stesso di questo dolore straziante
completamente accettato, possiamo trovare la pace che va oltre ogni comprensione
e la serenità di un altro mondo.
Ogni rifiuto di ciò che è,
rappresenta sempre il tentativo di una menzogna, quella di gridare più forte
della verità. La rivolta e la disperazione perché qualcuno morirà, sta per
morire, è morto sono movimenti naturali per la maggior parte degli esseri umani
di oggi, ma certamente non un atteggiamento giusto e dobbiamo almeno essere
molto chiari su questo punto. E’ vero – e questo può essere verificato – che
negli ambienti molto religiosi la morte è accettata, generalmente, meglio di
quanto accada negli ambienti non religiosi. Mi ricordo di un’infermiera francese
di Kabul che, una sera, nel mezzo di una cena tra amici, raccontava di non poter
più sopportare l’attitudine delle madri afgane che dicevano: “Dio l’ha donato,
Dio l’ha ripreso”, quando il loro figlioletto moriva, invece di urlare e di
torcersi le mani nei corridoi dell’ospedale. Questo atteggiamento di
accettazione era per lei inaccettabile.
E’ sicuramente vero che molte
persone, pur non avendo mai sentito parlare di Swami Prajnanpad, hanno vissuto
la morte dei loro cari con serenità, ed è sicuramente vero che altri hanno
vissuto la propria morte con serenità. Ma oggi non parlo ad Afgani impregnati di
Islam, o a Cristiani del XII° secolo, parlo ai francesi del XX° secolo.
L’atteggiamento che vi spinge a mancare l’avvenimento più importante della
vostra vita e che vi impedisce di aiutare coloro che vi circondano è destinato a
rafforzarsi nei prossimi anni: esso consiste a considerare la morte solo dal
punto di vista medico, e questo non h alcun senso perché la morte è proprio il
momento in cui la medicina non serve più.
La malattia riguarda il medico, la morte riguarda il lama
o il prete. Ci sono ancora dei lama tra i Tibetani, ma i preti, oggi, non sono
più chiamati al capezzale del morente o lo sono del tutto casualmente –
“possiamo fare questo per il nonno che sta morendo, non si sa mai”. Sono,
inoltre, essi stessi raramente disponibili perché poco numerosi e completamente
assorbiti dal loro ministero parrocchiale. Mi hanno raccontato molti casi in cui
il prete è arrivato, per dare un’estrema unzione, frettolosamente, quasi in
ritardo, di corsa, perché altri impegni importanti lo attendevano. Non siete voi
i responsabili della diminuzione delle vocazioni sacerdotali, ma sta di fatto
che è così.
Il fondamento di tutto ciò che
potete fare per coloro che muoiono intorno a voi, è la vostra attitudine di
adesione totale alla loro morte: sì, un sì positivo. In che misura potete
manifestare esteriormente questo atteggiamento interiore? Ecco una domanda
importante. Ma almeno potete avere il controllo dell’atteggiamento interiore,
anche se le circostanze vi impediscono di dire al vostro prossimo: “Dal punto di
vista medico, solo un miracolo può salvarti. Se non è entro un mese, sarà entro
due mesi, ma ci lascerai”. Potete dire questo? Non lo si dice più oggi. Ma è un
altro argomento. Che almeno quello che emana dal più profondo di voi, quello che
diffondete intorno a voi sia il sì, aum, amen.
Ciò che è, è. Ogni volta
che ci ribelliamo, che creiamo una disarmonia con la realtà, manchiamo
l’Essenziale, torniamo nel mondo limitato della sofferenza, della morte,
dell’assurdo e chiudiamo le porte della grande Realtà divina promessa dal
Cristo, da Buddha, dal Vedanta e da tutti gli insegnamenti spirituali.
Certamente, una volta che siamo d’accordo sul nostro atteggiamento fondamentale,
sarebbe giusto poter aiutare un’altra persona a morire coscientemente, senza
mentirle e senza continuare a dire, quando tutti sanno che è ormai una questione
di giorni: “Su, guarisci presto, a settembre andremo a fare una crociera in
Grecia”.
Che vergogna ridurre l’essere
umano ad una tale mediocrità, a questa paura, a questa menzogna, a quest’assurdo
accecamento. Ma la condizione preliminare alla possibilità di sentire come agire
giustamente nelle circostanze date, è il vostro atteggiamento profondo di
accettazione. Siate stabilizzati nel sì: “Sì, papà sta morendo di un cancro ai
polmoni, sì.” E questa morte, dal punto di vista medico, se non si è accecati,
se non si è ipnotizzati dall’attesa di una nuova tecnica di trattamento, tutti i
medici di buonsenso la sanno inevitabile e si produrrà approssimativamente al
momento previsto.
***
Già è molto per colui che muore se chi lo circonda non
rifiuta il fatto che muore, non manifesta né inquietudine, né tensione e ancor
meno panico e singhiozzi prematuri. Forse potete ammettere, a titolo di ipotesi,
che la morte sia un passaggio, una modalità particolare del gioco incessante di
nascite e morti, di trasformazioni continue. Non finisce tutto al momento
dell’ultimo respiro, dell’ultima espirazione. E durante tre giorni, potete fare
ancora qualcosa per la persona che è morta. Ora, forse pensate che mi avventuro
in pieno occultismo, in pieno misticismo senza prove. Va bene. Non accettate, ma
neppure rifiutate. Semplicemente sospendete il giudizio su ciò che dico, con la
possibilità, magari più avanti, di verificarlo.
A ogni modo, chiediamoci perché c’è una tale unanimità su
questo punto in tutte le tradizioni del mondo antico, che sia attraverso la
pratica delle veglie funebri, o della lettura del Bardo-Thodol, il Libro dei
Morti tibetano. Un giovane maestro tibetano Sogyal Rimpoche, che esprime in un
linguaggio moderno l’autenticità della tradizione tibetana nyingmapa, ha
scritto un capitolo “La morte è un’altra nascita”, in cui usa l’espressione il
“neo-morto” per analogia con il “neo-nato” (Sogyal Rimpoche, Il libro
tibetano del vivere e del morire, Ubaldini). Questa formula è perfetta per
definire l’attitudine tradizionale tibetana: l’essere che è appena morto è
passato da un mondo a un altro, proprio come colui che è appena nato e che ha
lasciato l’universo senza dualità del cordone ombelicale per il sorprendente
mondo dell’autonomia respiratoria e delle sensazioni. Se avete letto il libro di
Frédérick Leboyer sulla “Nascita senza violenza”, se avete visto il suo film, vi
siete forse convinti che dice la verità, e che il neonato è sorpreso, turbato,
spaesato, anche se è nato e morto, nato e morto, molte volte nelle vite
anteriori. Ebbene, chi è appena morto, come dice così bene Sogyal Rimpoche, è un
neo-morto; ha appena lasciato un mondo cui era abituato per arrivare in un mondo
nuovo, insolito, strano, perché non ha più a disposizione i punti d’appoggio
fisici.
Se siete familiari con certi
“tuffi” abbastanza profondi nell’inconscio, siete meglio piazzati per
comprendere come può essere uno stato di coscienza privato dei punti d’appoggio
fisici e mentali abituali, ancor più se avete avuto delle esperienze di
Sopra-Coscienza, tecnicamente chiamata samadhi. In ogni modo, almeno
nell’ascesi che seguite qui, potete raggiungere delle modalità di coscienza che
permettono di intravedere cosa sarebbe una Coscienza libera dalle
identificazioni ordinarie, del tutto
differente da quella di
superficie che è completamente confusa con la forma fisica e i meccanismi
mentali che conosciamo.
Durante tre giorni,
l’atteggiamento di coloro che circondano il defunto può essere di grande aiuto,
a condizione che sia positiva, e non una serie di lamenti che non possono che
turbare ancora di più quest’essere che diciamo di amare e a cui pretendiamo di
volere bene. Non voglio fare una discussione tecnica sui metodi cattolici,
buddhisti, tibetani, taoisti e induisti utilizzati per aiutare questo neo-morto.
Vi segnalo semplicemente questa unanimità nelle tradizioni. Almeno un’attitudine
vi è possibile, il superamento di ogni emozione individuale che sarebbe
puramente egoistica, perché è cinicamente egoistico proiettare la vostra
disperazione su questo neo-morto. Così come faremmo qualcosa per un vivente
ferito sul ciglio della strada e vorremmo che altri lo facessero per noi quando
sarà il nostro turno, noi possiamo coscientemente circondare il morente e in
seguito il morto di pensieri e di sentimenti positivi che vanno tutti nel senso:
“Sì, sì, non ti preoccupare, vai per la tua strada, vai avanti, non ti
preoccupare”. Questo almeno è possibile.
Naturalmente, l’asceta, che si
è preparato, affronta al momento della morte queste esperienze di una nuova
coscienza in modo del tutto differente. La tradizione vuole che il saggio non si
reincarni più, ma è una questione che non affronterò oggi. Parlo a un livello
più semplice e accessibile, quello di ciò che vi attende tutti.
***
Quello di cui parlo qui e che, come ho detto, ci riguarda
tutti in sommo grado, si riferisce, lo vedete, alle abitudini attuali che
consistono nel negare la morte il più a lungo possibile, di tentare ancora
un’ultima cura, e poi di lamentarsi e di disperarsi o al contrario di
rallegrarsi, perché l’agonia durata mesi è stata troppo lunga, troppo logorante.
Sono comportamenti emozionali, non la condotta unificata e cosciente degna di un
essere umano e degna di colui o colei che sono passati a quell’altra forma di
vita che noi chiamiamo morte.
I genitori hanno una grande
responsabilità per quanto riguarda la maniera con cui rendono familiari i loro
figli, ancora piccoli, impressionabili, influenzabili, con la certezza della
morte. E’ vostro dovere fin d’ora non impregnare i vostri figli con l’idea che
la morte sia un disastro, una tragedia, una causa di disperazione, “il
fallimento della medicina”, in modo che abbiano sulla morte idee diverse dalla
sola speranza posta nella ricerca medica: “Sembra che un premio Nobel è sul
punto di scoprire come curare il cancro”. La streptomicina è stata certamente
una grande cura per la tubercolosi polmonare – ne parlo con conoscenza di causa.
E poi? Sono stato salvato da una tubercolosi caseosa evolutiva, ma morirò
comunque un giorno.
Pensate in quale contesto
crescono i bambini. Come genitori, potete familiarizzarli poco a poco con
un’idea del tutto differente: è normale morire, se ci si può curare ci si cura,
ma c’è un destino, un ordine naturale e la morte non è soltanto il fallimento
delle cure mediche. La morte è un valore positivo non negativo. Che lo vogliate
o no, bisogna essere un pazzo o un idiota per fare di una certezza così
ineluttabile quale è la morte un valore talmente negativo, rifiutato e negato il
più possibile. Devo dirvi, di passaggio, che per la quasi totali degli Indù
tradizionali, impregnati di Vedanta, l’immensa speranza che si è diffusa tra i
discepoli di Mère, nell’ashram di Aurobindo, cioè l’immortalità nel corpo
fisico, appare semplicemente assurda e antimetafisica. Continuare a mettere al
mondo figli e ottenere l’immortalità nel corpo fisico renderebbe il pianeta del
tutto invivibile nel lasso di pochi anni! E’ l’atteggiamento più materialistico
che si possa immaginare. Non parlo solo a nome mio, ma di tutti i saggi, tutti i
jivanmukta (“liberati in vita”) che ho interrogato. Sul Cammino che
seguite qui, guardatevi dal farvi influenzare da questa mentalità moderna
antispirituale che consiste nel rifiutare sottilmente la legge e la verità, nel
voler trionfare costi quel che costi sulla morte, e, di fatto, nel voler rifare
la Creazione.
A qualcuno che gli chiedeva:
“Ma non puoi fare un miracolo per te come ne hai fatti per gli altri?” Ramana
Maharshi rispondeva: “La legge della cellula cancerogena è di proliferare”. Ecco
una risposta da Saggio. Ma, se fosse stato possibile curarlo, perché non farlo?
Quante volte vi ho già ripetuto anche un’altra frase del Maharshi che trovo
incomparabile. Soffriva intensamente per un cancro della guaina di un nervo – ed
è evidente che non si amministra la morfina a un jivanmukta indù – ma, un
giorno, ha detto: “Ho mal di testa, datemi due aspirine”, perché, contro il mal
di testa, le due compresse di aspirina potevano servire. E’ l’insegnamento di un
Maestro. Ricevuta da M>
Anandamayi, una signora europea si lamentava di essere molto malata: “Tutto il
mio soggiorno in India è rovinato, ho sognato da tanto tempo di venire all’ashram
e adesso che ci sono arrivata, sto male”. M>
le rispose: “E’ la volontà di Dio che lei sia malata”. La signora non la prese
molto bene. Volontà di Dio o meno, aveva atteso, aveva risparmiato per mesi ed
ecco che la sua visita era rovinata. Ma M>
aggiunse: “E’ anche la volontà di Dio che ci sia un buon medico, conosciuto
dall’ashram, a cinquecento metri da qui”. Semplice. E’ la volontà di Dio che sia
malata, ma è anche la volontà di Dio che ci sia un buon medico conosciuto dall’ashram.
Poiché è possibile, si faccia curare.
No, non è il caso di dirvi oggi
delle parole che non potrebbero in nessun caso essere messe in pratica: “Non
curate i malati, spetta a Dio guarirli”. Il modo più semplice di interpretare la
fede, è quella di M>
Anandamayi. E’ la volontà di Dio che i malati siano malati ed è la volontà di
Dio che ci sia una farmacia di guardia aperta tutta la notte. Ma, una volta che
il buon senso ha parlato, non lasciatelo trasformare in menzogna e intossicarvi
di nuovo con la mentalità antispirituale che regna oggi. Possiamo curare. Fino a
un certo punto, possiamo guarire. Ma la medicina ha i suoi limiti, il medico ha
i suoi limiti. Invece, il saggio, il lama, il prete non hanno limiti perché per
loro la morte non è né un fallimento né uno scandalo. E’ semplicemente il
momento più importante della vita di cui sono specialisti, come il medico è
specialista della malattia.
***
Forse, rispettando le dovute proporzioni e in tutta
umiltà, vi toccherà assumere il ruolo del lama o del prete vicino a un morente
che vi è caro. “So che morirai, accetto totalmente l’idea che morirai, trovo
questo passaggio normale e naturale, non trovo scandaloso che la tua morte sia
prossima, e sono qui per aiutarti a viverla bene.” Attitudine, vedete, del tutto
positiva e opposta al comportamento abituale.
E’ possibile. E’ possibile per
noi, per voi, nel mondo attuale, non soltanto per un gruppo di monaci tibetani
che assistono all’agonia di uno di loro o di monaci trappisti che circondano un
fratello che sta morendo. Nei monasteri cistercensi, che conosco un po’, non si
muore nella maniera ordinaria. Ci sono ancora monaci che muoiono gioiosamente,
posso assicurarvelo. Parlo qui della morte che ci circonda. So che è possibile
morire coscientemente anche nel nostro mondo attuale, e una discepola del Bost,
Annie, ci ha appena lasciato serenamente, liberamente per un cancro
generalizzato. Bisogna essere profondamente convinti e volerlo. Posso anche
dirvi che tre sorelle, impregnate dall’Insegnamento, hanno vissuto in questo
modo giusto le ultime ore e la morte del loro padre, senza lacrime, senza
pianto, senza ribellione, accompagnandolo fino all’ultimo istante con un sì
grave. Non è un sì frivolo o superficiale, ma un sì reale e che dà un aiuto
efficace. Se tutto ciò che emana da voi è l’amen, l’aum, il sì, questo sì
aiuterà colui che è un po’ perduto, che non comprende bene cosa gli stia
succedendo, a dire a sua volta sì.
E devo trasmettervi ancora una
verità. Se siamo perfettamente evoluti spiritualmente, siamo totalmente
d’accordo di morire – ma anche se siamo meno evoluti, una parte profonda di noi
è d’accordo di morire. Moriamo perché lo vogliamo. Siamo Brahma, siamo Vishnu,
siamo Shiva, portiamo in noi la Creazione, la Conservazione, la Distruzione –
così come siamo il luogo del metabolismo, dell’anabolismo e del catabolismo.
Invecchiamo perché vogliamo invecchiare, non con il nostro piccolo mentale
impaurito, ma secondo la nostra Legge profonda. La Legge del nostro essere è
l’invecchiamento e noi invecchiamo, anche se l’ego di superficie cerca di andare
controcorrente.
Noi vogliamo morire, perché è
la Legge universale, perché questa legge è all’opera in noi, e perché siamo
creati a immagine di Dio e Dio è anche il Distruttore. Se la mentalità attuale
non esercitasse in noi un’influenza così contraria alla verità, questa adesione
alla morte, che ci è di fatto naturale, non sarebbe così soffocata e contrariata
dalle abitudini meccaniche. E’ molto meno difficile morire di quanto
immaginiate, a condizione di non essere impregnati di paure inutili e
influenzati dall’ambiente circostante che, rifiutando la morte, ci spinge
inconsciamente a rifiutarla.
Se accettiamo la morte di colui
che si stacca dal corpo vicino a noi, andiamo nel senso del movimento profondo,
naturale e giusto che si manifesta in lui e che permette di accettare e di
sentire: “Per quel che mi riguarda, il momento è venuto”. Ma è vero anche che
alcuni, che si sono preparati poco durante la loro vita, si aggrappano fino alla
fine a preoccupazioni, per esempio, di tipo finanziario, e, a tre ore dalla
morte, chiederanno alla moglie il corso del franco svizzero o del marco tedesco.
Ed è anche vero che, fino all’ultimo minuto, pensieri del tutto materiali
possono occupare la mente del morente.
***
Le tradizioni sono unanimi nel dire che gli ultimi
pensieri del morente al momento della morte determinano la sua condizione
successiva: la nuova eventuale incarnazione sotto forma umana o la permanenza in
un paradiso, inferno o purgatorio. Per questo tutta la vita non è altro che una
preparazione a questi ultimi pensieri al momento della morte. Colui che muore
permeato dal pensiero e dal sentimento “Gesù” o, eventualmente se è Indù, “M>
Anandamayi” non muore invaso dall’emozione e dal pensiero “il marco tedesco è
salito e non è stato comprato come avevo detto di fare”. Capite bene
l’importanza di questi pensieri e non si può imbrogliare: i pensieri che si
formeranno al momento della morte saranno quelli per i quali vi siete preparati.
In modo generale, anche quando
siete in perfetta salute, quando avete venticinque o trent’anni, potete
comprendere che la totalità di ogni Insegnamento spirituale è una preparazione
alla morte. Colui che può invecchiare, sentendo nel profondo del cuore: “Ho
fatto quello che avevo da fare, ho ricevuto quello che avevo da ricevere e ho
dato quello che avevo da dare”, questa persona è pronta a morire. La morte non è
terrificante. E’ il ‘mentale’ che lo crede. Morire non è terribile, è terribile
il fatto di cessare di vivere quando ci sono ancora dentro di noi tanti desideri
insoddisfatti, tante paure irrisolte, tante frustrazioni e tante vasana,
cioè tendenze latenti che vogliono realizzarsi. Non sono pronto a morire perché
rimane quel grido che viene dal profondo: “Non ho fatto quello che avevo da
fare, non ho ricevuto quello che avevo da ricevere, non ho dato quello che avevo
da dare”. In questo contesto, morire è atroce, perché significa non poter più
compiere ciò che intensamente dentro di noi abbiamo da compiere. Se siete liberi
dal desiderio, siete maturi per scoprire un’altra maniera di essere, al di qual
dei contrari e delle polarità, la Coscienza autonoma, non dipendente, che non
muore mai e sa in anticipo che non rischia niente.
Ammettendo pure che voi siate completamente materialisti
o che i materialisti abbiano ragione, se avete fatto interamente quello che
avevate da fare, ricevuto interamente quello che avevate da ricevere e dato
interamente quello che avevate da dare, anche l’idea del nulla non sarebbe più
spaventosa. Questo desiderio di sopravvivere come individuo per poter conoscere
quello che non è stato ancora conosciuto, non potrebbe sussistere in voi. La
convinzione buddhista e induista che sostiene che ciò che non è stato compiuto
in una vita, lo sarà nella vita seguente, sia immediatamente, sia dopo un
passaggio per uno stato intermedio (tradotto talvolta in inglese ‘purgatorio’
quando si parla a un Occidentale), è quella che soddisfa il maggior numero di
domande: la morte e una nuova esistenza vi daranno altre possibilità per fare
quello che non avete compiuto. Forse avete anche bisogno di rinascere con un
corpo maschile se siete donna, con un corpo femminile se siete uomo, fino a
quando tutte le possibilità latenti del Corpo Causale non saranno state
attualizzate. Questa è la posizione sostenuta dal Vedanta o dallo Yoga, Yoga nel
senso ampio del termine, come uno dei sei sistemi ortodossi dell’India. Tanto
più si ha paura di morire, quanto più si ha paura di cessare di vivere, e tanto
più si ha paura di cessare di vivere, quanto più ci si sente frustrati,
incompiuti, insoddisfatti, non soltanto perché non si è ricevuto quello che si
sarebbe voluto ricevere, ma perché non si è potuto dare quello che si sarebbe
voluto dare, in qualsiasi sfera questo sia avvenuto.
E’ anche vero che la familiarità con la morte dà un senso
vero a quella che chiamiamo la vita o l’esistenza. Un monaco non passa un solo
giorno senza pensare alla sua morte, ma l’essere umano attuale, per giorni,
settimane e mesi, dimentica che morirà. Questo pensiero non lo sfiora nemmeno.
Finché non siamo coscienti che tutti coloro su cui
posiamo lo sguardo moriranno un giorno, la vittime e i carnefici, i
rivoluzionari e i poliziotti, i nostri alleati e i nostri avversari, finché non
siamo in permanenza coscienti nel profondo del nostro essere che andiamo verso
la morte e che tutti coloro che ci circondano, amici e nemici, moriranno, finché
dimentichiamo nel corso della giornata questa realtà della morte, non possiamo
avere un apprezzamento giusto dell’esistenza. Quest’ultima non può essere
compresa, apprezzata, vissuta se non nella prospettiva della morte. Se gli
uomini potessero essere sempre coscienti della propria morte e della morte di
coloro che adorano o che odiano, tutto sarebbe relativizzato. Che cosa resta
oggi di Churchill, di Stalin, di Roosevelt in quanto Churchill, Stalin,
Roosevelt? Forse si sono reincarnati, o sussistono in una forma sottile su un
altro piano dell’Essere, ma cosa rimane per noi, in questo mondo umano, questo
mondo che ci ottenebra e al quale siamo identificati? E del generale de Gaulle,
del Duce Mussolini, del Führer Hitler, cosa rimane? Tracce delle loro azioni,
sì. Ma loro?
All’epoca dei miei viaggi, sono
passato spesso dal mondo europeo a quello indù, tibetano o mussulmano dei sufi,
cioè da un mondo in cui la morte è negata a un altro in cui essa è familiare e
nella cui presenza si è immersi. Ma noi Europei troviamo morbosa questa
familiarità. Quello che è davvero morboso è, al contrario, fare della morte un
disastro. Per un Tibetano, la morte è onnipresente. Vive nella sua atmosfera,
quindi in quella della vita, quindi in quella della nascita – la realtà
integrale. Ancor più per il fatto che le civiltà tradizionali conservavano il
ricordo e il rispetto dei morti, un culto degli antenati, come avete letto o
sentito dire. A parte i fiori del 2 novembre, questa attitudine non trova più
posto da noi. Così esistono delle culture umane in cui si vive nel clima della
morte. Questo rende la vita molto più vitale e permette, soprattutto, di
scoprire a poco a poco quello che è al di là di ciò che noi tutti chiamiamo, a
torto, vita e morte, ma che in realtà è la nascita e la morte, la morte e la
nascita, mentre la vita è il gioco infinito di nascite e morti. Questo è vero
per tutti i livelli della realtà, causale, sottile, grossolano, dall’atomo alle
galassie, ed è vero particolarmente per quello cui riserviamo il nome di morte,
cioè il decesso.
***
Ora, cosa potete fare concretamente? Per quello che
riguarda voi, si tratta di mettere in pratica l’insieme dell’Insegnamento,
dandogli, forse, un significato ancora più ricco perché non lo vedrete più
soltanto come un mezzo per vivere meglio – con minori angosce e ribellioni e una
migliore capacità di essere - ma anche come una preparazione alla morte. Sono
possibili una nuova comprensione, la scomparsa completa di ogni paura della
morte e la scoperta, per ognuno di voi, intimamente, che la morte è
inevitabilmente legata all’esistenza e che ne è una modalità gloriosa, non
disastrosa, il suo compimento e il suo coronamento.
Che ne direste di una persona
che avesse frequentato la scuola fino alla vigilia del diploma e che, alla fine
dell’ultimo anno, dicesse: “Non faccio più l’esame”. Vi sembrerebbe
sorprendente, incredibile. E cosa dire allora di un essere umano che vive, vive,
e poi al momento della morte che è il coronamento della vita, afferma: “Non
voglio più morire”. Eppure, è ciò che facciamo.
Per quanto riguarda la morte
degli altri, infatti se la vostra morte non avverrà che una volta sola, quella
delle persone care accadrà molte volte nel corso della vostra vita, e ancora di
più se siete infermieri e medici a contatto quotidianamente con la sofferenza e
la malattia, per quanto riguarda gli altri, dunque, impregnatevi bene di queste
importanti verità. Quello di cui dovete occuparvi, innanzitutto, è la vostra
attitudine, menzognera se rifiutate la morte, veridica se accettate pienamente
la legge naturale. Avete sui vostri figli un’influenza più grande, almeno fino a
una certa età, di tutte le altre influenza messe insieme. Anche se essi
ascoltano altri presentare la morte come una tragedia e indirizzare la speranza
umana solo verso la biologia, la vivisezione e la ricerca medica, voi potete
testimoniare, con l’insieme del vostro comportamento, a favore la morte e non
contro di essa e convincere vostro figlio che la considererà con un occhio
diverso e ne sarà segnato positivamente per tutta la sua esistenza.
Se c’è un lutto nelle vostre
famiglie, siate veri per amore dei vostri figli, mettete l’Insegnamento in
pratica per amor loro, non manifestate l’angoscia o anche il terrore abituale.
Sì, un padre può dire ai figli. “Credo che la mamma morirà, non se ne può essere
del tutto sicuri, ma credo che morirà”. E non credo che quanto dirò adesso potrà
essere contraddetto da molti medici; salvo negli incidenti brutali, ci sono
molti casi in cui la morte del malato è certa e può essere prevista con un
anticipo di mesi o di giorni. Allora, perché aggrapparsi all’idea: “Non si sa
mai, ci sono dei casi in cui…” e mentire a se stessi e agli altri? “Ci sono
delle ricerche in corso negli Stati Uniti, stanno sperimentando una nuova
medicina.” No. Sappiamo che la persona morirà. Allora, se è vero, perché non
osare dirlo? “Sì, papà morirà, mamma morirà”, mettendo in pratica l’insegnamento
di Swamiji: “Segui il tuo cammino, noi ti accompagniamo, noi ti diciamo
arrivederci”, come direste con amore “arrivederci” a vostra figlia che parte in
viaggio di nozze. E’ dunque, innanzitutto, la vostra attitudine interiore che è
essenziale. Poi, ed è più difficile, nella misura in cui vi è possibile, potete
dire a un amico, a un parente: “ E se … se tu non guarissi?”. E sarete forse
sorpresi, lo dico per esperienza, di un’accoglienza e di una risonanza che non
sospettavate. Quando un essere è “condannato”, qualche parte di lui lo sa,
voi lo aiutate semplicemente a riunificarsi. Lo sa, ma voi, ciechi, rafforzate
la parte in lui che cerca di mentire, cerca di negare.
Quando un malato non è ancora
molto grave e si può sperare di guarirlo, è diverso; ma quando la sua morte è
prossima, lo sa e voi lo aiutate a superare ogni conflitto. Se voi potete, se la
vostra attitudine di silenzio, di preghiera, di disponibilità, di sottomissione
alla verità vi libera dalle emozioni, dagli automatismi e dalla inerzia del
mentale, sentirete che, in molti casi, potete dire la verità. Ma bisogna che
questo venga dal più profondo di voi stessi. Vedrete che potete parlare, essere
capito, assumere il ruolo di lama o di prete, aiutare il morente, accompagnarlo,
familiarizzarlo, essere al suo fianco in quest’accettazione della morte. Ma vi
prometto che avrete un complice, un alleato nel cuore stesso del malato, nella
sua parte più profonda.
Ho parlato a lungo di questa
questione con vari medici, alcuni erano seguaci del Bost. So che per loro questa
franchezza è difficile perché sono inseriti nel contesto attuale, nell’insieme
delle abitudini mediche e che possono urtarsi a una totale incomprensione da
parte dei loro colleghi. Un’affermazione del genere sarebbe incomprensibile per
una gran numero di medici, come se facessimo loro un affronto personale
affermando che, a un certo punto, bisogna accettare la morte. Oserei persino
dire che bisogna scegliere la morte. Non penso che ci siano medici che possano
negare che alcuni loro colleghi sono radicati in questa certezza: “NO, la mia
missione di medico è rifiutare la morte fino alla fine”. E’ perché la loro
stessa morte è un problema? Non sono qui per fare la psicoanalisi del corpo
medico. Ma so che alcuni medici, soprattutto degli uomini e delle donne anziani,
si sono assunti il ruolo di lama o di prete, e hanno aiutato i malati a morire
dicendo loro la verità e accompagnandoli fino alla “partenza”.
Ma siate certi che quello che
potrete fare e dire sarà unicamente l’espressione di quello che sarete. E’ una
legge generale. Quello che fate è espressione di quello che siete.
Non potete fare niente che sia al di là di ciò che siete. Se siete teso, nervoso
e ansioso, non potete compiere azioni calme, serene e positive. Non
preoccupatevi di quello che farete o non farete, preoccupatevi di quello che
sarete o non sarete. Sarete travolti o vigilanti, in conflitto con la verità o
uno con essa, divisi o unificati interiormente? In questo campo, disponete di un
margine di libertà! L’importante non è quello che dovrete fare quando sarete
davanti a un morente, ma il modo in cui vi porrete interiormente. Se siete
situati in modo giusto, l’azione sgorgherà spontaneamente dal vostro livello di
coscienza.
Spero che questa chiacchierata
vi abbia aiutato a riflettere, a prendere coscienza di queste verità, a essere
totalmente positivi: E’. Tutto il resto è menzogna, “tutto il resto viene dal
Maligno”. La morte è un’applicazione particolare della Legge meravigliosa del
rinnovamento, del cambiamento, dell’abbandono di una forma per un’altra. Solo il
corpo fisico muore. La Coscienza, invece, anche se ancora unita alle limitazioni
del corpo sottile, lascia il corpo fisico. Nella lettera di Swamiji la parola
to die che significa morire e la parola death che significa morte non
compaiono mai. Scrive To go away, partire. Augurate buon viaggio a coloro
che partono dal mondo nel quale abbiamo vissuto insieme e auguratelo gladly,
gioiosamente: “Sì, buon viaggio, buon viaggio a te che ho tanto amato”.
Quanto al vostro stesso
abbandono del corpo fisico mortale, sarà tanto più felice quanto più avrete
scoperto in voi, da vivi, il Sé Supremo, l’atman, che non nasce e non muore.
Solo questa realizzazione vi libererà per sempre dalla paura.