"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
DOMANDA: Lei ci ha parlato dei
darsana. Vuole adesso, tornando al Vedanta, parlarci di Sankara
?
Per parlare di Sankara è
necessario innanzi tutto riportarsi molto indietro
nella storia della filosofia indiana, perché egli non si presenta come un
rivoluzionario, come un pensatore che pretende a un ricominciamento, facendo
"tabula rasa"del passato. Egli è inserito, al contrario, in una lunga
tradizione, tradizione che è in primo luogo quella delle "Upanishad", di cui
è il commentatore più celebre. Dunque mi sembra opportuno soffermarci sulle
"Upanishad".
Le "Upanishad" sono un insieme di
testi, gli uni in prosa, gli altri in versi, i più antichi dei quali
risalgono all'inizio del I millennio a.C. Il termine "Upanishad" è di per se
stesso rivelatore. E' rimasto a lungo oscuro per la filologia occidentale,
ma si è finito per trovare l'accordo su un'interpretazione che posso
riassumere brevemente così: le "Upanishad" sarebbero la scienza esoterica
delle corrispondenze di ogni specie, che reggerebbero i diversi livelli
della manifestazione. Più in particolare le "Upanishad" si presenterebbero
come la scienza dei parallelismi, delle omologie, che si possono stabilire
tra il corpo o più esattamente tra la persona umana, il sacrificio e il
cosmo. Soprattutto nelle "Upanishad" più antiche un gran numero di passi ci
mostrano che una certa realtà della persona corrisponde a una certa parte
del sacrificio, corrisponde a una certa struttura del cosmo, nel senso, per
esempio, in cui si può dire che il respiro dell'uomo corrisponde alle
correnti cosmiche che fanno muovere gli astri, i pianeti o che l'occhio
dell'uomo, con la luce che vi brilla, è omologo al sole, eccetera.
Come è stato possibile, a partire da
queste premesse, delineare una metafisica? Perché dopo aver fatto
corrispondere gli elementi costitutivi della persona, del sacrificio e del
cosmo ci si è chiesti se non ci fosse un'origine comune di quelle
corrispondenze, si è cercato in particolar modo, riguardo alla persona
umana, se l'intimo principio della sua unità non dovesse essere, a sua
volta, comparato a un altro elemento sottostante a tutti i fenomeni esterni,
all'unità che sottostà ai fenomeni esterni.
Così si sono enucleate due nozioni
assolutamente fondamentali, da una parte quella dell'atman, del "sé",
di ciò che dall'interno unifica la persona, costituisce l'origine unica dei
suoi atti, dei suoi pensieri, dei suoi comportamenti in generale.
Dall'altra, prolungando la speculazione dei "Brahmana", sul sacrificio in
particolare, la nozione di qualcosa che sarebbe come il fondamento nascosto
dei fenomeni, il fondamento nascosto dell'organizzazione dei fenomeni in un
cosmo unico, e si è chiamato brahman questa entità.
La mossa decisiva delle "Upanishad"
è consistita, dopo aver messo in parallelo, l'atman e il brahman,
nel superare la tappa seguente, cioè nel porre con una arditezza
straordinaria il principio della loro unità. Da quel momento prendeva senso
l'idea che la persona umana non fosse semplicemente un'entità minima,
perduta nel divenire universale, ma che possedesse una dignità ontologica,
perfettamente identica a quella dell'assoluto. Quindi le "Upanishad", almeno
nelle parti più speculative dei testi, sono piene di una specie di ebrezza
mistica, dell'allegrezza in cui si esprime la meraviglia di scoprire che, in
un certo modo, l'interno contiene già l'esterno, che la persona umana è in
un certo senso uguale alla totalità del cosmo.
Questa scoperta si è espressa prima
in un linguaggio figurato, non ancora concettuale. Per fare un solo esempio,
quando vogliono far comprendere che cosa è in realtà l'atman i
pensatori delle "Upanishad" dicono, da una parte che risiede nel cuore, modo
approssimativo per indicare che si trova al centro della persona, e
dall'altra che è più piccolo del cuore stesso, più piccolo della centesima
parte di un chicco di miglio. In altre parole, ci si sforza di orientare
l'immaginazione verso la rappresentazione dell'infinitamente piccolo e poi,
al contrario, si incoraggia l'immaginazione a slanciarsi nella direzione
opposta, dicendo: questo atman, situato nello spazio del cuore, è al
tempo stesso più grande del corpo, più grande della terra, più grande dello
spazio tra la terra e il sole, più grande dello spazio tra il sole e gli
astri più lontani. Questa specie di coincidenza dei contrari è il modo
proprio dell'immaginazione di pervenire alla nozione di una entità che
trascende lo spazio e trascende il tempo.
Si può aggiungere ancora che le "Upanishad"
non costituiscono, beninteso, sotto questo aspetto, un inizio assoluto.
Molti indizi ci inducono a pensare che un passato, una tradizione già antica
di raccoglimento, di esercizi d'ascesi, di "yoga" ante litteram, ha
trovato espressione in questi testi. Ciò che fino ad allora era stato
oggetto di pratiche più o meno empiriche e selvagge ha trovato, ha
cominciato a trovare la sua giustificazione. L'identità dell'"atman" e del "brahman"
è apparsa come la chiave dei fenomeni di estasi, cercata fin qui a tentoni
senza comprendere le loro autentiche condizioni di possibilità.
Un'ultima nozione vorrei ricordare,
quella di karman e il correlativo samsara o "trasmigrazione
delle anime". In effetti è nelle "Upanishad" antiche che quelle due nozioni
cardinali del pensiero indiano classico appaiono la prima volta, per una
ragione che non ha nulla di contigente. Infatti dal momento che i pensatori
delle "Upanishad" avevano messo in luce l'essenziale eternità dell'"atman",
la sua intemporalità, si trovavano a dover conciliare quella intemporalità
di principio con i dati immediati dell'esperienza comune e cioè l'estrema
limitazione della durata della vita umana. Hanno allora immaginato che
l'anima, non avendo né inizio né fine, fosse affetta da una fondamentale
ignoranza, anche essa senza inizio, senza età, che la spinge a incarnarsi,
la fa trasmigrare indefinitamente di corpo in corpo e la fa compiere atti
che ricevono nelle successive esistenze la loro retribuzione.
Questo in sintesi il capitale di
nozioni che le "Upanishad" hanno trasmesso alle età ulteriori. Ma si deve
sottolineare il fatto che si tratta essenzialmente di stimoli vigorosi,
profondi, alla riflessione filosofica, ma non si può ancora, a questo
stadio, parlare di filosofia propriamente detta, perché la sistematicità, la
logicità, la ricerca di un accordo tra interlocutori in una controversia,
che sono i presupposti della discussione e della ricerca filosofica, qui non
si trovano ancora riuniti. E' per questo che nelle età successive si faranno
dei commenti alle "Upanishad" con cui si tenterà di dare a quei testi, di
proiettare su quei testi, forse, la coerenza, la sistematicità che non
possedevano ancora. Al primo posto tra quei commentatori, non il primo in
senso cronologico, ma colui che per primo ha lasciato la sua impronta nel
tempo, troviamo il maestro Sankara, Sankaracaria.
DOMANDA: Ci può parlare di
Sankara in particolare?
Sankara è vissuto probabilmente da
qualche parte dell'India nel corso dell'VIII secolo della nostra era. Non
sappiamo con certezza, né la data di nascita, né la data di morte. Sappiamo
che discendeva da una famiglia di brahmani dell'India del Sud-Ovest, una
regione che corrisponde a quella che oggi si chiama Mysore. Sappiamo anche
dai racconti biografici, ma anche lievemente agiografici, che ci ha lasciato
la tradizione, che ha abbandonato assai presto la sua famiglia ed è divenuto
un "sanyasin", un "rinunciante", secondo una tradizione indiana già antica
al suo tempo, e da quel momento la sua vita è diventata tutt'uno con la sua
istruzione spirituale presso un maestro, cui sono seguite diverse
peregrinazioni attraverso l'India.
La sua attività è stata da un lato
un'attività di predicazione, di discussione con i sostenitori di altre
dottrine, ma mentre costruiva la sua opera filosofica, i suoi commenti, si
preoccupava al tempo stesso, dovunque passava di riformare l'induismo, di
correggere certi abusi, certe degenerazioni del culto, che qua o là
constatava. E si deve dire che una delle ragioni della sua estrema
importanza, della celebrità che lo ha accompagnato fino ai nostri giorni è
da cercare proprio in questa attività di maestro spirituale, di riformatore
religioso, condotta in perfetto parallelismo con la sua attività filosofica
in senso stretto.
Si sa che ha fondato in quattro
parti dell'India, quattro "mat", quattro monasteri, la cui finalità era
quella di difendere l'ortodossia della tradizione, preservare e diffondere i
testi, istruire nuove generazioni di discepoli. Nella misura certamente
limitata, in cui l'induismo contemporaneo dispone di autorità, di voci
autorevoli, si può dire che sono i priori, i superiori di questi quattro
monasteri, che ancora oggi portano il nome di Sankaracaria, a detenere
quell'autorità. Sembra d'altronde che Sankara sia morto assai giovane. La
leggenda vuole che sia morto a trentadue anni. Ma questo non sembra molto
probabile data l'importanza degli scritti che ci ha lasciato. Sembra
difficile credere che in una vita così breve abbia potuto redigere un'opera
ccosì importante e al tempo stesso prodigare tante energie nella propaganda
e nelle riforme religiose.
La sua opera si compone
essenzialmente di commenti a dieci "Upanisad" maggiori, più un commento alla
"Bhagavadgita", più un commento ai "Brahmasutra", la prima sistematizzazione,
sotto forma di aforismi, apparsa nell'ambito del "vedanta". Bisogna
aggiungere un testo a parte, nel senso che non è un commento, ma un trattato
autonomo, metà in prosa metà in versi, che si chiama "Upanisahasri" o
"Trattato dei mille insegnamenti", un testo, sia detto di passaggio, che
potrebbe servire benissimo di introduzione all'opera di Sankara, perché
mette in scena un maestro e un discepolo, con il maestro che illumina per
gradi il discepolo, partendo dalle domande che quello si pone, dalle
difficoltà che incontra nell'assimilare i suoi insegnamenti.
DOMANDA: Professor Hulin, ci può
illustrare il suo pensiero?
Il pensiero di Sankara non è del
tutto assimilabile a quello di un puro filosofo, nel senso che siamo
abituati a dare questo termine, in Occidente, almeno dopo Descartes. Si
potrebbe dire anche, usando in mancanza di meglio le nostre categorie, che
Sankara si presenta tanto come teologo quanto come filosofo.
Non è affatto un caso se la sua
opera è essenzialmente quella di un commentatore. Egli stesso si considera
innanzi tutto un commentatore, perchè Sankara e, in genere, quelli che si
situano nella sua stessa tradizione ritengono che la verità ultima, in
quanto tale, non può essere colta direttamente dallo spirito umano, e che,
di conseguenza, gli deve essere fornita per mezzo di una rivelazione
esterna, rivelazione costituita appunto dal testo del "Veda", di cui le "Upanisad"
rappresentano in qualche modo la parte più propriamente filosofica.
Ciò che si potrebbe considerare come
un semplice scetticismo o una dimissione della ragione, attiene invece
strettamente al tema più importante della dottrina del "vedanta" e senza
dubbio anche di quella upanisadica: alludo qui alla nozione centrale di "maya"
o di "illusione cosmica". Questa nozione presuppone infatti che, al di là
degli errori particolari, individuabili ed emendabili, che possiamo
commettere tanto nella sfera pratica quanto in quella teorica, in ordine a
qualsiasi problema, un'altra forma di errore, più essenziale, più avvolgente
ci minaccia o meglio ci governa, quella che ci fa sentire come esseri
finiti, limitati nel tempo e nello spazio.
Parlavamo poco fa delle "Upanishad"
e dello scarto estremo, secondo quei testi, tra l'identità atman-brahman,
da una parte, e la diretta esperienza sensibile dall'altra. Si può dire che
la nozione di maya in un certo senso esprime la discrepanza così
avvertita, esprime l'immensità dello scarto. "Maya" vuol dire che al di là
di ogni errore particolare, noi viviamo dentro una forma di esperienza
fondamentalmente falsa, erronea, che popolarmente talvolta viene paragonata
al sogno. Più precisamente Sankara e gli altri ritengono che il linguaggio,
o per meglio dire la maniera con cui il linguaggio - che del resto era stato
già da gran tempo analizzato dai grammatici indiani - ripartisce il reale in
cose e sostanze, in qualità portate dalle cose, in azioni esercitate dalle
sostanze le une sulle altre, in conclusione, il linguaggio nella sua
struttura stessa frammenta il reale.
In un certo modo nessun discorso che
passa per il linguaggio - e per definizione tutti vi passano - nessun
discorso in quanto tale è capace di restituire l'unità assoluta di tutte le
cose, che le "Upanishad" dichiarano di aver scoperto. Si potrebbe dire che
in un certo modo per "Sankara" la "maya" condiziona tutto il nostro
linguaggio, e quindi, per contraccolpo, tutti gli orientamenti del nostro
pensiero, di modo che, dirà "Sankara", non potremo mai neanche sospettare
che qualcosa come il brahman esiste, e ancor meno scoprire la nostra
identità profonda col brahman, se ci dovessimo valere soltanto dei
nostri lumi. Di conseguenza l'idea stessa del "brahman" è qualcosa che ci
deve essere dato dall'esterno. E qui incontriamo la grande idea di una "parusia"
dell'assoluto.
Sotto la forma delle parole vediche
è l'assoluto stesso, è il brahman, che si abbassa, per così dire, al
nostro livello, che si mostra a noi nella sua pura essenza, e ci invita a
congiungerci con esso. Quelle che vengono chiamate le "grandi parole"
upanisadiche, di cui il celebre "tat tvam asi" "tu sei tutto questo"
costituisce l'archetipo, sono interpretate come la cifra della nostra
condizione, la chiave di volta di ogni possibile riflessione, punto di
arrivo ultimo, verso il quale siamo indotti a procedere. Dunque il pensiero
di Sankara, pur facendo posto, lo vedremo subito, pur dando fiducia alle
potenzialità della ragione, ritiene che la ragione non si può mettere in
cammino se una luce, per così dire, non brilla dall'altro capo del tunnel,
se il suo punto d'arrivo non le è indicato in anticipo dalle parole
upanisadiche.
Quindi in un certo modo il percorso
filosofico di Sankara e del "vedanta" in generale sarà un'insieme di metodi,
messi a punto per stabilire una relazione sempre più stretta tra due logiche
apparentemente incompatibili, la logica dell'unità, della non dualità, più
esattamente del "advaita", che costituisce il punto d'arrivo, e la logica
della pluralità indefinita, che è naturalmente caratteristica della forma di
esperienza strutturata dalla percezione sensibile, strutturata dal
linguaggio, nella quale si compie il nostro sviluppo. E' perciò che Sankara
si presenta al tempo stesso come un commentatore e come un pensatore
autonomo. Non si tratta di due ruoli eterocliti, ma dello sforzo di esegesi
del "Veda" e delle "Upanishad" da una parte, e dello sforzo di riflessione
razionale pura dall'altra, colti nella loro integrazione reciproca, fermo
restando che il primato spetta alla rivelazione vedica.
DOMANDA: Qual è, dal punto di vista
della ragione, il pensiero di Sankara?
L'aspetto propriamente razionale del
pensiero di Sankara risalta con evidenza fin dall'introduzione che ha
scritto alla sua opera più importante, il commento al "Brahmasutra". In modo
caratteristico, prima di abbordare il primo aforisma, il primo "sutra",
Sankara fa precedere il suo commento da una esposizione, che, in certo modo,
riassume tutto il successivo orientamento del suo pensiero, o che almeno lo
contiene in germe. Questa esposizione è imperniata sulla nozione di "adyasa",
che si può tradurre con "sovrapposizione", il fatto di lasciar apparire
l'uno sull'altro in trasparenza, per così dire, due principi, del resto,
assai lontani l'uno dall'altro.
Sankara parla della sovrapposizione
del "cit" e dell' "acit", letteralmente ciò che pensa, ciò che è cosciente e
ciò che non pensa, ciò che non è cosciente. Concretamente che cosa significa
la sovrapposizione reciproca del "cit" e dell'"acit"? Sankara parte da una
definizione a priori di questi due principi. Da un lato quello che
corrisponde a ciò che chiamiamo soggetto. E Sankara ha un termine tecnico
assai simile al nostro quando dice: quello che si enuncia attraverso la
nozione di "io", che parla in prima persona ed è sempre dal lato dell' "io",
di colui che parla, che pensa, eccetera. Dall'altro lato quello che si
enuncia alla terza persona, il "tat", il "ciò", l'oggetto, ciò su cui il
soggetto riflette o che percepisce, eccetera. In che consiste allora la
sovrapposizione? C'è sovrapposizione nella misura in cui, malgrado la loro
assoluta distinzione di essenza, i due principi appaiono in realtà uniti,
saldati, quasi confusi l'uno con l'altro, in una esperienza centrale. A
partire di qui Sankara sviluppa il suo metodo che è l'esperienza
dell'incarnazione o, se si preferisce, il fatto per il soggetto, per il
principio spirituale puro, per l'io, in ciò che ha di assoluto, di sentirsi
immediatamente coordinato e solidale con un particolare segmento della
manifestazione, ciò che viene chiamato, che egli stesso chiama il corpo,
anzi "corpo proprio". Questo fenomeno del corpo proprio, che si trova al
centro di molte correnti del pensiero contemporaneo, possiamo dire, io
credo, senza anacronismo, senza esagerazione, che è il vero punto di
partenza di Sankara, almeno quando si considera l'aspetto più propriamente
razionale della sua dottrina.
Sankara si interroga al tempo stesso
sul miracolo e sullo scandalo del fenomeno dell'incarnazione e del corpo
proprio, nel senso in cui ciascuno di noi ha coscienza non soltanto di
essere puramente e semplicemente se stesso, ma di comportare ogni specie di
determinazioni, per esempio il fatto di essere grande o piccolo, bello o
brutto, il fatto di occupare un certo posto nel mondo, di appartenere ad una
certa casta, di essere giovane o vecchio, eccetera, eccetera, determinazioni
di ogni specie, di cui Sankara, in un passo decisivo, mostra che traggono
origine dal fenomeno del corpo proprio. E nella linea di questa
interrogazione mostra anche che l'esistenza per noi di scopi nella vita, di
interessi positivi, di desideri o, al contrario, l'esistenza di timori, di
paure, di pericoli, è puramente legata al fenomeno del corpo proprio. Il
corpo proprio è la presa di possesso da parte del soggetto, di un insieme di
determinazioni biologiche, fisiche, che diventano più che sue proprietà, che
si amalgamano col suo essere e gli permettono da un lato di agire nel mondo,
di far presa sul mondo, ma all'inverso consentono anche al mondo esterno di
aver presa sul soggetto, che viene così a trovarsi implicato nell'intera
rete delle cause e degli effetti. Di conseguenza il soggetto non si avverte
più nella sua assolutezza, ma solo nella sua particolarità, affetto da
qualità e da difetti, da una molteplicità di determinazioni, insomma.
Sviluppando e sistematizzando in una serie di movimenti successivi questo
tema iniziale, Sankara mostrerà che l'idea indiana del "samsara", della
reincarnazione, - del "karman" e della conseguente reincarnazione, - prende
senso nel quadro della incarnazione. Ma, lo ripeto, per lui si tratta in
qualche modo di estraneità assoluta, di scandalo.
Sankara dedicherà molto tempo a
mostrare l'abisso ontologico che separa il "cit" dall'"acit", il principio
pensante dal non pensante. Quindi la sua filosofia consisterà nel mostrare
da una parte l'origine di questa sovrapposizione: come questa situazione,
che in linea di principio non dovrebbe aver luogo, ma che di fatto è
presente, si è potuta produrre e, correlativamente, per quale via sarebbe
possibile ridurla - dato che è evidente che si possono, si devono far
rientrare nel quadro della sovrapposizione, esperienze, esistenze passate e
servitù, nel senso di dipendenza riguardo alle circostanze esterne, quindi
fondamentalmente, sofferenza e trasmigrazione.
Si ricollega pure a questa idea di
sovrapposizione una teoria delineata un po' prima di Sankara, da alcuni suoi
predecessori, come Gaudapada, nel suo commento alla "Mandukya-Upanisad" e
che sarà destinata ad avere fortuna nel "vedanta": la teoria dei quattro
livelli della coscienza. Li possiamo enumerare: lo stato di veglia
ordinario, l'esperienza del sogno, l'esperienza del sonno profondo e infine
un quarto tipo di esperienza misterioso e singolare, che non si comprende
che in antitesi ai primi tre. Per ciò che concerne i primi tre, si possono
definire come modi particolari di sovrapposizione. La coscienza vigile, la
coscienza ordinaria della veglia non esprime né più né meno che
l'identificazione essenziale dell'io o, se si preferisce, del sé, dell'"atman"
con il corpo preso nel senso ordinario del termine, con i sensi e i poteri
che sono suoi propri. Nella misura in cui mi sento completamente solidale
con il corpo nel bene e nel male, io sono nello stato di veglia e tutti gli
altri con i quali sono in rapporto in questo stato di veglia hanno la stessa
esperienza. La condizione di sogno è compresa anch'essa come una forma di
sovrapposizione, di identificazione con il corpo, non più con il corpo nel
senso ordinario della parola, ma con il "corpo sottile". In genere i
filosofi indiani intendono con questo termine le strutture sottili,
nascoste, inaccessibili dell'esperienza immediata, contenute nel corpo, in
quell'involucro esterno che è il corpo, e che sono responsabili della
percezione, sono le potenze sensoriali della comunicazione verso l'interno
dei messaggi dei sensi, del giudizio, eccetera. Tutte queste strutture,
tutti questi poteri mentali, dal punto di vista vedantico e indù in
generale, non appartengono affatto all'io o al sé in quanto tale, sono
funzioni mentali, funzioni biologiche, in un certo senso, esprimono il
rapporto dell'uomo e del mondo: solo nella misura in cui si isolano queste
entità dal resto del corpo, si è indotti a parlare di corpo sottile.
D'altronde si immagina che è proprio a questo livello che gli atti lasciano
le tracce di ciò che sono stati. Quindi nel sogno ci identifichiamo soltanto
con il corpo sottile, nella misura in cui non sappiamo più troppo bene che
cos'è, né dove si trova il corpo grossolano, il nostro corpo nel senso
ordinario del termine. Stesi sul nostro letto, ci immaginiamo su un aereo,
su un campo di battaglia o in qualsiasi altro luogo e, di conseguenza, ci
sentiamo sì sempre più legati a un corpo, ma questo corpo è solo quello
dell'immaginazione, del desiderio, della memoria, eccetera. In questo senso
parliamo dunque di identificazione con il corpo sottile. Nel sonno profondo
il "vedanta" sostiene che il principio spirituale non è soggetto a eclissi,
ma in un certo modo lo attraversa e vi resta presente. Qui, poichè manca il
sogno, viene meno l'identificazione con il corpo sottile, ma
misteriosamente, il sentimento che non si può esistere senza il corpo, che
si deve pur esistere da qualche parte, anche se si è totalmente incapaci di
dire dove, sussiste ed è la nozione che i vedantin chiamano "corpo causale".
E' infine la speculazione vedantica, al di la di questi tre corpi,di questi
tre livelli di identificazione,di questi tre livelli di sovrapposizione, ha
immaginato che un'altra forma, radicalmente diversa di esperienza dovesse
essere possibile, in seguito all'esperienza dell'estasi o come risulato
ultimo del percorso spirituale, proposto dal "vedanta", proprio nella
realizzazione del fine più autentico, dell'identificazione dell'"atman" con
il "brahman". Una volta scomparso ogni sentimento di essere congiunto con un
corpo, di essere solidale con un corpo, si incontrerebbe uno stato che non
possiamo neanche immaginare, uno stato di cui non abbiamo alcuna
rappresentazione. E' perciò che, almeno in un primo tempo, viene chiamato
semplicemente il "quarto", quello che è al di là degli altri tre, perché
corrisponderebbe a qualcosa di inaudito, qualcosa di cui non avremmo idea,
se la rivelazione vedica non ci avesse istruiti in anticipo della sua
possibilità e della sua infinita desiderabilità, dato che, attraverso la
cessazione della sovrapposizione, esso rappresenta ciò che si chiama
"liberazione", il superamento definitivo della continua oscillazione tra la
speranza e la disperazione, tra il piacere e il dolore.
DOMANDA: Torniamo alla nozione di
cit e di acit. Non trova che c'è qualcosa di
contraddittorio nella nozione di acit?
Certo ci troviamo all'interno di una
dottrina che si qualificherà più tardi di "advaita", letteralmente di non
"dualità". Le "Upanisad" e, nel loro solco, il "vedanta" insegnano che in
ultima istanza tutte le cose sono uno, che non c'è altro che il brahman
e che le anime individuali non hanno realtà permanente, che trovano la loro
vera realtà nel brahman e che anche il mondo esterno è contenuto nel
brahman. Ora il "brahman" sarà considerato sempre sotto la forma di
una coscienza infinita. Il "vedanta" ulteriore definirà il "brahman" spesso
come sat, ossia "essere", cit, "pensiero" o "coscienza" e
ananda, "felicità". Ora come si colloca l'acit, il non pensante,
ciò che è inerte, materiale, in questa prospettiva? La contraddizione
sarebbe radicale e il "vedanta" non sarebbe un filosofia degna di questo
nome se, appunto, l'acit, il non pensante, godesse di una realtà
indipendente, insuperabile. In questo caso ci troveremmo nel quadro di una
filosofia sì, ma dualista. E invece siamo in un quadro di non dualità. Ciò
comporta che l'acit, il non pensante, non può avere che una realtà
apparente e provvisoria o, in altri termini, che è a quel famoso difetto di
cui siamo, fin dal principio, avvertiti, a quella "maya" o "avidya", come
anche vien detta, ignoranza o misconoscimento, di cui la rivelazione vedica
ci ha avvertiti in anticipo che i nostri poteri di percezione, di
ragionamento, di linguaggio sono affetti, è a quel difetto di visione, per
così dire, che si deve ricollegare l'apparente dispiegarsi delle molteplici
forme sensibili. Allora, per far capire la possibilità di una cosa del
genere, il "vedanta", e Sankara in particolare, ricorrono, almeno a titolo
di artifizio provvisorio, come strumento pedagogico, a quelli che si
chiamano tradizionalmente in sanscrito "nyaya", esempi che aiutano la
comprensione delle cose, parabole che guidano lo spirito verso ciò cui
accennano. Il "nyaya", uno dei "nyaya" più largamente usato in questa
prospettiva, sarà quello della corda e del serpente. A volte noi vediamo
muoversi nell'ombra qualcosa che presenta delle curve, dei meandri, e,
poiché in genere siamo avvertiti dal fatto che in India i serpenti si
trovano un po' dappertutto, in modi inaspettati, e del pericolo che
rappresentano, vedendo quella corda nella penombra la pigliamo per un
serpente, temiamo di essere morsi e indietreggiamo colti da terrore. Poi in
un secondo tempo, guardando la cosa più da vicino, vediamo una certa
rigidezza, un colore che naturalmente non è quello del serpente e ne
concludiamo che abbiamo avuto una paura ingiustificata, che avevamo preso
una corda per un serpente. Ma per tutto il tempo, eventualmente pochi
secondi, o pochi minuti, in cui l'illusione e la paura sono stati reali, in
un certo modo abbiamo creduto, in buona fede, di avere a che fare con un
serpente. Era come se avessimo un serpente davanti a noi ed è solo
retrospettivamente che neghiamo la sua esistenza. E' la relazione che il "vedanta"
chiama "vivarta", cioè "produzione illusoria". Avviene che, a partire dalla
corda, sola cosa reale, si produce una specie di trasformazione provvisoria
e apparente di quella corda, che ai nostri occhi passa per un serpente. Non
c'è una corda da un lato e un serpente dall'altro. C'è una corda che non
abbiamo riconosciuta, che abbiamo scambiata per un serpente. Sankara,
allora, applica questo paradigma al rapporto tra il mondo sensibile, l'acit
e il brahman. Il mondo sensibile non è altro che il brahman, è il
brahman stesso visto, per così dire, di traverso, il brahman
stesso misconosciuto. Non c'è creazione nel senso realista del termine, non
c'è una misteriosa trasformazione o deflagrazione del brahman nella
forma della realtà sensibile esterna, c'è invece il fatto primario della
nostra "avidya", della nostra ignoranza, per la cui influenza il brahman
appare ai nostri occhi sotto quella forma deflagrata e dispersa. Ma in
realtà, prima che si formi, mentre permane e dopo che si è dissolta la
nostra illusione, il brahman rimane totalmente immutato, totalmente
estraneo a quel processo illusorio, che non ha realmente luogo nella realtà
delle cose, che si svolge per così dire nella nostra testa, nella
rappresentazione. E' chiaro che ho enunciato così solamente il nerbo
dell'argomentazione. Sankara la sviluppa con ben altra precisione e
sistematicità e ancor più i suoi successori. Dunque è stato indicato un
inizio di risposta: c'è sovrapposizione del cit e dell'acit,
ma quella sovrapposizione non è possibile che sulla base dell'illusione
prima, che ha lasciato il brahman dispiegarsi, per così dire, ai
nostri occhi sotto un aspetto che non è il suo. A questo punto la via è
tracciata per tentare - con ogni specie di metodi, gli uni razionali, che
mostrano l'impossibilità di pensare fino in fondo nella sua coerenza la
molteplicità, gli altri d'ordine più spirituale, che mirano ad
interiorizzare, a meditare, a ruminare lungamente le famose "grandi parole",
il "tat tvam asi", e altre ancora - per tentare, dicevo, di portare a
coincidenza, un giorno, fatto e diritto. A quel modo che si produce, il
dissolversi del serpente nella corda, con la sua sparizione, da un istante
all'altro, non mediante una graduale ritrasformazione in corda, ma come per
uno scatto, quando a un momento dato ci si accorge dell'illusione, allo
stesso modo, ci promette Sankara, quando avremo compreso a fondo i
presupposti della dottrina, il mondo sensibile che sembrava la sola cosa
reale intorno a noi, ci apparirà in un modo al quale non possiamo dare per
ora un vero significato intuitivo e a cui di conseguenza dobbiamo credere
come ad una possibilità realizzabile nell'avvenire, ci apparirà come la
maschera dietro la quale si nasconde brahman, o piuttosto l'aspetto
particolare che il brahman ha preso per noi, come correlato della
nostra ignoranza e della nostra illusione. In maniera più astratta e al di
fuori di questo paradigma, la nozione di molteplicità sensibile, come
risultante di una illusione fondamentale, ma pure assai lunga e tenace ed
estremamente difficile da "ridurre", ha condotto Sankara sul piano
dell'epistemologia, a distinguere in ultima istanza tre livelli di realtà, e
se si vuole, anche tre livelli di verità delle asserzioni in rapporto a quei
livelli di realtà. C'è quello che si chiama il "pratibhasika", ossia ciò che
ha una realtà puramente apparente. Nell'esperienza sensibile, in riferimento
a questo tipo di esperienza, il famoso serpente di poco fa è un esempio di
qualcosa di "pratibhasika", di puramente apparente. Anche il sogno, nella
misura in cui si mostra incompatibile con il contesto dell'esperienza
sensibile, ci fornisce un altro esempio di dato puramente apparente. Al
contrario la corda e l'insieme della realtà sulla cui relativa permanenza ci
intendiamo nell'esperienza ordinaria, rappresenteranno la realtà empirica,
quella che Sankara chiamerà "vyavaharika", termine sanscrito che significa
ciò che è alla base di ogni nostra convenzione. "Vyavahara" significa
"trattato", "commercio", "regola del gioco". Dobbiamo avere credenze comuni
nella realtà delle cose, nella loro presenza, nella permanenza delle loro
qualità, nella solidità delle convenzioni sociali, di cui il linguaggio
stesso è una forma, per poter intenderci e per condurre i nostri affari
umani. Si tratta dunque di una verità che non è completamente disprezzata e
in un certo senso, d'altronde, lo stesso insegnamento spirituale è obbligato
ad iscriversi in questa pratica intersoggettiva. Ma c'è qualcosa al di là e
ciò che è al di là, ciò che esiste come verità suprema è evidentemente
l'assoluta unità. Se riprendiamo l'esempio della corda e del serpente, in
rapporto al serpente la corda e dell'ordine del "vyavahara", della realtà
empirica solida, e ciononostante sappiamo di poter risalire più in alto
della corda stessa. La corda è fatta di un certo materiale, di canapa, per
esempio, e la canapa rimanda ai suoi elementi costitutivi: acqua, terra,
eccetera, almeno secondo le concezioni indiane, e, passo passo, si risale
così da una causa materiale ad una causa materiale più alta, fino al "brahman"
stesso. Il brahman ci apparirà allora come la causa materiale
suprema, e in un certo senso si potrà dire che la corda e tutto il resto è
uscito da lui, ancora una volta, non per una genesi o una creazione reale,
ma per una specie di affermazione, di prolungamento dell'ignoranza
metafisica e quindi per un altro verso si ritiene che possa essere
riassorbito in lui. Questo terzo livello di verità, di verità ultima, è ciò
che si chiama "paramaharthika", nozione di "verità ultima" che traduce
questo termine.
DOMANDA: Dopo Sankara, quali sono
state le più importanti linee di interpretazione dei suoi
continuatori?
Innanzi tutto Sankara ha avuto molti
continuatori. Non è il solo commentatore dei "Brahmasutra", di cui la storia
ci abbia conservato il nome o le opere, anzi la sua scuola è stata la più
feconda, la più ricca, e forse si può dire che ancora oggi, in India, è la
sola viva. Quindi un'immensa letteratura si è sviluppata dall'opera di
Sankara e dai suoi commenti. In maniera alquanto schematica, credo che si
potrebbe ripartire i suoi discepoli, i suoi continuatori in due tendenze, se
non in due scuole ben determinate. Certi tra loro hanno messo l'accento
sull'aspetto essenzialmente interiore dell'esperienza spirituale, sul fatto
che è sempre in un dato individuo, nella sua interiorità, nel suo spirito
che riposa l'"avidya", il misconoscimento essenziale, e che di conseguenza
il percorso spirituale, dove ha luogo, è un'avventura puramente interiore.
E' in se stesso che l'individuo apprende a cambiare il suo sguardo sul mondo
e a passare dalla forma ordinaria dell'esperienza all'intuizione
dell'identità tra "atman" e "brahman".
Dunque questa scuola o questa
tendenza mette innanzi tutto l'accento sull'aspetto individuale, soggettivo,
proprio a ciascuno, dell'"avidya", dando vita a forme di pensiero
idealistiche, soggettivistiche, persino solipsistiche, assai nette. La
seconda linea di interpretazione non è assolutamente opposta alla prima, ma
piuttosto esprime per così dire, una sensibilità differente. In questa
seconda linea di interpretazione si accorda più importanza al fatto della
ripartizione della "maya" in una molteplicità di individui, all'esistenza o
meno, a livello della verità empirica, di una molteplicità di soggetti, e si
tende a vedere questa presenza di fatto dei soggetti individuali, che il "vedanta"
chiama "jiva", come qualcosa che procede direttamente dal "brahman". Ciò
comporta che si parlerà allora più di "maya" che di "avidya", più di
illusione cosmica universale, che procede dal "brahman", che di ignoranza,
problema personale che ognuno dovrebbe risolvere per suo conto.
In questa prospettiva si tende a
dare insomma più consistenza alla "maya". La "maya" non diventa tanto una
specie di entità seconda, ma resta una entità intimamente legata al "brahman",
e il cui rapporto al "brahman" è visto sia come positivo che come negativo.
La "maya" diventa così una specie di "sakti", di potenza creativa del "brahman",
e in certi autori ci si avvicina, forse un po' pericolosamente, a un
quasi-dualismo di fatto. Si può aggiungere del resto che questa linea di
interpretazione forse è più popolare della prima perchè coincide molto
facilmente con una struttura che ha molto risalto e permanenza nell'induismo
preso nella più larga accezione, nell'induismo religioso, col fatto che
tradizionalmente ciascuno dei grandi dei dell'induismo non può essere
considerato per sé, ma deve essere sempre associato, come divinità maschile,
a una entità femminile, a una sposa, a una paredra, designata in India come
"sakti". Nella misura in cui la "maya" è compresa come "sakti" del "brahman",
un ponte, una passarella almeno è lanciata verso le dottrine teiste
tradizionali. E a questo riguardo non deve meravigliare il fatto che la
seconda linea di interpretazione sia diventata maggioritaria nell'"advaita",
anche se forse è la prima che ha fornito i pensatori più originali e più
profondi.