"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
La vita Maruti Kampli nasce nel 1897 a Bombay. Si sposa,
cresce quattro figli e per vivere fa il tabaccaio. A 33 anni conosce un maestro
che gli insegna a concentrarsi sul mantra Brahmasmi ("Sono il Supremo"). Poco
dopo si realizza ed assume il nome di Nisargadatta Maharaj. Resta nella sua casa
a dialogare con chiunque lo raggiunga fino al 1982, anno in cui muore.
Il pensiero Si può condensare tutto con il Mahavakya ("Gran
Verdetto"): Tat tvam asi ("Quello tu sei"). Notiamo comunque il suo commento in
proposito, fulminante come sempre: "Il Gran Verdetto è verace, ma le tue idee
sono false, perché tutte le idee lo sono".
Il seguente testo è tratto dall'introduzione di
Grazia Marchianò al libro di Nisargadatta Maharaj:
"Io sono Quello" ed. Rizzoli , è una
raccolta di dialoghi avvenuti a Bombay fra il 1970 e il '72, registrati e
pubblicati da Maurice Frydman.
Al secolo Maruti Kampli, appartiene a una linea di
trasmissione marathi del
Vedanta monistico, che si fa risalire
al Mahatma Dattatreya. Tra i veggenti di epoca vedica, Datta avrebbe istituito
il primo lignaggio spirituale (parampara), che nel Maharastra è noto come
navnath sampradaya, la "scuola dei nove", cui fu affiliato il maestro di Maharaj
e, alla sua morte, lui stesso.
A Dattatreya sono attribuiti l'omonima innodia Datta o Daksinamurti Samhita, di
cui una versione ridotta è nel Tripura Rahasya, e la citata Avadhut Gita, il
"Canto del Rinunciante".
Una tardiva
upanisad si potrebbe definire Io sono
Quello, e quasi un'ininterrotta continuazione della parola di
Ramana Maharshi, cui Nisargadatta da
più segni appare affratellato.
Entrambi di origine umile e campagnola, illetterati e padroni di un sola lingua:
il tamili per Ramana, e il marathi per Nisargadatta. Entrambi "scoperti" da due
europei: Paul Brunton, che divulgò il pensiero di Ramana, e Maurice Frydman che,
a Bombay, negli ultimi anni di una vita segnata da numerose conversioni - da
ebreo polacco a monaco cristiano a swami indù - divenne discepolo e l'interprete
di Nisargadatta.
A differenza di Nisargadatta, Ramana non ebbe maestri, non lavorò, non si sposò.
Ragazzino, dopo una tremenda esperienza di alterazione della coscienza fino alle
soglie della morte, abbandonò il villaggio natale e un richiamo incoercibile lo
trasse a un colle, nei pressi di Tiruvannamalai, celebrato in inni bellissimi,
Arunacala, dove visse in solitaria meditazione e dove in seguito sorse l'asram
che prese il suo nome.
Maruti invece crebbe in città, e a Khetwadi, nella suburra di Bombay dove ancor
oggi abita, avviò giovanissimo, insieme al fratello, un piccolo commercio di
tabacchi, dando via via il benvenuto a molti figli. Quando aveva da poco varcato
i trent'anni, un avventore, Yashwantrao Baagkar, lo conduce da Sri
Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, e Maruti sotto la sua guida
intraprende una disciplina presto costellata di esperienze mistiche.
L'"esplosione" interiore avviene dopo tre anni, poco prima della morte del
maestro, di cui Maruti assumerà il cognome. Dopo un periodo di solitario
vagabondaggio, il ritorno a Bombay, l'abbandono definitivo del commercio, e
l'inizio dell'ultima fase, durante la quale lo conobbe Frydman.
Sono trascorsi trent'anni dalla morte di Ramana, ed ora, anche la vecchia bocca
di Maharaj, a 85 anni, in un corpo assalito dallo stesso male del Maharshi, si
avvia al silenzio.
Intontito dalle pratiche yoga che da qualche tempo gli procurano estasi
sporadiche, visioni e abbagli subitanei, Maruti un giorno si reca da Maharaj,
gli si accoccola ai piedi, e attende. Non sa che quella volta sarà l'ultima, non
solo perché il maestro di lì a poco cesserà di vivere, ma anche perché ciò che
sta per dirgli è la massima condensazione dell'Advaita
Vedanta, e insieme la via diretta
all'esperienza
metafisica: "Tu sei il Supremo...
agisci in conformità". E aggiunge: "Credilo con fermezza, non dubitarne mai,
ricordalo senza intermissione". A Maruti non restò che obbedire. "Continuai la
mia solita vita, ma ogni momento libero lo passavo a ricordare il maestro e le
sue parole. Poiché non le ho dimenticate, mi sono realizzato". Così dice oggi
Nisargadatta, a chi lo interroga sulla sua iniziazione. E scende nella stanza,
mentr'egli parla con sconcertante umiltà del "grande passo", un silenzio
profondo, come quando in un crocchio all'improvviso si scatena un epilettico e
gli astanti, raggelati, si fanno muti. Quando il vecchio dichiara: "Sono il
Supremo", è fatale che qualcuno, tra gli astanti, lo sogguardi con un'ombra di
malcelata ironia, e il vecchio, sollecito, gli si volge sorridendo: "Lo so, è
difficile crederlo. Ma se ti dico: metti a fuoco l'"io sono", non puoi esimerti.
L'"io sono" è la tua prima percezione al risveglio. Domandati da dove viene o
osservalo quieto. Immancabilmente scoprirai tutto ciò che non sei: il corpo, i
sentimenti, i pensieri, le idee, le proprietà esterne e interne. Sono tutte
auto-identificazioni infedeli. Per causa loro, ti prendi per ciò che non sei".
"Ma io, chi sono?". Per spiegare l'inspiegabile Maharaj finge di
narrare una fiaba: "Nell'immensità della coscienza appare una luce, un puntolino
veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e concetti, come
la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti ricrei ogni volta il
mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va' dentro, e vedrai che quel punto
luminoso è l'"io sono", come il riflesso nel corpo dell'immensità della luce.
Solo la luce è, tutto il resto appare".
"Durante la veglia, la coscienza si sposta di continuo da una sensazione
all'altra, di percezione in percezione, da un'idea all'altra, senza fine. La
consapevolezza è dell'interezza e della totalità della mente penetrate
direttamente. La mente è come un fiume che scorre nel letto del corpo, per un
momento t'identifichi con un'onda e la chiami "il mio pensiero". Tutti i tuoi
oggetti di coscienza fanno la mente; la consapevolezza è lo stato in cui la
coscienza è colta nella sua interezza".
L'interrogante vive, mentre ascolta, una strana esperienza: le parole sono
semplici, non c'è quasi ridondanza nel fraseggiare di Maharaj. Scarse le
consuete metafore vedantine, mute le belle storie della letteratura ascetica.
Campito nella nudità del sistema, il solo apologo di Janaka, alle prese col suo
sogno di mendicante: Quando si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io
un re che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere re?". E
il maestro: " Né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro. Voi siete e insieme
non siete ciò che pensate di essere! Lo siete perché agite in conformità. Non lo
siete perché non dura. Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto
muta. Ma voi siete ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse Janaka: "Sì, non
sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato".
L'ascolto ininterrotto e quieto scava, tra il senso delle parole e il loro
riverbero nella coscienza, un varco impercettibile, una cesura sottolineata
appena, come le linee di biancore sotto gli occhi dei santi imbambolati, in
certe icone bizantine, scatenano la contemplazione del vuoto nella forma.
Così s'innescano nell'ascolto la ribellione della mente ghermita dal silenzio
nella parola e il tumulto del cuore, perché tra la parola e il silenzio c'è di
mezzo la tempesta della vita, l'abiezione della malinconia, l'impotenza di
raggiungere la quiete costante. E l'innocua triade: mente, coscienza,
consapevolezza; il positivo memento: "Sono"; il saggio consiglio: "Se vuoi
vivere una vita felice, cerca ciò che sei", si convertono, al mero ascoltare, in
puntute saette che trapassano il comune buon senso. L'"io sono" assume le
sembianze di un drago apocalittico che ingoia il tempo risputando la persona a
pezzetti; il cosmico metronomo: mondo fisico, mentale, supremo, in andata e
ritorno, con forma e senza-forma, diviene il sordo rimbombo dei colpi di
martello in un'officina metallica dove un mitico Fabbro, adirato e ossesso,
grida Sono Quello!
Smarrito, sconvolto, lacerate le sue credenze più salde, "Sono nato e morirò",
l'interrogante ricorre all'estremo tentativo di contestare una parola che l'ha
morso e lo attanaglia alla gola: "Perché parlate?".
Maharaj, a quel punto, convoca il
Buddha - ed è una delle rarissime volte
in cui cita qualcuno, a parte il maestro -. Chiama in causa l'Illuminato per
spiegare: l'annuncio è la grande arma. Propagare che possiamo raggiungere, che
siamo già pronti per il salto oltre il nome e la forma, la nascita e la morte,
il pensiero di essere e l'assillo del non-essere, rende automaticamente
immortali; ed è l'unica esperienza d'immortalità consentita nella condizione
umana. Ora l'interrogante è placato. Ha vissuto nell'ascolto il supplizio del
bardo, la vicenda dell'anima catapultata nello stato intermedio dopo la morte.
Quanto tempo è trascorso? Attimi, minuti, ore? "Com'ero stamattina, prima di
ascoltare? E ciò che ho appreso finirà nel mucchio tra le altre nozioni, o lo
dimenticherò? E che cosa ricordare prima: "Sono", "Non sono la persona", "Sono
Quello"?". Al valico della domanda "Chi sono?" si affaccia Quello. L'universo (paramakasa)
è la sua sterminata espansione oltre l'essere e il non-essere; l'interno
testimone (avyakta) è la sua infinitesima concentrazione oltre il corpo e
l'io-persona; il quarto stato (turiya) è la sua indenne dimora, oltre la veglia,
il sogno e il sonno profondo. Come sostanza realissima è essere (sat); come
consapevolezza autofondata è coscienza (cit); come gioia della completezza è
beatitudine (ànanda). Il vero maestro (sadguru) è la scoperta dell'"Io sono
Lui", mentre il molteplice, fuori e dentro di me, è solo apparenza. L'unica
efficace disciplina (sadhana) è l'imperterrita contemplazione di Lui; qualsiasi
altro sforzo gioverà solo per raggiungere lo sfinimento oltre il quale è il
non-fare, il non-attendere i frutti dell'azione, il non-desiderare quello che
già si ha essendo Lui, il non-dipendere dagli schiavi del tempo: il piacere come
attesa e il dolore come ricordo.
Alla domanda: quando s'intona un mantra, che cosa realmente accade, Maharaj
risponde: "Il suono crea la forma per accogliere il Sé".
Avvezzo come ogni indù a convertire le più vertiginose astrazioni in materia
palpitante e concreta, ai suoi occhi il Sé è letteralmente più vicino del
respiro, è il battito stesso del cuore - atman su, atman giù - ma sempre e solo
qui-ora.
Che cos'è questo Arcano che lampeggia nei Veda, riemerge nel Vedanta, ritma gli
inni, i dialoghi, i canti, gli introiti alla sapienza?
Il punto al centro del mandala, la "cella" ombelicale nel tempio, il battito del
piede segnatempo, il ritmo ininterrotto del tamburo, la pupilla saettante e il
dito puntato sul cuore della danzatrice irrigidita, tutti questi mezzi efficaci
dell'arte rituale accennano all'Arcano Maggiore, mortificato dal nome che riceve
in traduzione - trascritto minuscolo o maiuscolo: sé, Sé, o nei linguaggi
buddhisti: non-sé (anatman).
Da quali sconfinati abissi della memoria emerge nella sapienza indiana l'Arcano
del Sé?
In un libro di grande valore, ingiustamente
ignorato, Maryla Falk tentò lo scandaglio del mito psicologico nell'India
antica, e quasi ne fu sopraffatta. Stasi dell'estasi osò definire la Falk il
vertiginoso indiamento che largisce al meditante l'esperienza del Sé.
Un'esperienza in cui "domina la coscienza dell'infinità, ... della cosmicità, e
allo stesso tempo la coscienza dell'io, ma con un carattere di vastità smisurata
che non conosce i limiti della coscienza quotidiana dell'"io"
".
Ed è lì, sullo scrimolo che distingue nella veglia la prima dalla terza persona,
e nel sogno l'identità del sognatore rispetto al sognato, e nel sonno profondo,
invece, li rimescola nella placenta dell'oblio, su quel lembo sottile di
coscienza calcata dall'orma della persona, è il confine insidioso tra follia e
sapienza, il discrimine che sconcerta i "sani" e trascina il folle nei suoi
intontimenti orgiastici, nei cupi deliri, nelle malinconie di pietra. La fredda,
pallida conversione dell'oniromante nel moderno analista è l'unico tentativo di
ripristinare l'antica sequenza: l'io incatenato, il Sé rispecchiante,
l'analista-specchio.
L'ultimo
Jung, sfiorando il pensiero di Ramana
Maharshi, fu conquistato da questa quarta dimensione dell'indiamento, pur
riscontrandovi una sorta d'impareggiabile contraddizione: "... L'India è
pre-psicologica. Quando cioè parla del "Sé", pone un "Sé". La psicologia non fa
così. Non che neghi l'esistenza del conflitto drammatico, ma si riserva la
povertà, o la ricchezza, d'ignorare il
Sé.
Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Sé; ma siamo consci
del fatto che percepiamo, con mezzi limitati, qualcosa di sconosciuto e lo
esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui ignoriamo se siano o no
conformi alla natura di ciò che dev'essere conosciuto ".
Jung non ha incontrato Maharaj. Se si fossero parlati, è quasi certo che il
vecchio gli avrebbe chiesto: "Chi formula la domanda? E chi c'è dietro la
persona che la formula?".
"In realtà non ci sono persone, ma fasci di
memorie e abitudini...";
"Il Supremo è un unico blocco compatto di realtà";
"La condizione indisturbata dell'essere è la
beatitudine. La condizione disturbata è ciò che appare come mondo. Nella
non-dualità c'è la beatitudine; nella dualità, l'esperienza...";
"La realtà è oltre la descrizione. La conosci solo
se sei essa";
"...Il mio silenzio canta, la mia pienezza è
colma, non mi manca niente. Non puoi conoscere la mia terra finché non ci sei
dentro".
E in quel dire il vecchio aduna una forza di
gigante, come se dal piccolo corpo, accartocciato e corroso dagli anni, si
levasse una lingua di fiamma o un brivido di energia che gli elettrizza lo
sguardo.
"Non avete paura di morire?".
"Ti racconterò com'è morto il mio maestro. Dopo
aver annunciato che la sua fine era prossima, smise di mangiare, senza
modificare il ritmo della vita quotidiana. All'undicesimo giorno, nell'ora della
preghiera, stava cantando e batteva vigorosamente le mani, all'improvviso morì,
tra un battere e un levare, come una candela subito spenta".