"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Tutti gli
insegnamenti spirituali sono concordi su alcuni punti, tra cui l’importanza di
vivere nel presente, qui e ora, liberi dal passato. La differenza di vivere a
proprio agio, naturali e unificati, dipende dal peso del passato. Ma ciò che la
maggior parte degli insegnamenti che si presentano sotto una forma metafisica
non dice crudamente è che il passato è il nostro passato e che essere
liberi dal passato significa essere liberi dal vostro passato personale. Sebbene
questo punto sia forse chiaro per voi, devo dirvi, a costo di sembrare ingenuo,
che per anni, sino al mio incontro con Swami Prajnanpad, non avevo capito questa
semplice verità: ero impregnato di insegnamenti che insistono su questa libertà,
sulla necessità di vivere il presente senza la colorazione del passato (se siete
liberi dal passato siete liberi dal futuro), senza capire che il passato non è
altro che il mio passato come è per me (un passato che include eventualmente
tracce di vite anteriori, non possiamo negarlo, ma soprattutto il passato di
questa vita qui). Entrare in contatto con questa verità molto concreta è stato
per me una scoperta dopo l’incontro con Swamiji, che è arrivata proprio a me,
Arnaud, con la mia storia personale, e con la mia piccola reticenza personale a
lasciare la spiritualità e la metafisica pura per un ambito che considero simile
a quello della psicologia e della psicoanalisi.
Il passato
corrisponde a colui o a colei che siamo stati: non parlo più di avvenimenti, di
situazioni, di traumi, parlo di un essere umano, un bambino, che è diventato un
adolescente, poi un giovane uomo o una giovane donna che ha scoperto la vita
sessuale e la vita professionale. E questo essere umano sussiste in voi con le
sofferenze, le gioie, le delusioni e i dolori che ha conosciuto. Ma lo ripeto,
non è su questi avvenimenti che voglio mettere l’accento, è sul bambino felice o
triste che siamo stati. Siete sempre ancora quest’essere umano molto concreto.
Quest’essere umano vive con le sue pene, le sue paure, i suoi limiti che oggi
non hanno più ragione d’essere, dal momento che siete adulti e, ancor di più,
adulti aiutati da un insegnamento di trasformazione spirituale.
A poco a poco,
attraverso alcuni di voi e rivedendo sotto un’altra luce ciò che avevo io stesso
vissuto al seguito di Swamiji, ho compreso che una forza affermativa di cui non
siete coscienti si oppone alla vostra metamorfosi. Siamo sicuri di non voler più
essere infantili? Io non volevo essere più un ragazzino sempre in cerca della
mamma, a causa delle vicende della mia vita. Ero stato divinamente felice fino
all’età di dodici anni ma persi ogni cosa con la nascita di mio fratello.
Cercavo disperatamente la felicità perché sapevo che esiste, ma se ero persuaso
che l’avrei trovata, sapevo anche che l’avrei persa poiché la felicità è
destinata a essere perduta. Io non volevo più rimanere prigioniero di questi
meccanismi del passato, volevo diventare adulto. Avevo detto a Swamiji che
almeno di questa verità ero certo, anche se mi costringeva ad abbassare un po’
le mie pretese metafisiche. Ma, nel momento stesso in cui lo volevo e in cui
anche voi non volete più essere quel bambino di una volta, una forza molto
potente rifiuta questo cambiamento, rifiuta di abbandonare quel piccolo essere
che vive ancora in noi.
Ciò che temiamo,
non in quanto esseri liberi che si prendono la responsabilità della propria
esistenza, ma in quanto esseri dipendenti ancora infantili, è l’abbandono: “Mia
madre mi ha abbandonato per occuparsi di un orribile neonato che doveva
nascere”. Si tratta di commettere a nostra volta un crimine contro noi stessi.
“Mai! Ciò che mi domanda Arnaud non lo farò mai! La sola persona che non ha
abbandonato quel bambino e poi quell’adolescente sono io. E voi mi chiedete che
proprio io, per ‘liberarmi dal passato’, lasci questo bambino che porto in me!”.
Dovete avere molto
chiaro questo punto, altrimenti non comprenderete ciò che vi impedisce di
lasciare le amarezze e di essere infine adulti. Una voce molto forte in voi
grida: “Continuerò a proteggere questo bambino triste, questo adolescente più o
meno straziato e deluso che porto in me”, come se ci fossero due persone, da una
parte il bambino di una volta e dall’altra l’adulto di oggi. L’immagine del baco
che muore per diventare farfalla non vi sembra terrificante perché è bello
volare invece di strisciare per terra. Ma la verità del vostro sentire non è:
morirò in quanto essere infantile per diventate adulto. Se questa trasformazione
fosse sentita unicamente così: “Non voglio più essere dipendente, non voglio più
essere vulnerabile, voglio diventare veramente maturo ed essere nel pieno
possesso di me stesso”, il cammino sarebbe molto più rapido e non vi
imbattereste in simili resistenze.
Forse vi ricordate
di quella storia che racconto in uno dei miei libri: mi trovavo nell’ashram
di Swamiji il giorno in cui compivo quarantadue anni e Nandakishore mi aveva
domandato: “Che cosa vorrebbe come regalo per il suo compleanno?” Un giorno
avevo fatto la stessa domanda a Sumongal che compiva quarant’anni e mi aveva
risposto: “Come regalo per i miei quarant’anni vorrei avere veramente quarant’anni”.
Questo aneddoto mi aveva così colpito che sentii il bisogno di raccontarlo a
Swamiji all’inizio del mio colloquio. Ma allora mi sono sentito tutt’a un tratto
sommerso e sono scoppiato in singhiozzi: era insopportabile. Insopportabile che
per i miei quarantadue anni avessi così poco quarantadue anni. “Dov’è mamma?
Dov’è mamma?”. Questo dissi in quel periodo in cui mi affermavo con disinvoltura
nell’esistenza, e non vorrei darvi un’immagine ridicola del produttore
televisivo che ero allora e che sembrava al contrario sempre più adulto. Ho
improvvisamente capito di fronte a Swamiji che per i miei quarantadue anni io mi
auguravo semplicemente di avere davvero due anni. Che per i miei quarant’anni io
avessi veramente quarant’anni, significava che il bambino commovente con il
quale avevo vissuto tutte le età della mia vita, con il quale ero andato a
scuola, tanto felice quanto infelice, che sognava monti e meraviglie a
quattordici anni e che piangeva a vent’anni perché una ragazza l’aveva respinto,
era finito. Ecco ciò che non vogliamo sentire. Ebbene sì, non posso a un tempo
avere i miei quarant’anni e guardare teneramente in me a quel bambino per
consolarlo io stesso, come se stesse a me coccolarlo e proteggerlo.
Provate a ricordare
quando siete stati indotti, ancora giovani, a divenire un conforto per voi
stessi, un compagno quando eravate soli, a rannicchiarvi tra le vostre stesse
braccia, a parlare con voi stessi. Siete stati obbligati a occuparvi di voi
stessi, da piccoli, perché vostro padre e vostra madre erano andati al cinema,
vi lasciavano soli a casa: papà e mamma non si interessano a me. Con questa
sensazione di abbandono mi ritrovavo solo, tradito. Diventare adulti significa
che ora voi stessi abbandonate e tradite quel bambino che avete portato dentro
di voi sino a oggi. Quindi, c’è una forza molto potente che rifiuta questa
metamorfosi. Lasciare il passato, girare pagina, avere veramente l’età che
abbiamo non è più avere sei, dodici, vent’anni. E’ come se ci avessero chiesto
di commettere il crimine dei crimini: abbandonare quel bambino solitario, bye
bye, arrivederci, fine, ti lascio tutto solo. Accanto alla legittima
aspirazione di non rimanere più adulti infantili con tutto l’egoismo, la
dipendenza e l’incapacità di dare che comporta, avete l’impressione
insopportabile che vi si chieda di infliggere l’ultima colpo di pugnale al
ragazzino triste, poi all’adolescente idealista e infelice e infine all’uomo che
più tardi ha ricevuto dei colpi nella sua vita professionale e sentimentale.
Siete tanto più
consapevoli dell’impressione di tradire chi portate dentro di voi quanto più
questa impressione è falsa. La legge stessa di quel bambino è crescere per
diventare adulto, e i traumi, le ferite mal vissute hanno impedito questa
crescita. Occorre che voi sentiate in modo esattamente opposto: il più grande
atto d’amore che posso compiere per questo bambino o per questo ragazzo è di
aiutarlo a crescere, è di soddisfare la sua stessa aspirazione. Non sono io che
chiedo di diventare adulto a discapito del bambino che vive ancora in me, nel
qual caso ho l’impressione di essere io che lo respingo senza pietà; è questo
bambino che ha come meta e come ragion d’essere di diventare adulto. Il più bel
regalo che posso offrire a quel bambino che piange ancora nel fondo del mio
cuore è dirgli: potrai aprirti, realizzarti, porterai a compimento la tua stessa
legge. Invertite completamente la vostra falsa comprensione di questa verità per
cui il bambino morirebbe perché l’adulto si manifesti, così come deve morire il
bruco perché si manifesti la farfalla. Questo vi sembrava a ragione tanto
crudele quanto la condanna a morte del toro nell’arena: “Per quarant’anni ho
cercato di consolare questo bambino con tutti i mezzi, trovandogli una donna
innamorata di lui, offrendogli un pubblico che l’applaudisse, dandogli le
soddisfazioni che procura il denaro, mi sono occupato di lui come ho potuto e
ora mi domandate di pugnalarlo come un torero pugnala un toro. Impossibile!”.
Sino a quando
questa convinzione sarà così potente nel vostro inconscio, resisterete con tutte
le vostre forze alla vostra personale maturazione. Rifiuterete di voltare la
pagina del passato, come richiedono tutti gli insegnamenti spirituali, perché
non darete mai il vostro assenso a commettere un crimine contro chi vi è più
caro, contro un bambino che siete i soli a non aver mai tradito e ad aver sempre
amato. Invertite questa prospettiva. Non si tratta del trionfo dell’adulto sul
bambino in voi, bensì del trionfo del bambino che si sviluppa e si ricongiunge a
voi in quanto adulti.
Non c’è cammino
evolutivo che non vi chieda di voltare la pagina del passato. Se non lo farete,
non diventerete mai saggi, diventerete vecchi infantili, una donna o un uomo che
avvizziscono sul posto senza essere fioriti. Occorre che raggiungiate questa
bambina o questo bambino, questo adolescente talmente sensibile, vibrante,
pronto a entusiasmarsi tanto velocemente quanto a disperarsi: “Sono anni che
vuoi crescere, anni che vuoi sbocciare, anni che il piccolo germoglio vuole
diventare un albero; ti darò tutto questo”. Non è la morte del bruco per
liberare la farfalla, è il trionfo del bruco. E’ per amore per il ragazzo o la
ragazza che portate in voi, che li condurrete al loro proprio sviluppo. “Ti do
la tua apoteosi, potrai diventare grande, vivere e amare, sei destinato a
questo: il ‘mentale’ e le ferite ti hanno impedito di crescere e ora io stesso
elimino ciò che intralcia il tuo sviluppo”. Fatelo per il bambino che ancora
portate nel cuore.
Si tratta
realisticamente non di tentare l’impossibile, ma di ritornare alla necessità che
tutti gli insegnamenti spirituali proclamano: essere liberi dal passato. E se
non c’è più il peso del passato, non c’è più futuro. Le preoccupazioni, le paure
per l’avvenire non sono che il prolungamento del passato. Interpreto, prevedo
l’avvenire in funzione del passato e, se sono libero dal passato, non soltanto
non lo proietto più sul presente ma non lo proietto più sul futuro. Essere
liberi è vivere pienamente nel presente, liberi dal passato, sia da quello di
vent’anni fa sia da quello di due secondi fa e liberi dal futuro, sia da quello
tra cinque anni sia da quello tra due secondi. Non vi occupate di liberarvi dal
futuro: la liberazione dal futuro viene da sé se il passato non pesa più su di
voi.
Tutti hanno un
passato, tanto un tibetano quanto un induista o un monaco zen che entra in un
monastero a venticinque anni e questo passato risponde a un passato generale più
o meno comune a tutti. Anche con un ‘mentale’ relativamente normale e sano,
tutti voi avete conosciuto gioie e dolori, avete distinto tra ciò che amavate e
ciò che non amavate, avete diviso il mondo in buono e cattivo. Ma, in più,
ciascuno di voi ha un passato particolare: uno è stato psicologicamente ucciso
dal padre perché un giorno il padre è stato colpito da una collera terrificante,
un altro è stato abbandonato dalla madre che lo ha dato a balia, un altro si è
ritrovato orfano all’età di
cinque anni. Questo
è il passato particolare che riportiamo alla superficie nel lying (un
metodo di conoscenza di sé e di purificazione del ‘mentale’ che A. Desjardins ha
praticato presso Swami Prajnanpad) o in una psicoterapia.
I discepoli
impegnati su una via spirituale non praticano il lying, non si sforzano
di ritrovare il vissuto d’altri tempi con il suo carico affettivo, non praticano
il ‘grido primario’ o l’astrazione propria della psicoanalisi di Freud. E
tuttavia tutti senza eccezione cercano di emanciparsi dal passato. Quindi per
questa liberazione non utilizzate soltanto il lying, anche se Swami
Prajnanpad l’ha messo a nostra disposizione all’interno di una sadhana
completa. Utilizzate l’insieme di ciò che può esservi proposto e che vi è
accessibile. Non parlo di metodi interessanti in sé ma che forse non vi
interessano. Non mi rivolgo in questo momento a coloro che vogliono compiere un
ritiro di tre anni presso i tibetani, o che vogliono vivere in un monastero zen
e sedere in zazen più ore al giorno.
Certo, sembra
straordinario che una vita spirituale come quella di Swami Pajnanpad, che si
richiama alle Upanishad e allo Yoga-Vasistha, vi proponga di
integrare ciò che ha valore nella psicoanalisi o nelle terapie moderne. E la
maggior parte di coloro che hanno fatto esperienza del lying ha pensato
che si trattasse della sadhana (al singolare) per liberarsi dal passato.
Ma, in primo luogo, si può concepire tutto l’insegnamento di Swamiji, l’ho detto
spesso, senza il lying, Swamiji stesso, d’altra parte, non lo ha mai
praticato. In secondo luogo il vostro guru non è Swami Prajnanpad, anche se è un
peccato per voi, il vostro guru è Arnaud. Avere Swamiji come guru significa
avere Swamiji di fronte a noi che ci sfida, che ci coglie nelle nostre
contraddizioni, che attacca senza pietà il ‘mentale’ colmo d’amore per il nostro
io, un amore infinito. Ciò che ho compreso a poco a poco e di cui vi ho spesso
messo a parte è che non c’era stato solo Swami Prajnanpad nella mia esistenza;
c’erano stati Ramdas e Ma Anandamayi, c’erano stati il gruppo Gurdjieff e lo
yoga, c’erano stati i rimpoche tibetani e i sufi. Ho praticato quindi molte
forme di meditazione che, se non mi hanno condotto alla radice del ‘mentale’,
hanno tuttavia svolto il loro ruolo. Io non ho incontrato Swamiji che alla fine
di sedici anni di sadhana diverse; certo senza Swamiji e senza i lying
non so dove sarei oggi, ma avevo già compiuto prima di incontrarlo tutto un
lavoro che non ho dovuto fare con lui e che io avevo continuato da solo. Ad
esempio, ogni volta che ne avevo l’occasione, avevo l’abitudine di ritrovare una
giusta postura, il rilassamento delle tensioni fisiche su cui si insisteva nel
gruppo Gurdjieff, le respirazioni che avevo praticato nello yoga, anche se non
meditavo più sistematicamente tutti i giorni. Quindi non è a partire
esclusivamente da tutto ciò che ho vissuto con Swamiji, ma a partire
dall’insieme del mio personale cammino che posso oggi sedere davanti a voi ed
eventualmente aiutarvi.
Se ho di nuovo
introdotto la meditazione a Font d’Isière è per fornirvi un punto d’appoggio
solido e un aiuto nel lavoro di liberazione dal passato. Per alcuni queste due
meditazioni quotidiane sono state una meravigliosa sorpresa, come se l’avessero
sempre aspettate. Altri hanno avuto difficoltà, hanno trovato queste meditazioni
ingrate e hanno avuto l’impressione che non facessero parte del cammino di
Swamiji: “Lei stesso non ne ha parlato in Les chemins de la sagesse, lei
stesso ha scritto che la meditazione è uno stadio che viene da sé quando gli
impedimenti siano stati neutralizzati”. Vasana kshaya e citta shuddhi
corrispondono precisamente all’erosione degli impedimenti alla meditazione, di
tutto ciò che fa sì che si pensi ad altro e non si tenga la postura. Infatti, le
meditazioni quali io vi propongo sono legate al mio personale cammino, alla mia
comprensione, alla mia sadhana dopo Swamiji e alla sintesi venuta fuori a
poco a poco di ciò che ho ricevuto dalle differenti tradizioni che ho
avvicinato.
Non bisogna
dimenticare che è grazie a ciò che noi chiamiamo meditazione (della quale non si
comprende molto, sino a quando non la si pratica veramente) che i discepoli zen,
gli yogi tibetani o induisti si liberano dal passato. Tutte queste forme
di meditazione hanno in comune l’immobilità in una posizione molto simile. Prima
o poi tutte queste tecniche fanno appello alla respirazione, espirazione
profonda centrata nello hara, pranayama, rallentamento
della respirazione, sospensione del respiro. Sul monte Athos, nell’esicasmo, la
tradizione mistica ortodossa, la respirazione accompagna la preghiera centrata
sulla ripetizione del nome di Dio. E i rimproveri rivolti ai monaci del monte
Athos di ‘fissarsi sull’ombelico’ sono dovuti proprio all’incomprensione di
alcuni loro esercizi che insistevano sulla respirazione addominale.
Swamiji diceva:
“Mangiare è una funzione della vita, respirare è la vita stessa”. La
respirazione, quando si accompagna a un abbandono nell’espirazione e a una
dilatazione dei polmoni, può diventare infinita. Si tratta del movimento stesso
della vita, di un rinnovamento nel quale muoio a ogni espirazione per essere
ricreato a ogni inspirazione. E abbiamo la possibilità di lasciarci andare a
questo movimento naturale che non cessa dal momento che respiriamo anche
addormentati, anche svenuti.
Ma le pratiche
dell’immobilità e della respirazione come possono aiutarvi a liberarvi dal
passato, dal vostro proprio passato? Ricorderò una verità che non ho scoperto io
ma che certi kinesiterapeuti conoscono bene: il passato è inscritto nella nostra
respirazione, il soffio: Dio soffia sull’argilla per creare l’uomo, noi abbiamo
compromesso questo soffio, ciascuno a suo modo nel corso della nostra storia
personale. Permettetemi ancora un esempio personale, ovvero il ritorno al volto
irriconoscibile di mia madre quando avevo due anni. Nelle piccole note che
prendevo in inglese si trova questa frase: “Vision of nightmare, my mother
has been changed”, “Visione da incubo, mia madre è cambiata”. Ho rivisto il
viso, atroce per il bambino che ero, di mia madre qualche ora dopo la nascita
del suo secondo figlio, attaccato al suo seno, che mi guardava senza
riconoscermi e che io non ho più riconosciuto. Ho avuto, nel vero senso della
parola, il fiato mozzato. Il riaffiorare di questo trauma è stato preceduto da
tre lying di soffocamento nel corso dei quali ho creduto di morire
soffocato. Rassicuratevi, la natura fa molto bene le cose: nel momento in cui
stavo veramente soffocando il respiro tornava da solo. Allora io facevo due
litri e mezzo allo spirometro, che è molto poco e molto umiliante per un
ragazzo; ero incapace di espirare, avevo i polmoni incavati e una sorta di tic
respiratorio che mi obbligava ogni quattro o cinque minuti a riprendere fiato. A
parte questo ero piuttosto normale, tanto più a quarant’anni quando amavo la
vita avventurosa che conducevo attraverso l’Afghanistan, l’Himalaya e l’India e
che mi faceva respirare largamente. Questi lying di soffocamento mi hanno
certamente molto aiutato, ma praticare il ritorno a una respirazione ampia nella
meditazione vi libererà dal passato molto più di quanto voi non crediate.
Non siamo noi che
respiriamo volontariamente; la respirazione avviene attraverso il diaframma e i
muscoli del torace, e questi muscoli ricevono dall’inconscio ‘ordini
sotterranei’ che gli impediscono di funzionare normalmente. Finiscono quindi per
atrofizzarsi come dei muscoli mai utilizzati; se restiamo per un anno a letto ci
farà male camminare quando ci permetteranno di rialzarci. I muscoli della gabbia
toracica perdono la loro piena capacità, si irrigidiscono e si atrofizzano, la
respirazione della maggior parte degli uomini (e naturalmente delle donne,
Desjardins utilizza qui il termine uomini nel senso di esseri umani, n.d.r.)
viene quindi gravemente compromessa e la meditazione si muove nel senso di un
ritorno a una vera respirazione. Anche al di fuori di una civiltà poco
spirituale come la nostra, ogni giapponese, tibetano o indiano, un tempo come
oggi, ha avuto un’infanzia e ha subito traumi alla funzione respiratoria, anche
se forse meno gravi dei nostri.
La vitalità di un
bambino è legata alla respirazione. Il bambino possiede una forza di vita e una
spontaneità immense: corre, sale e scende dieci volte di seguito da una
poltrona, salta, risale sulla poltrona, salta giù di nuovo, gratuitamente.
Certamente, un minimo di educazione è necessaria. Quando costringete un bambino,
agite sulla respirazione e quindi su una funzione importante per il bambino che
è quella di piangere e gridare. Cade e piange, gli si rifiuta qualcosa e piange,
un ragazzino lo spinge e piange. “Smetti di piangere” o “Smetti di gridare!”. Il
bambino che siamo stati non ha potuto smettere di piangere o di gridare se non
bloccando lui stesso la sua respirazione. Un bambino che piange con grossi
singhiozzi non può bloccare il suo pianto e le sue grida se non trattenendo il
respiro sino a quando non sia più che un povero, breve affanno. Quando un
bambino comincia a singhiozzare per attirare l’attenzione, è inevitabile che
presto o tardi i genitori gli chiedano di smettere e il bambino, per paura che
si arrabbino o per l’amore che prova per la mamma che lo supplica di trovare
consolazione, blocca la sua respirazione. Provate a ritrovare in voi il bambino
triste e poi chiedete a voi stessi di smettere di piangere. Vedrete che per un
minuto non respirerete più correttamente.
Nella meditazione,
cerchiamo di restituire a poco a poco alla respirazione la sua naturalezza e di
nuovo la sua capacità di ‘es-primersi’, vale a dire di buttare fuori. Esprimere
non significa soltanto urlare in terapia, il fatto di espirare è ugualmente
un’espressione. Se bloccate la respirazione, lo fate tendenzialmente
sull’inspirazione centrata nella parte alta del petto e sull’incavo del ventre,
con tutte le tensioni che ciò comporta. L’atto di “lasciare-la-presa” così ben
descritto da Karlfried von Dürckheim in Hara consiste nell’immaginare di
ridiscendere nel ventre e di restituire tutta la sua ampiezza all’espirazione.
Potete rieducare la respirazione attraverso alcune pratiche che completeranno e
arricchiranno i benefici del lying. Non vi private di questo aiuto perché
la respirazione non porta soltanto aria per il corpo fisico, ma anche prana
per il corpo sottile (sukshma sharira) e il soffio dello Spirito Santo
per il corpo causale (karana sharira); nutre i tre corpi compreso
anandamayakosha. La respirazione è la funzione sacra per eccellenza ed è per
questo che i mistici danno così grande importanza al respiro.
La respirazione è
stata compromessa dal nostro passato personale. Essere prigionieri del passato
equivale a respirare male, essere liberi dal passato permette di respirare
normalmente, in modo naturale, come un neonato non traumatizzato che dorme
placidamente e di cui si vede gonfiarsi e sgonfiarsi il ventre. Dürckheim scrive
magnificamente nel suo libro che la discesa nello hara ci permette di
accettare molto più facilmente i traumi dell’esistenza, di mantenere
l’equanimità nelle novità sia buone che cattive. Gli esercizi respiratori vi
aiutano a liberarvi dal vostro personale passato. Il bambino che portate forse
in voi è spesso un piccolo essere ferito e straziato (a scuola i compagni lo
hanno preso in giro, si è sentito abbandonato dalla madre, non si è sentito
compreso dal padre) e non è più capace di respirare bene. Permettetemi questa
formula: l’adulto infantile non sa respirare, l’adulto degno di questo nome
respira liberamente; l’adulto infantile soffre di una respirazione deformata,
bloccata, l’adulto ha ritrovato una respirazione naturale.
***
Ancora un punto: la
respirazione è legata a una funzione eminentemente importante ma spesso turbata,
ovvero la sessualità. Frédéric Laboyer che ha studiato molto l’attività
respiratoria, fa delle osservazioni sulla somiglianza della respirazione al
momento del parto, che viene vissuto come momento di riunificazione e che
rappresenta una grande esperienza per la madre, e nel corso dell’atto sessuale.
La maggior parte dei pranayama dello yoga, che comprende tanto
respirazioni ampie quanto respirazioni brevi, si ritrova nell’atto sessuale
completo, in particolare nella donna. Potete riconoscere in ogni caso come
esista un legame tra la respirazione e la funzione sessuale.
Benché io non sia
un pediatra, ho potuto osservare a che punto i bambini, maschi e femmine, in
ogni caso normali, possano toccare con gioia i loro organi genitali. Alcuni
pedagoghi sono arrivati alla conclusione che non bisogna intervenire e io sono
certo che hanno ragione. Certo, è curioso vedere una bambina di tre anni
carezzare il suo piccolo sesso con aria raggiante. Tutti i padri e tutte le
madri non hanno riflettuto profondamente su questo aspetto ed è probabile che
molti di voi siano stati inibiti dai loro educatori nella loro sessualità
infantile, e che quindi la loro respirazione ne sia rimasta segnata. La maggior
parte degli adolescenti si è masturbata e la masturbazione, se ci si lascia
veramente andare, comporta una modificazione della respirazione.
Ascoltatemi a cuore
aperto. E’ necessario riconoscere che esistono realtà meno prestigiose della
meditazione. Non ci si lascia andare veramente perché c’è quasi sempre un
divieto, esplicito o intuito da noi, che genera un senso di colpa. D’altra
parte, molti giovani dormivano nella stessa stanza. Ad esempio con i fratelli e
le sorelle, o in dormitori, e molti adolescenti si sono masturbati frenando
completamente le manifestazioni respiratorie possibili perché il fratello nel
letto accanto non potesse supporre di cosa si trattasse. Forse questi dettagli
vi mettono a disagio. Se è così è la prova che questo argomento vi riguarda in
qualche modo. Una certa sessualità infantile più o meno maltrattata, insieme a
una sessualità più o meno malvissuta nell’adolescenza, ha contribuito a renderci
diffidenti nei confronti della respirazione e abbiamo imparato a frenarla come
facevamo nella nostra infanzia per non piangere più quando nostro padre e nostra
madre, severamente o con molta gentilezza, ce lo chiedevano. Dunque anche per
coloro che praticano uno yoga che raccomanda l’astinenza sessuale esiste un
legame tra la semplicità naturale del nostro rapporto con la sessualità e la
respirazione. Sia nel caso che abbiamo una vita sessuale in qualche modo
compromessa perché non abbiamo ritrovato la spontaneità nella respirazione, sia
che siamo yogi in astinenza, in entrambi i casi, la meditazione, nella
quale la respirazione svolge un ruolo preponderante, ci aiuta a ridiventare
naturali.
Innanzi tutto, la
posizione della meditazione nella sua dignità ieratica ci sembra artificiale e
troviamo più naturali le posizioni che il nostro corpo assume meccanicamente.
Tuttavia, è in questa posizione di immobilità che voi opererete un ritorno alla
natura e ridiventerete voi stessi. Occorre essere naturali prima di aspirare al
soprannaturale. Non vi potete riconciliare con la respirazione se non accettate
la presenza in voi del centro sessuale, che è anche il centro della creatività
tanto per lo yogi che vive in castità quanto per l’uomo o la donna che
hanno un’attività sessuale che auguro a tutti felice.
Ricordate:
creazione, creatività, procreazione. Un essere che non è libero dal suo passato
non è creativo o è creativo in modo nevrotico. Ogni essere umano è destinato a
essere creativo, non solo gli artisti che compongono sinfonie o dipingono
quadri. L’abbiamo visto, la creatività utilizza l’energia sessuale, che sia per
procreare un bambino, per procreare l’uomo nuovo o per produrre un’opera d’arte.
Esiste quindi una relazione tra i blocchi del passato, la respirazione, la
naturalezza con cui accettiamo la funzione sessuale e la nostra capacità di
essere innovatori. Inoltre, c’è una differenza radicale tra la creatività e
l’agitazione: potete essere attivi, fare moltissime cose e tuttavia non creare
nulla. Ad esempio, da un certo punto di vista, il pensiero è creativo di
conseguenze mentali in noi, genera un karma e può creare turbamenti, ma in
realtà non crea nulla: non diventa creativo se non quando si concretizza nelle
mani di uno scultore o di un pittore. Un ballerino è creativo anche se non resta
nulla della sua danza quando ha finito di ballare. La creatività non si
manifesta soltanto nella produzione di un’opera concreta.
Si possono fare
grandi cose senza essere creativi. Avere inventato la bomba atomica non
significa essere creativi. Alcune professioni sono crudeli perché non permettono
di essere creativi benché comportino molto lavoro. “Batto a macchina lettere,
passano per le mie mani varie carte, telefono, partecipo a riunioni, aumento le
vendite di caucciù sul mercato di Manila, poi a Parigi, poi a Tokyo, sono un
grande uomo d’affari, ma la mia vita è sempre uguale ogni giorno”. Al contrario,
se coltivo quattro piante di pomodori nel mio giardino, la loro apparizione e la
loro crescita sono ben visibili e mi danno la sensazione di partecipare al
rinnovarsi dell’esistenza. La spontaneità nel senso induista della parola
equivale a essere sempre creativi.
Siamo creativi
specialmente quando aiutiamo un altro a diventare se stesso. Creare non consiste
soltanto nel mettere un bambino al mondo, ma significa educarlo; l’attitudine
della madre è creativa perché di un neonato farà un bel bambino, quindi un
futuro adulto. Secondo una felice espressione di Maurice Béjart, l’essere umano
oggi soffre perché non ‘danza più la sua vita’. Un artigiano può sentirsi
creativo quando nascono dalle sue mani ringhiere di ferro decorate o vasi,
invece, per lo più, i lavori d'ufficio, anche se di alto livello e di grande
responsabilità, non vengono sentiti come un’espressione gioiosa del nostro
slancio vitale in un mondo sempre nuovo.
Il bambino passa il
suo tempo a inventare: fa delle formine di sabbia, gioca gratuitamente, la vita
abbonda in lui. Un bambino il cui sviluppo è stato ostacolato sarà più tardi un
adulto sclerotico, un morto vivente privato dalle sue radici. Molto spesso il
bambino in voi ha perduto la sua ricchezza originaria. Bloccato nella sua
maturazione, vi impedisce di avere l’età indicata sul vostro stato civile.
Occorrerà quindi rieducarlo a poco a poco per ricondurlo all’altezza dell’età
adulta. La respirazione, vissuta bene nella meditazione contribuirà, a
restituirvi la creatività interiore e a riconciliarvi completamente con
l’energia sessuale, l’energia creativa per eccellenza che, invece, per la
maggior parte di voi è associata a stati di malessere.
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Essere prigionieri
del passato, sarete subito d’accordo con me, è come non essere più completamente
vivi. Se noi fossimo stati interamente e integralmente vivi, il bambino sarebbe
scomparso tranquillamente per lasciare il posto all’adolescente, l’adolescente
per lasciare il posto al ragazzo, il ragazzo per lasciare il posto all’uomo
maturo e concluderemmo la nostra vita in bellezza come Ramdas che, a
ottantaquattro anni, destava l’invidia di tutti per quanto era luminoso e
radioso.
Se frenate il
vostro sviluppo non è che per paura dell’invecchiamento. Se è ancora il bambino,
dunque il passato che alberga in voi, non soltanto non siete più creativi, ma
non siete più realmente vivi. La vita è un movimento, a process, come si
dice in inglese, una danza, un flusso che non si arresta, ed essere prigionieri
del passato significa essere sotto l’influenza di un certo numero di blocchi che
ostacolano in noi la vita. Questi blocchi possono essere percepiti fisicamente:
l’energia non circola più e siamo incapaci di vibrare con lei, di seguire la
corrente della vita, in una parola di sbocciare.
Dove rinveniamo in
noi degli irrigidimenti? Più c’è vita più c’è flessibilità, meno c’è vita più
c’è rigidità. I rami di un albero ancora vivo sono flessibili, quelli di un
albero morto si spezzano facilmente. Un essere vivente può muoversi, un cadavere
è rigido. Più siete fluidi, più siete vivi. Sentitevi inoltre belli, regali,
nella posizione della meditazione, ma non sentitevi di pietra come una statua
del Buddha o di un faraone perché, così, siete morti.
Il lingam di
Shiva, il fallo, il sesso dell’uomo in erezione rigido e duro, non può essere
simbolo della vita perché tutto ciò che è duro e rigido è contrario alla vita.
Benché la letteratura induista abbondi di immagini poetiche che danno a
intendere che il membro virile è sorgente di vita, “il sesso in erezione da dove
emerge la fontana dello sperma”, l’atteggiamento veramente vitale è quelle
femminile, non quello maschile.
L’atteggiamento
maschile aggressivo ci separa dalla vita. Oggi, l’ho detto molte volte, anche le
donne vogliono essere mascoline e gli uomini hanno paura della femminilità che è
in loro. La meditazione consiste nel ritrovare la femminilità in noi, che siamo
uomini o donne. Nella meditazione noi diveniamo femminili. Si tratta della
‘coscienza-coppa’ di Dürckheim che accoglie come il Graal ha accolto il sangue
di Cristo, e non della ‘coscienza-freccia’ che punta verso il proprio bersaglio.
Nella posizione corretta, che dà un’apparenza di rigidità, ridivenite
flessibili, liquidi come il ghiaccio che diventa acqua e scorre con il fiume
sino all’oceano.
Il ruolo delle
psicoterapie è, certo, quello di far sparire tutto ciò che frena la vita per
permetterle di scorrere nuovamente: così lasciamo che le grida trattenute o i
pianti che abbiamo dovuto inghiottire si esprimano. Il lying prende
armoniosamente il proprio posto nel vedanta, in quanto ci permette di
lasciare la presa e ci restituisce la nostra fluidità. Alcuni dei miei lettori
che praticano con serietà la via tibetana o lo zazen, sono rimasti sconcertati
dall’idea del lying, e hanno avuto l’impressione che Swami Prajnanpad non
fosse un guru. Non hanno percepito, o Denise Desjardins e io non siamo stati
capaci di far capire all’opinione pubblica, la ricchezza del lying nel
quadro dell’insegnamento globale di Swamiji. Nel lying ridivenite fluidi
come nella meditazione, anche se nella meditazione vi controllate invece di
esprimervi. O meglio: nella posizione seduta, attraverso la respirazione, vi
esprimete, sentendo che espirando, vi svuotate a poco a poco delle vecchie
affezioni, samskara e vasana, che si inaridiscono ed evaporano.
Non contate soltanto sui rivissuti spettacolari per riordinare la vita e per
liberarvi dal passato. Ritrovate in voi, qui e ora, la vita.
Sappiamo cos’è un
blocco: un avvenimento è stato davvero doloroso, mi sono difeso contro la
sofferenza, ho tentato di negarla, ne ho sofferto. La sofferenza nella quale ci
si dibatte cela un atteggiamento passivo, anche se ciò può apparire di primo
acchito paradossale. La sofferenza viene subita e ci sentiamo vittime. Alcuni si
sono fermati a quello stadio. Spesso l’atteggiamento passivo viene considerato
femminile, ma io preferisco dare alla parola ‘femminile’ il senso di un valore
prezioso e non di un’imperfezione. Si tratta di un ostacolo dannoso: soffro,
ricevo dei colpi dalla vita, mi rinchiudo in me stesso, ma non sono adulto nella
sofferenza, non l’accetto e sono incapace di superarla per liberarmene,
superamento che si compie solo attraverso l’accettazione, l’assenza di
conflitto, la non-dualità.
Altri cercano di
essere attivi. Si dibattono anche loro nella sofferenza, ma, invece di rimanerne
vittima, cercano di colpire l’avversario e il loro rifiuto si esprime sotto
forma di collera o di aggressività. Se alcuni esseri umani non si arrabbiano
mai, non significa che sono saggi bensì che restano bloccati nell’atteggiamento
della vittima. Il bambino, la cui spontaneità non è stata ancora guastata, grida
a sua madre ‘ti ucciderò’ se sua madre gli rifiuta qualcosa, e le lancia addosso
il suo giocattolo; o meglio, come fanno i bambini sommersi dai programmi
televisivi, grida ‘pam’ puntando due dita nella direzione del papà, come nei
western in cui basta un ‘pam’ per eliminare l’avversario.
Alcuni non osano
esplodere per la collera. Era il mio caso quando ero giovane. Naturalmente, ogni
tanto, la situazione scoppiava, ma raramente mi infuriavo né lo ritenevo giusto,
tanto meno quando ho scoperto gli insegnamenti spirituali. Ma in realtà, mi ero
semplicemente collocato al livello della vittima: “Mio fratello trionfa mentre
io sono la vittima, l’esistenza mi infligge dei colpi e io li subisco”. Altri
viceversa si sono fermati al livello della collera, sono sempre infuriati, ma si
tratta ugualmente di un blocco. Nessuna delle due reazioni è superiore
all’altra: sentirsi vittime vuol dire restare schiavi del passato, così come
essere collerici. Coloro che esternano la loro collera e finiscono per vedere
avversari ovunque sono predisposti alle malattie fulminanti, infarti o emorragie
cerebrali; chi invece assume un atteggiamento rassegnato e passivo sarà
facilmente soggetto alle malattie che progrediscono lentamente, come i
reumatismi o il cancro. Ma una natura irascibile che non ammette che gli si
pestino i piedi e passa rapidamente all’attacco è rigida come una natura triste
bloccata nell’atteggiamento della vittima. Nei due casi, la vita non circola più
liberamente. Talvolta una vera e propria cristallizzazione si è prodotta sulla
base della paura e della nevrosi e occorre distruggere questa falsa struttura.
La meditazione che accompagna una respirazione cosciente, senza contare tutti
gli altri aspetti della meditazione, vi permette, a poco a poco, di ritrovare
una vita più profonda invece di sentirvi vittime oppresse dai colpi della vita o
di essere degli irascibili che, invece, per proteggersi dalla sofferenza i colpi
li danno. Infatti, non al di là, ma al di qua di tutta questa struttura che è
frutto del passato e vi impedisce di essere creativi, la vita in sé dimora
sempre eternamente intatta, anche se la costituzione della nostra psiche ce ne
allontana sempre più.
La buona notizia
consiste nel fatto che, al di qua di questi blocchi, non soltanto l’Ultimo, l’atman,
ma anche la vita o, se preferite, l’energia (atmashakti) è eternamente
intatta in voi. Se l’assoluto vi sembra lontano, sappiate che è la vita che
continua a farvi respirare malgrado i vostri blocchi respiratori. La vitalità è
eternamente intatta, viene a ogni istante rinnovata e nulla può contaminarla,
come una sorgente che non cesserebbe di scorrere pura anche se venisse inquinata
dal contatto con sporcizia a essa estranea.
Mi ha colpito una
frase di santa Teresa d’Avila; era indirizzata ai conquistatori che allora erano
la gloria della Spagna: "Avventurieri, oh conquistatori delle Americhe, al
prezzo di sforzi più grandi dei vostri e di sofferenze maggiori delle vostre, ho
scoperto un mondo sempre nuovo perché eterno. Osate seguirmi e vedrete”.
Questa piccola donna osava parlare così agli eroi che riportavano alla corte
spagnola tonnellate d’oro peruviano. Questo mondo sempre nuovo ed eterno,
ritorniamo alla sobrietà della nostra esistenza, noi che non siamo Teresa d’Avila,
viene sentito come una sorgente di vita che non cessa di scorrere in noi o, se
preferite, come il fascio di luce di un proiettore che rimane eternamente
trasparente e che si scopre colorato soltanto quando colpisce lo schermo. La
meditazione non consiste soltanto nella ricerca dell’indicibile, dell’al di là
di tutto in voi, ma è anche un modo di collegarvi a questa sorgente di vita
dinamica, perpetuamente intatta in voi, che non riuscite a percepire se non
attraverso il filtro del ‘mentale’, dei kosha, dell’insieme delle
identificazioni. Qualunque sia il vostro legame con il passato, la vita in voi
non è mai stata intaccata, è perfettamente nuova e spontanea a ogni istante e la
meditazione vi aiuta a ritrovarla.
Molti hanno un’idea
della meditazione ispirata dall’immobilità della posizione e dai termini come
atman, assoluto, Non-Manifestato, e l’assimilano alla ricerca esclusiva di
un silenzio che sia come un lago senza increspature. Quando un lago è agitato
dal vento e delle piccole onde si formano sulla sua superficie, le acque non
sono più trasparenti e non vediamo più il fondo. Se le acque si calmano, il lago
ritorna a essere limpido e chiaro e nella trasparenza vediamo i pesci nuotare.
Se il vostro spirito è a riposo, libero da ciò che chiamiamo nello yoga
cittavritti (le piccole o grandi perturbazioni della psiche), la realtà
intorno a voi diventa trasparente e accettate ciò che non può mai essere
definito a parole, la profondità ultima della realtà. Allora, da un certo punto
di vista a ragione, ci rappresentiamo la meditazione come l’assoluto silenzio:
la respirazione rallenta, si prolunga la ritenzione del respiro e scopriamo la
coscienza libera da tutte le forme, lo spirito vuoto comparabile al cielo blu e
allo spazio infinito.
Queste immagini
sono veritiere ma vi rendono ciechi a una prima verità con la quale avrete
maggiore familiarità che con il Vuoto, con l’Infinito che inizialmente non fa
parte delle vostre preoccupazioni. La meditazione non è solamente la ricerca del
Non-Manifestato in voi, è anche la ricerca dell’espressione o della danza di
Shiva alla sua fonte, dell’aspetto energetico (shakti) della realtà,
sempre intatto in voi, sorgente di vita sempre nuova, sempre spontanea, sempre
creatrice, sempre rinnovata, mai afflitta dal passato. Questo approccio può
trovare in voi maggiore eco ed è prezioso per liberarvi dal passato. Altrimenti
vi avvizzirete sul posto come un albero che muore senza aver dato frutti o
fiori. Quali che siano il vostro legame con il passato e i vostri blocchi, in
voi lo schermo sul quale si proietta il film del vostro destino non è mai stato
intaccato. E’ perfetto qui e ora. E questa vita eterna non cessa di sgorgare in
voi, non smette di divenire un film, di colorarsi, e, allora, eccovi di nuovo
alle prese con gli stessi problemi, alle prese con le stesse difficoltà.
Durante la
meditazione non occupatevi semplicemente del “non nato, non fatto, non divenuto,
non composto”. Raggiungete la fonte che non smette di sgorgare e gorgogliare.
Cercate, attraverso il grande silenzio interiore e la sospensione delle funzioni
ordinarie, di sentirvi eternamente nuovi, prima della contaminazione del
passato, una sorgente di vita ‘sovrabbondante’ dice il vangelo. Ciò vi permette
di fiorire. Questa sorgente, che nulla può prosciugare né intorbidare quali che
siano i vostri antichi traumi e le ferite del bambino che piange ancora in voi,
la scoprirete se rientrerete in voi stessi e se i pensieri e le emozioni
contraddittorie vorranno tacere per un poco.
Tale profondità è
propria della vita priva delle dualità felice-infelice, buono-cattivo. Come
diceva Gurdjieff: “Un bastone ha sempre due estremità”. Tutto ciò di cui
facciamo esperienza è un bastone che prevede sempre due capi. Se l’uno si chiama
successo, l’altro si chiama insuccesso, se l’uno si chiama unione, l’altro
separazione; arrivo, partenza; salute, malattia. Ma atmashakti in sé non
ha contrari. Non è al di là ma al di qua delle opposizioni, delle dualità, delle
dvanda o coppie di opposti. Atmashakti è la vita allo stato puro
che si manifesta in seguito attraverso lo yin e lo yang. Se sarete
in grado di accettare la totalità dell’esistenza, gli amici e i pretesi nemici,
le buone notizie e le cattive, ristabilirete la pienezza della vita in voi. Non
è la ‘vita a metà’ ma la ‘vita piena’ che vi permette di sentire la vita non
duale. Tale è l’insegnamento universale di cui potete fare esperienza più in
fretta di quanto non crediate, a condizione di essere un po’ perseveranti.
Tuttavia,
all’inizio non troverete subito questa vita a livello del cuore. Oppure, se la
troverete troppo in fretta, la perderete. Molti hanno conosciuto momenti divini,
ma sono durati solo alcuni giorni o meglio alcune settimane. La vita, la
scoprirete prima di tutto nelle vostre viscere, che siate uomini o donne. Vi ho
detto: “Troverete Dio nel vostro cuore, ma è nello hara che troverete voi
stessi”.(Questo temaviene sviluppato in Approches de la méditation.)
Non lasciamoci sfuggire il prezioso contributo di Karlfried von Dürckheim il
quale afferma che noi occidentali abbiamo perduto il senso del ventre, di cui il
cristianesimo altre volte ha conosciuto il valore, come testimonia il ‘ventre
gotico’ delle statue medievali. Questa vita, atmashakti, si rivelerà nel
vostro bacino, mentre l’atman lo troverete nel cuore. Ramana Maharshi
ricorda che, per designare se stesso (chi, io?), un uomo tocca d’istinto il
proprio petto: effettivamente non indica il proprio hara, sono d’accordo.
Il Sé splende nel cuore, hridaya in sanscrito, qalb in arabo,
heart in inglese, ma la forza vitale ha la propria origine nel basso ventre
dove non cessa di sgorgare, anche nella solitudine, anche nelle prove che la
vita ci riserva.
Questa sorgente
risiede dentro di voi, quindi ogni volta che tentate di concentrarvi nella
vostra interiorità, oggi stesso non domani, vi riunificherete e risentirete la
vita che si esprime nella respirazione, nella vibrazione di ciascuna delle
vostre cellule che riuscirete a percepire quando siete completamente rilassati e
immobili. Sapete che nel training autogeno di Schulz o nella sofrologia
distendendo i vostri muscoli otterrete una certa sensazione. Nel gruppo
Gurdjieff praticavamo molti esercizi di percezioni simili. Se siete ben presenti
a voi stessi e completamente rilassati e abitate il vostro corpo, a partire da
questa sensazione, associata a una decontrazione dei muscoli, prendete coscienza
di una vita impensabile in ogni cellula del vostro corpo, come se foste in grado
di sentire il metabolismo sempre all’opera. Non si tratta di un compito
straordinario che obbliga a dieci anni di isolamento sull’Himalaya.
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Perché rimandare a domani? La specialità del
‘mentale’ è sempre quella di rimandare (to postpone in inglese). Pratico
la meditazione per scoprire la vita in me; perché non potrei farne subito
esperienza?
Non si tratta
soltanto di andare in questa direzione, ma di fare il grande passo. La porta è
aperta, uscite. Lo sapete, ciò che avete preso per un serpente non è che una
semplice corda, non restate chiusi in casa, andate in giardino! Qui interviene
spesso una paura: se veramente ritorno a essere vivo, tutta la mia piccineria,
tutte le mie abitudini grette saranno trascinate dal torrente della vita che è
in me. Allora procrastino, rimando a domani. “Oh, è per i grandi yogi,
non per me”. Abbiamo l’impressione che se non siamo più legati al passato, se
ritroviamo l’eterno presente, allora tradiamo qualcuno e pugnaliamo noi stessi ,
il bambino sofferente in noi. E voi ospitate questo bambino sofferente, mentre
vi propongono di abbandonare il passato. Per vivere infine nella pienezza del
presente, in cui ogni secondo prefigura un avvenire libero, non più stereotipato
e indefinitamente ripetuto, ma una festa dell’innovazione, la festa del
rinnovamento.
Provate a
riconoscere ciò che in voi aspira alla libertà del passato, a una vita veramente
nuova, a un futuro completamente aperto e scoprirete anche ciò che impedisce
questa trasformazione: è quasi troppo bello e io non ne ho il diritto perché
significherebbe sacrificare il bambino ferito che è dentro di me, il bambino che
ho consolato succhiandomi il pollice e rannicchiandomi tra le mie braccia.
Immaginate una
donna, madre di famiglia, infelice con il marito e che all’improvviso conosce il
grande amore con un altro uomo. Penserebbe: “E’ meraviglioso ma non ne ho il
diritto, non posso abbandonare i miei bambini e non posso neppure costringerli a
separarsi dal padre perché sarebbero troppo infelici”. Questa lacerazione è
simile a quella che potreste provare ma, in realtà, vi sbagliate. E’
meraviglioso, però domani, domani. Perché sempre domani? Perché non ora, dal
momento che la pienezza della vita scaturisce in voi continuamente? Credete, a
torto, che un dovere vi interdica di vivere questa pienezza presente. Quale
dovere? “Sono responsabile del bambino dolente che consolo da quarant’anni, non
l’abbandonerò per vivere oggi felice e soddisfatto”. Vi dibattete in questa
contraddizione, tanto più irriducibile, quanto più palesemente riconosciuta:
desiderare una vita più ampia e ricca, però ‘più tardi’. Swamiji mi ha
raccontato la nota, stupida storia del cartello nella vetrina del parrucchiere:
“Domani si taglia gratis”, solamente domani e giorno dopo giorno domani. Certo
che sarà sempre domani! Chiedete a una madre di abbandonare il proprio bambino!
Anche se le fate i più bei ragionamenti per convincerla che quell’abbandono è
necessario al suo sviluppo di donna e di amante, lei si rifiuterà. Siate
coscienti di questa contraddizione, voi ne morite lentamente.
L’unica fedeltà
reale a questo bambino ferito è di offrirgli la vita. Da quando è nato aspira a
crescere, a espandersi, a conoscere la pienezza sovrabbondante della vita.
Donategliela: dategli tutto ciò che aspetta da sempre e che non ha conosciuto.
Anch’io ho vissuto questa difficoltà, ma non l’ho compresa così chiaramente se
non quando ho conosciuto voi. Ho anche l’impressione, oggi lo posso dire, che l’Arnaud
infelice che ho conosciuto bene non smette di ringraziarmi per avergli
restituito la pienezza della vita che aveva perduto.
Dimenticate per un
istante il peso del passato, dei samskara, di ogni livello psichico,
lasciate che la respirazione vi prenda per mano e vi mostri come accogliere il
prana, il ki, come offrirvi a questa energia. Esiste un altro tipo
di respirazione cosciente, meno conosciuta dell’esercizio dello hara e
consiste nel respirare con tutta la superficie esterna di voi stessi come se
fosse permeabile. Vi aprite completamente e lasciate il prana penetrarvi
non solamente attraverso il naso, ma attraverso ogni poro della vostra pelle. La
respirazione ci accoglie alla soglia del tempio interiore nel quale la
meditazione ci fa penetrare sempre più profondamente e in seguito non ci lascia
più, ci guida fino alla sorgente che è anch’essa indicata dalla parola soffio:
pneuma, atman. La respirazione, a condizione che vi abbandoniate a
essa, vi conduce fino al cuore di voi stessi, nel Santo dei Santi. Capite che
non si tratta più di un approccio fisiologico. In alcune opere, si parla proprio
di pranayama ma si insiste molto sull’aspetto fisiologico: la
respirazione permette di ossigenare meglio il sangue, dunque di intensificare la
funzione cerebrale o, al contrario di diminuire l’irrigazione al cervello e
conseguentemente l’effervescenza dei pensieri. Un certo approccio del
pranayama è degradante per la funzione sacra della respirazione. E’ un
recupero della pratica attraverso l’io, in cui si dimentica che la respirazione
è la prima manifestazione di Dio in noi.
Dal momento che ci
basiamo sull’eredità di Swami Prajnanpad, ricordatevi della sua formula:
“Mangiare è una funzione vitale, respirare è la vita stessa”. Per un cristiano
lo Spirito Santo è il soffio, l’atman per un induista, ruh per un
sufi, lo spirito, il vento, la respirazione, sempre.
Mentre cercate di meditare,
perfezionate alcuni dettagli tecnici come la postura e l’atteggiamento della
nuca ma soprattutto affrontate questi esercizi con il senso del sacro, con il
sentimento che vi animerebbe se doveste incontrare il Buddha stesso. L’incontro
più importante che può essere fatto è quello con la nostra interiorità, con Dio
al cuore di noi stessi o con l’atman nella ‘caverna del cuore’ delle
Upanishad. Per giungervi sono necessari dei punti d’appoggio, ci vuole un
metodo. Concentratevi sulla vostra interiorità, rientrate in voi stessi, cercate
di sentire il vostro essere nella sua essenza. Per qualche istante siete
toccati, ritrovate voi stessi perché avete invertito la direzione della vostra
attenzione, ma, molto presto, le distrazioni ritornano, i pensieri parassiti vi
trascinano. Questa è la ragione per cui esistono molte tecniche altamente
elaborate, diverse per certi aspetti ma anche con elementi comuni a tutti gli
approcci corretti. Vi apprestate a fare una grande scoperta, a una sublime
rivelazione al cuore di voi stessi che non vi è stata ancora fatta e che si
realizzerà se venite guidati da alcuni metodi tradizionali e coerenti.