"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
1.1. Definizione - W. James nel suo The Varieties
of Religious Experience[1] scrive che se
intendiamo per preghiera «ogni tipo di comunione o conversazione intime con la
potenza riconosciuta come divina» possiamo facilmente constatare che la
preghiera è «la vera anima ed essenza della religione». Se ci interroghiamo sul
perché di questa impegnativa asserzione, una risposta ci viene offerta da James
stesso, che riporta alcuni passi di A. Sabatier [2],
il quale affermava:
La preghiera è religione in atto; cioè la
preghiera è vera religione. È la preghiera che distingue il fenomeno religioso
da quei fenomeni religiosi simili o limitrofi come il sentimento puramente
morale o estetico. La religione è nulla se non è l'atto vitale mediante il quale
lo spirito tutto intero cerca di salvarsi aggrappandosi al principio da cui
deriva la sua vita. Questo atto è preghiera, termine mediante il quale io
intendo non un vano esercizio verbale, non una mera ripetizione di parole, non
la ripetizione di determinate formule sacre, ma il vero movimento dell'anima che
si pone in una relazione personale di contatto col misterioso potere di cui
avverte la presenza, - forse anche prima che abbia un nome col quale chiamarla.
Dovunque questa preghiera interiore manchi, non v'è religione; dovunque, d'altro
canto, questa preghiera si eleva e scuote l'anima, anche in assenza di forme o
di dottrine, noi abbiamo una religione vivente. Si vede da questo perché la
cosiddetta "religione naturale" non è propriamente una religione. Essa taglia
fuori l'uomo dalla preghiera. Lascia lui e Dio a reciproca distanza, senza
nessun intimo contatto, nessun dialogo interiore, nessuno scambio, nessuna
azione di Dio sull'uomo, nessun ritorno dell'uomo a Dio.
E aggiunge James:
Il fenomeno religioso, considerato come fatto
interiore e a prescindere da complicazioni ecclesiastiche o teologiche, ha
mostrato di consistere, dovunque e in tutti gli stadi, nella coscienza che gli
individui hanno del rapporto tra loro stessi e le potenze superiori con le quali
si sentono in relazione. Questo rapporto è vissuto come, a un tempo, attivo e
reciproco.
Lo stesso contemplare la natura, con una sorta di fede nella
forza creatrice e regolatrice dell'universo (secondo quanto sostengono certe
forme di spiritualità "laica", come la cosiddetta "religione della natura" o
taluni orientamenti vitalistici, neopagani, ecologistici...), per quanto possa
indubbiamente essere piacevole per le persone pie, lascerebbe ad esse la parte
che gli spettatori hanno in una rappresentazione, mentre nella religione
esperienziale e nella vita di preghiera, ci sembra di essere noi stessi gli
attori e non in una rappresentazione, ma in una realtà molto importante
[3] . Già prima di James altri autori avevano
considerato la preghiera come parte essenziale dell'esperienza religiosa presa
nella sua totalità (ad es., L. Feuerbach: «la più intima essenza della religione
è rivelata dall'atto religioso più semplice: la preghiera» o F. D. E.
Schleiermacher: «essere pii e pregare sono di fatto la stessa cosa») e sostenuto
che essa è caratterizzata dal senso-della-presenza o dell'essere-alla-presenza
del sacro e dal desiderio di entrare in contatto con la divinità e l'invisibile.
Ciò ne fa, nella sua più elevata espressione, un movimento volontario e
cosciente di uscire da sé per andare (come in un pellegrinaggio spirituale) a un
incontro conversativo, nutrito di "intima amicizia" (S. Teresa d'Avila) col
divino, consentendo di distinguere una religione vivente da fenomeni che pur le
sono simili, come un indeterminato sentimento religioso (la cosiddetta
"religiosità") o le esperienze estetiche. Della preghiera è stato ancora detto
che «sta alla religione come il ragionamento sta alla filosofia» (Enc.
Britannica), per cui possiamo accogliere, come sintetiche definizioni,
quella del Webster's International Dictionary di atto consistente
nell'«indirizzare parole o pensieri alla divinità in richiesta, confessione,
lode o ringraziamento» o quella, analoga, dello storico delle religioni A. Di
Nola:
Forma rituale a mezzo della quale l'individuo o
la collettività si pongono in rapporto con le forze divine, per ingiungere,
chiedere, promettere, glorificare, confidenzialmente abbandonarsi nella
consapevolezza della propria limitazione
[4].
Considerata l'espressione più pura del linguaggio religioso,
i libri fondamentali delle tradizioni religiose vengono a essere visti come
raccolte di preghiere: così il libro dei Salmi, in cui la storia biblica
viene trasformata in preghiera; le Confessioni di S. Agostino, lungo
dialogo col Creatore; il Qur'an, "recitazione" di un'unica grande
orazione.
Già queste definizioni evidenziano il fondamentale carattere della preghiera di
essere, da un lato, espressione dell'esigenza di comunicazione col sacro, il
trascendente, le potenze soprannaturali; dall'altro, testimonianza della
coscienza che l'uomo ha acquisito delle proprie fragilità (nei confronti
della natura), precarietà (come essere mortale), dipendenza (dalla
realtà esterna): tutti vissuti precedenti le forme stesse che le tradizioni
religiose hanno elaborato per dar loro espressione e che possono spiegarci la
ubiquitaria presenza di questo fenomeno.
1.2.1. Fenomenologia. - Un approfondimento delle
manifestazioni della preghiera non sembra poter prescindere dall'esame dei
termini impiegati in riferimento a essa, che vede, nella nostra lingua, la
presenza di due parole fondamentali: "preghiera" e "orazione". Preghiera, dal
lat. prex, col significato di supplicare, pregare (ma va ricordato che
precari aveva anche il valore "negativo" di imprecare, maledire, augurare il
male, come in mala precari), da cui precarius = ciò che si ottiene
con preci, che è concesso per grazia (e, come tale, incerto, provvisorio)
[5]; orazione, dal lat. orare (a sua volta
da os, oris = bocca) col significato di parlare, e che può
indicare sia un discorso di stile eloquente tenuto in pubblico (ad es., orazione
accademica, funebre, sacra, politica, etc.) sia preghiera, riportandoci quindi
subito al suo predetto aspetto verbale, consistente nell'indirizzare parole alla
divinità per dare forma articolata al rapporto col divino e il sacro
[6].
L'analisi di tali termini e la definizione datane da M. Mauss come "rito orale",
ci aiutano a collocare la preghiera nel quadro generale delle operazioni in cui
si articola la condotta (v. Tab. 1): da questo facilmente
possiamo rilevare che essa va posta tra le operazioni simboliche sia
autoplastiche mentali (preghiera interiore) che alloplastiche di comunicazione
(orazione).
Se il termine preghiera indica la forma di linguaggio che l'uomo adotta per
colloquiare col divino, sarà opportuno distinguere alcune altre forme
linguistiche a essa prossime, ma relative a esperienze dotate di differenti
caratteri e fini. Fanno parte della rivelazione le parole che si ritiene
il divino indirizzi all'umanità; mentre le espressioni che costituiscono le
formulemagiche (incantesimi, formule efficaci, etc.) sono parole
attraverso le quali si intende realizzare un controllo automatico sulla Realtà
di potenza verso la quale non si esprime più un rapporto di dipendenza
creaturale, ma si pretende un effetto fondato esclusivamente sulla efficacia
della parola stessa e degli atti che eventualmente la accompagnano (al pari di
quanto avviene col sacramento, ritenuto efficace ex opere operato).
Infine, una volta realizzata la certezza di comunicare con l'infinito e
l'invisibile, il sentimento di distanza e di inadeguatezza, di stupore e di
meraviglia, di confronto e di tenerezza può esprimersi talvolta, come accade in
ogni vero dialogo, attraverso il silenzio; un silenzio che può anzi considerarsi
la forma di espressione la più adeguata al mistero ultimo: non un silenzio
afasico, ma un silenzio poetico ed evocativo, fatto di innocenza e umiltà.
Quanto a origine e finalità, la preghiera - come abbiamo già visto dalle
definizioni - è stata connessa al bisogno che spinge a far ricorso-a,
rivolgersi-a, indirizzarsi-a, bisogno che progressivamente struttura
i desideri in forme sempre più degne di poter essere presentate agli dèi.
Prevista per le situazioni di incertezza dei tempi forti delle soglie
dell'esistenza (nascita, pubertà, matrimonio, morte...) o di situazioni comunque
"critiche" (malattie, calamità, guerre...), dalle funzioni di rassicurazione per
l'intervento delle potenze divine o di incantesimo con dirette pretese
operative, la preghiera evolve dall'espressione dei bisogni di sussistenza
(caratterizzati da mancanza, impotenza, necessità elementari) a quella dei
bisogni di senso (comprendere il mondo, definire il proprio spazio in esso,
mettere ordine nel caos degli esseri e degli eventi). Ciò esita in una lettura
del mondo come ierofania, dando a esso significati che vengono da più
lontano di quanto possa offrire la coscienza razionale, significati che vengono
trovati chiamando in campo l'infinito e ponendosi in comunicazione con una
realtà dotata di caratteri "altri" rispetto a quelli della realtà fenomenica e
finita.
Nella storia interna della preghiera, possiamo pertanto osservare il presentarsi
di una doppia tendenza: da un lato, la "magificazione", cioè la tendenza a
trasferire sul piano magico i significati religiosi della preghiera (ad es., con
il configurarsi del sacerdote, quando si perda la comprensione del significato
delle parole, come operatore di tipo magico); dall'altro, un processo di
progressiva "mentalizzazione" e interiorizzazione, nella misura in cui viene
sempre più affermandosi l'autonomia del soggetto. Come osserva G. van der Leeuw,
la preghiera passa progressivamente da attività sociale a dimensione del
privato,
perde il carattere di dialogo e diventa un
monologo saturo di forza religiosa [...], ormai non si prega più per ottenere
qualche cosa; la preghiera-richiesta è finita, o per lo meno viene considerata
un'imperfezione. Di grado in grado la preghiera diventa pia meditazione,
monologo. Non è più necessario un interlocutore cui rivolgersi, si prega il
proprio io superiore o addirittura si prega sé stesso, oppure si considera senza
importanza la questione, a chi la preghiera sia rivolta. [...] La preghiera
rimane, certo, una celebrazione della potenza, ma di una potenza priva di figura
e di volontà. Come essa, chi prega deve perdere ogni volontà; il soggetto deve
stare «come una tela che aspetta di fronte al pittore, come un cero che arde,
struggendosi d'amore»[7].
Un esempio di questo processo di "rarefazione" lo troviamo
nella tradizione islamica in cui è detto che è Allah che invoca Allah, ma che
Allah, propriamente, non è altro che il nome di Allah
[8]. Nel buddhismo, poi, come "religione" che si
pone al di là del concetto di Dio personale, il significato di preghiera, se si
vuole continuare a usare tale termine, deve essere profondamente modificato,
passando attraverso una profonda "fluidificazione" dei nostri paradigmi.
1.2.2. Preghiere orali e preghiere scritte. - Abbiamo
fin qui parlato di espressioni verbali, non accennando ancora alla distinzione
tra testi orali e testi scritti, ma la rivoluzione culturale operata
dall'introduzione della scrittura non poteva non avere effetti anche nella
preghiera. La tradizionale recitazione orale era già in sé perfetta e quindi non
bisognosa di "perfezionarsi" attraverso la scrittura; tuttavia, questa consente
di praticare una sorta di magia, attraverso un mezzo che permette di dominare la
parola viva e di conferirle una "maneggevolezza" paragonabile agli effetti di
"trasduzione" di una forma di energia in un'altra più facilmente manipolabile.
Un testo scritto può, infatti, essere diffuso in maniera fedele e uniforme,
diviene accessibile a tutti, o almeno a tutti gli alfabetizzati, riduce il peso
degli intermediari depositari del messaggio, costituisce la pre-condizione di un
libero esame personale. Anche dove si hanno testi scritti, la lettura ad alta
voce o la recitazione rimangono tuttavia presenti nei diversi "servizi
religiosi", poiché, oltre a rappresentare la base di momenti collettivi di
culto, esse esprimono la sempre viva convinzione che la parola, solo se
pronunciata, sia dotata di forza operante.
A fronte di questi aspetti che possiamo chiamare "democratici" della parola
scritta, va rilevato che mentre il linguaggio parlato "naturale" è mobile,
caldo, indipendente da strumenti extracorporei, il linguaggio scritto è
decontestualizzato, autonomo, immobile, non consente una risposta immediata,
tende ad assumere un valore oracolare, diviene la base generativa di possibili
fondamentalismi. L'ortodossia scritturale è giunta addiritura, sulla base
dell'assioma: «quel che si trova tra le due copertine del volume è parola di
Dio», a considerare sacri non solo il testo ma anche la carta e l'inchiostro[9].
Un esempio che illustra bene la nuova "maneggevolezza" conferita dalla scrittura
(consentendo addirittura forme di incorporazione!), lo troviamo nel libro dei
Numeri, 5, 11-31, ove leggiamo che un marito geloso potrà condurre dal
sacerdote la propria moglie, per chiedere di verificarne l'innocenza o la
colpevolezza. Il sacerdote scioglierà una "maledizione" nell'acqua e la farà
bere alla donna:
Quando le avrà fatto bere l'acqua, se essa si è
contaminata e ha commesso un'infedeltà contro il marito, l'acqua che porta
maledizione entrerà in lei per produrre amarezza; il ventre le si gonfierà e i
suoi fianchi avvizziranno e quella donna diventerà un oggetto di maledizione in
mezzo al suo popolo. Ma se la donna non si è contaminata ed è pura, sarà
riconosciuta innocente e avrà figli.
Nella pratica terapeutica della medicina tradizionale
islamica, il guaritore sufi può recitare frasi tratte dal Corano e, col respiro
impregnato di esse, "soffiarle" sul paziente oppure scriverle perché vengano
indossate come amuleti. Altre volte viene utilizzata l'acqua come solvente per
trasferire il potere di tali formule: il guaritore può soffiare le formule su
dell'acqua che il paziente beve o con cui si lava la parte malata del corpo,
oppure scriverle su un foglietto e "scioglierle" nell'acqua utilizzata dal
paziente allo stesso modo.
Vanno anche ricordati gli usi buddhisti di sventagliare un libro come
equivalente della lettura o quello di raccogliere dei testi in cofani cilindrici
girevoli, di diverse misure, detti "mulini di preghiera", facendo girare i quali
si ritiene di fare un'opera equivalente allo studio o alla recitazione.
Nell'ebraismo, alcuni versetti della Torah vengono scritti su rotolini di
pergamena inseriti nei Tefillin (due scatoline di pelle, munite di
cinghie, una delle quali viene legata al capo, sulla fronte, l'altra al braccio
sinistro), mentre la Mezuzah è un rotolo con altri versetti, chiuso in un
astuccio, appeso allo stipite destro (per chi entra) delle porte della casa, che
viene sfiorato passando[10].
1.2.3. Tipologia. - Le forme assunte dalla preghiera
sono innumerevoli e ogni classificazione che pretenda di essere troppo rigida
rischia di rimanere incompleta e con ampi margini di arbitrarietà, anche perché
le varie forme sono spesso tra loro connesse e possono sfumare da un tipo
all'altro. Tuttavia, per rendere possibile una considerazione comparativa,
dall'esame delle tipologie presentate nella letteratura storica e teologica,
possiamo ricavare gli schemi riportati nella Tab. 2, per i
contenuti espressi e le finalità che l'orante si propone, e nella
Tab. 3, per gli elementi che accompagnano, intensificano o
modificano l'atto del pregare.
2. La preghiera nel buddhismo
2.1. Generalità - Nel buddhismo si compie una sorta di
salto mortale, operandosi prima uno spostamento dal piano della realtà ordinaria
(samsara) a quello della Realtà assoluta (come infinito, sacro, mistero),
come tale "altra" rispetto al mondo fenomenico, perché non-duale, non-effimera,
priva di determinazioni e quindi identificabile come Vacuità, Nirvana,
Realtà ultima, "matrice", e logicamente un "prius", rispetto al mondo finito,
per tornare poi a questo, in una visione unificante riassunta dalla formula
mahayana: «Il Nirvana è il samsara». Ne segue che i fenomeni sono visti, a
questo punto, come ierofanie in senso forte, in quanto costitutivi, e non
accessori, di quella Realtà assoluta non-trascendente e non-separata, che nei
fenomeni è, vive e si realizza come Assoluta assolutezza non più dualisticamente
contrapposta al finito («La Vacuità è forma; la forma è Vacuità»). Potremmo
tentare una analogia, con mero valore euristico, con quanto osserviamo nel
cristianesimo, in cui l'accento viene posto (a cominciare dalla stessa
denominazione) preferibilmente su Gesù, Assoluto che si è fatto forma, piuttosto
che su Dio Padre, Assoluto che non può essere rappresentato.
Due aneddoti possono aiutare a comprendere la particolare modalità del buddhismo
di essere religione. Il primo si riferisce alla conversazione di Bodhidharma,
patriarca dello zen, con l'imperatore cinese Wu:
L'imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma:
«Dall'inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho fatto trascrivere
tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale pensi che sia il mio
merito?»
«Proprio nessun merito, Maestà!» rispose seccamente Bodhidharma.
«Perché?» chiese, stupito, l'imperatore.
«Tutte queste opere sono d'un ordine inferiore», rispose in modo significativo
Bodhidharma, «le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cieli o
sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che
accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle
irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e
misterioso, la sua vera natura è fuori dalla portata dell'umano intelletto.
Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso».
Allora l'imperatore Wu chiese a Bodhidharma: «Qual è il primo principio della
santa dottrina?»
«È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!»
rispose Bodhidharma.
«E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?».
«Non lo so, Maestà!»[11]
.
Il secondo aneddoto narra di un missionario cristiano che,
vedendo un monaco cinese in preghiera, gli chiese:
- Chi stai pregando?
- Nessuno, rispose il monaco.
- Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario.
- Per nulla, rispose ancora il monaco.
E, mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco
aggiunse: - Comunque, guarda che non c'è nessuno che sta pregando.
Molti autori (v., per tutti, H. M. Enomiya-Lassalle, gesuita
tedesco, profondo conoscitore del buddhismo giapponese) hanno ritenuto di
individuare la diversità del buddhismo, rispetto alla tradizione
giudaico-cristiana, nella differente concezione dell'Assoluto: personale in
questa, impersonale nel buddhismo. In realtà, possiamo dire che la concezione
buddhista sia quella di un Assoluto né personale né non-personale, collocandosi
non al di qua ma al di là dell'idea di Dio, in quella zona di insondabile
mistero in cui gli attributi di Dio trovano fondamento in una Legge (Dharma)
cui Dio stesso, per un verso, "deve" in qualche modo conformarsi e che, per un
altro, coincide con Lui, nella insuperabile oscillazione tra un Assoluto
definito, e quindi penultimo, e un Assoluto indefinibile, ultimo e ineffabile
(Vacuità come assenza di determinazioni).
Ciò posto, dobbiamo domandarci: ha senso parlare di preghiera in questa
tradizione spirituale? Nella pratica buddhista si è soliti dire che la
meditazione rappresenta l'analogo di ciò che la preghiera è nelle altre
tradizioni. Tuttavia, questa analogia può considerarsi solo in parte corretta,
per cui non potendo trattare qui tale argomento[12],
ci limitiamo a esaminare quelle situazioni (servizi religiosi e pratiche
individuali) che, secondo quanto abbiamo sopra definito, implicano operazioni
simboliche verbali. Per quanto riguarda i servizi, va ricordato che col termine
sanscrito puja (funzione, cerimonia) si intendono, sia nel buddhismo
Theravada che in quello Vajrayana, le cerimonie - di diversa struttura e
complessità - in cui la componente verbale (recitazione di testi, della formula
del rifugio, di mantra) si accompagna ad altre modalità (mudra, invocazioni,
offerte) a formare dei veri riti devozionali. Riferendoci poi alla tipologia
delle Tabb. 2 e 3, potremo verificare quali forme di preghiera possano essere
considerate coerenti e compatibili con il Buddha-Dharma.
Cominciamo con le preghiere di invocazione e di lode, ricordando che il
buddhismo giapponese ha esplicitamente distinto due modalità attraverso le quali
si può realizzare il progresso spirituale: la prima, detta jiriki (=
ottenere la salvezza attraverso la forza propria), sottolinea l'impegno
personale e la necessità di sottoporsi a una disciplina specifica; l'altra,
tariki (= ottenere la salvezza grazie a un aiuto dall'esterno), fa del
praticante un fedele e del Buddha Amida
[13], con una tendenza che può spingersi verso
una connotazione della sua figura in termini monoteistici, il Salvatore che
consente di rinascere nel paradiso della Terra pura e non più nei mondi di
sofferenza. A tal fine, si pratica l'invocazione del suo nome, secondo il
Nembutsu, ossia una invocazione rivolta al Buddha Amida secondo la formula
Namu Amida Butsu (Onore/lode al Buddha Amida), ripetuta una sola volta o
indeterminate volte (per permanere nella condizione di salvezza o di premessa
della salvezza), contando eventualmente le ripetizioni con l'aiuto di un rosario
(juzu). La ripetizione del nome - com'è noto - è pratica diffusa, non
solo nell'ambito religioso, ma anche in quello profano (v. la ripetizione del
nome della persona amata), basata sull'idea che il nome sia carico del valore di
essenza, della divinità o della persona, e che la ripetizione sia il mezzo per
unirsi e assimilarsi a essa.
L'uso del rosario
[14]avvicina le modalità della preghiera
buddhista di lode a quelle di altre tradizioni. Sull'origine dell'impiego del
rosario buddhista ricordiamo quanto viene narrato nel sutra intitolato Sutra
dell'albero di saponaria (Mu-huan-tzu-ching o Mokugenji):
Il re di Vahisali, Haruri, mandò un giorno un
messaggero a Shakyamuni con questo messaggio:
- Il mio territorio è afflitto da epidemie, bestie feroci sono presenti notte e
giorno e la popolazione è molto turbata. Ti prego, attraverso i tuoi divini
poteri, di farmi sapere come può essere salvata.
Il Buddha, pieno di compassione, rispose:
- Messaggero, c'è una appropriata via di salvezza per la popolazione. Dovreste
portare sempre con voi 108 grani dell'albero di saponaria, legati insieme, e
cantare con tutta la vostra intensità mentale, i nomi di Buddha, del Dharma e
del Samgha. Facendo ciò voi estinguerete i tormenti originati dai desideri
mondani e otterrete i piacevoli frutti celesti. E se continuerete col vostro
canto vi libererete delle 108 contaminazioni e otterrete la prova del supremo
compenso.
Così fu fatto e il popolo riconquistò la sua pace.
Diffusosi in Giappone a partire dal'VIII sec. d.C., il
rosario può essere utile, in quanto "mezzo didattico" o "mezzo abile" (skr.
upaya o giapp. hoben), come segno di identità e come ausilio per
purificare, col ricordo-consapevolezza, la mente e l'azione indirizzate verso la
via del Buddha. Alle 108 contaminazioni corrispondono 108 caratteri e
insegnamenti dell'Illuminato, di cui riportiamo, in Tab. 4,
alcuni esempi (rispettivamente in col. dx e col. sn).
Nichiren (Junyoze-ji) affermava che esiste un rapporto diretto tra il
numero di recitazioni e la possibiltà di accesso alla verità: ripetere il
Daimoku (o titolo del Sutra del Loto, v. oltre) 10 volte significa
avere una comprensione 10 volte di più che recitandolo una volta sola, ripeterlo
100 volte significa una comprensione 100 volte maggiore e via moltiplicando.
Ad altra classe, quella delle preghiere "dichiarative" (secondo la tipologia
sopra presentata), ci riportano espressioni verbali largamente presenti nella
pratica religiosa buddhista. Innanzitutto, la cosiddetta "presa di rifugio"
ovvero la dichiarazione di ricercare protezione dalle intemperie dell'esistenza
nel Dharma, nel Buddha e nel Samgha (ossia nel "Triplice gioiello"),
dichiarazione che rappresenta l'ingresso nella religione buddhista. Essa
consiste nella ripetizione, per tre volte, di:
Prendo rifugio nel Buddha,
prendo rifugio nel Dharma,
prendo rifugio nel Samgha.
Sempre a questa classe appartengono i "quattro voti del
bodhisattva" mahayana:
Per quanto innumerevoli siano gli esseri, faccio
voto di salvarli;
per quanto inesauribili siano gli attaccamenti, faccio voto di estinguerli;
per quanto incommensurabili siano gli insegnamenti, faccio voto di
padroneggiarli;
per quanto illimitata sia la via del Buddha, faccio voto di percorrerla.
Esiste poi una serie di formule che sono, a un tempo,
strumenti di concentrazione dell'attenzione-consapevolezza sulle varie
operazioni della condotta ed espressioni religiose di ringraziamento, potendo
venire applicate a tutti i tipi di attività e in ogni momento del giorno, con
modalità e finalità in qualche modo analoghe a quelle delle "benedizioni"
ebraiche, ma con formulazioni variabili da scuola a scuola. Come esempio,
ricordiamo le formule impiegate al momento dei pasti nella tradizione zen:
Esprimo la mia riconoscenza per la benevolenza
dell'universo e per il lavoro di tutte le persone che hanno contribuito a darmi
questo cibo.
Prendo questo cibo riflettendo sulle mie imperfezioni.
Cercherò di vigilare per non lasciarmi andare ai tre veleni della
inconsapevolezza, della avidità e della collera al fine di utilizzare
giustamente questo cibo [Assumendo questo cibo la mia mente sia libera da
preferenze e attaccamenti].
Prendo questo cibo ricordando che mi fornisce l'essenziale per la salute del mio
corpo.
Prendo questo cibo utile per [la salute e il vigore del mio corpo necessari per]
seguire il cammino degli insegnamenti del Buddha.
2.2. La preghiera nel Sutra del Loto
e la preghiera del Sutra del Loto.
- Il Sutra del Loto (SaddharmapundarikaSutra) è, insieme al Sutra del cuore della perfezione di saggezza,
uno dei più diffusi e universalmente venerati sutra del buddhismo mahayana.
Rimandando ad altre pubblicazioni il compito di illustrarne le peculiari
caratteristiche e giustificarne l'importanza[15],
volgiamoci a esaminare come il tema della preghiera sia in esso presente, nel
doppio aspetto della preghiera nel sutra e del sutra stesso come
preghiera.
2.2.1. - Per il primo aspetto, troviamo numerose
indicazioni/esortazioni alle invocazioni e ripetizioni del nome del Buddha o dei
Bodhisattva. Nel cap. II, ad es.:
Se qualcuno, anche con mente distratta, entra in
uno stupa o in un tempio ed esclama, anche una sola volta «Namah [prendo
rifugio nel/lode al] Buddha» ha ottenuto la via del Buddha.
E ancora, cap. XXI:
Allorché quegli esseri viventi, dopo aver
ascoltato la voce nel cielo, giunsero le mani in direzione del mondo saha
ed esclamarono: «Namah Sakyamuni Buddha! Namah Sakyamuni Buddha!». Poi,
prese varie qualità di fiori, incensi, collane, baldacchini, come pure ornamenti
personali, gemme e altri oggetti preziosi, li gettarono in direzione del mondo
saha.
L'invocazione, come possiamo osservare, è accompagnata da
omaggi e offerte, in un complesso rituale che integra l'orazione in una pratica
devozionale molto ricca.
L'intero cap. XXV è dedicato a uno dei più grandi bodhisattva:
Avalokiteshvara (cin. Kuan-yin, giapp. Kannon), ipostasi della
misericordia buddhista e figura molto presente nella devozione popolare
estremorientale. Tale capitolo costituisce una sorta di sutra a sé stante e
viene recitato e utilizzato indipendentemente dal resto del Sutra del Loto.
In esso, l'invocazione del nome di Avalokiteshvara non è più soltanto occasione
di lode e manifestazione di rispetto, ma diviene - alla luce delle sue virtù e
dei suoi poteri - una preghiera impetratoria di liberazione da ogni sorta di
negatività.
Se qualcuno invoca il nome del Bodhisattva
Kannon anche se cade in un grande fuoco, le fiamme non saranno in grado di
bruciarlo grazie al potere soprannaturale del Bodhisattva.
Se qualcuno si trova sbattuto dai flutti, invocando il suo nome giungerà in un
luogo dove tocca terra. [...] Se qualcuno che sta per essere colpito pronuncia
il nome del Bodhisattva Kannon la spada o il bastone dell'aggressore saranno
frantumati ed egli sarà salvo.
Anche se qualcuno è tormentato da un numero enorme di demoni malvagi,
pronunciato il nome del Bodhisattva Kannon, nessuno di questi spiriti oserà più
guardarlo con occhi maligni e tanto meno colpirlo.
Quando un uomo colpevole o non colpevole si trova rinchiuso in una cella, legato
da ceppi o catene, se invoca il nome del Bodhisattva Kannon le sue catene si
spezzeranno e riacquisterà la libertà.
Anche se tutte le terre dei tremila chiliocosmi fossero piene di nemici e un
mercante si trovasse a capo di una carovana che trasporta preziosi tesori lungo
una strada pericolosa, se uno del gruppo griderà: «Uomini devoti, non abbiate
paura! Pronunciate il nome del Bodhisattva Kannon, poiché egli può dare coraggio
a tutti gli esseri viventi. Se invocate il suo nome sarete liberi da questi
nemici e ladri», e, ascoltate queste parole, tutti insieme grideranno a una
voce: «Namah, Bodhisattva Kannon!» essi saranno liberati.
Sempre secondo questo sutra, se una donna desidera un figlio
maschio o una figlia femmina, se qualcuno è perseguitato, se rischia di essere
avvelenato, se è attaccato da animali, minacciato dalle intemperie, torturato da
insopportabili dolori, trascinato in tribunale..., invocando Kannon riceverà
l'aiuto adeguato.
Possiamo osservare che sarà poi il livello di fede e di maturità del singolo
credente a condurre a una interpretazione letterale di queste promesse di aiuto
ovvero a una lettura che guidi verso il superamento della separatezza, implicita
nelle situazioni di sofferenza e di paura, attraverso la concentrazione sul
principio della benevolenza universale che riconduce all'Assoluto al di là di
tutte le determinazioni.
Infine, nel Sutra del Loto è presente un intero capitolo, il XXVI,
dedicato ai Dharani. La parola (dalla radice sanscrita dri =
sostenere, supportare, corrispondente al pali Paritta = protezione,
difesa) significa letteralmente sostegno o recipiente di potere magico e indica
la recitazione di
formule stereotipate, dispositivo esoterico di
origine animistica, adottato dai buddhisti col primario proposito di proteggere
l'umanità superstiziosa da specifici timori e pericoli del mondo esterno
mediante mezzi esteriori ai quali era da lungo tempo adattata [...]. Consiste di
brevi formule costituite da parole o versi talora in forma di un sutra o
discorso, usualmente attribuito al Buddha, e ritenute dotate di irresistibile
potere magico, esercitato ogniqualvolta la formula è ripetuta o ricordata o (in
forma scritta) indossata come un amuleto
[16].
Si è discusso se la presenza dei Dharani sia da
ritenersi un caso di arcaismo, una intrusione nella dottrina buddhista di
contenuti propri di altre tradizioni o, infine, di una modalità introdotta o
"santificata" intenzionalmente dal Buddha stesso. Comunque sia, i Dharani
sono ritenuti dotati di significati profondi e di poteri magici, composti di
invocazioni ed esclamazioni, dal significato incomprensibile a coloro stessi che
li recitano. Nel Sutra del Loto sono applicati a protezione di «coloro
che accettano, sostengono, leggono, recitano e predicano questo sutra». Come
esempi, riportiamo i versi seguenti, dai quali appare evidente il peso della
dimensione fonetica:
2.2.2. - Veniamo ora al Sutra del Loto come
oggetto di devozione e di preghiera. Il Sutra opera, nel suo stesso
interno, una autocelebrazione, dichiarando la propria "superiorità" rispetto
agli altri sutra, come poi hanno riconosciuto e giustificato Chih-i, fondatore
della Scuola T'ien-t'ai cinese; Dengyo Daishi, fondatore della Scuola Tendai
giapponese; Dogen, patriarca dello Zen Soto giapponese, e Nichiren, iniziatore
della tradizione che a lui si richiama.
Nel buddhismo estremorientale la scuola che più ha affermato il valore e
l'importanza del Sutra del Loto è certamente quella T'ien-t'ai
(giapp. Tendai), dalla quale anche lo Zen e il buddhismo di Nichiren
hanno attinto la stessa convinzione
[17]. A questa scuola è dovuta una proposta di
sistematizzazione degli insegnamenti buddhisti (cin. panjiao, giapp.
hankyo), almeno fino a quelli del V-VI sec. d.C., secondo una sequenza di
importanza e complessità progressive, per cui si hanno:
periodo dell'Avatamsaka Sutra, insegnamento effettuato subito dopo
l'illuminazione; considerato simile al sole dell'alba, i cui raggi illuminano
soltanto i monti più alti;
periodo dei sutra Theravada o del buddhismo fondamentale; simile al sole
che illumina le vallate più basse;
periodo in cui il buddhismo antico evolve nel Mahayana e si passa dall'ideale
del perfezionamento individuale a quello del bodhisattva al servizio di tutti
gli esseri senzienti; corrisponde al Vimalakirti Nirdesa Sutra e al
Lankavatara Sutra; simile al sole delle ore 8;
periodo del Prajñaparamita Sutra, che insegna la dottrina della Vacuità;
simile al sole delle ore 10;
periodo del Sutra del Loto e del Nirvana Sutra, corrispondenti
alla dottrina suprema del Buddha (unificazione dei precedenti insegnamenti nel
veicolo unico, Ekayana); simile al sole di mezzogiorno che, senza
distinzioni, illumina tutta la terra.
Come nel vangelo cristiano l'annuncio del Regno non è più affidato ai profeti,
ma alla parola stessa di Dio attraverso Gesù Cristo, così nel buddhismo, dopo
l'impiego di tanti "mezzi abili" o espedienti salvifici (sanscr. upaya,
giapp. hoben) offerti negli insegnamenti precedenti, col Sutra del
Loto si ha una rivelazione diretta, compiuta e suprema della Verità eterna
insegnata dai Buddha di tutti i tempi. Con un annullamento del tempo ordinario e
l'irrompere di un tempo altro
[18], la contemporanea presenza di
Prabhutaratna (Buddha del passato), Sakyamuni (del presente),
Maitreya (del futuro) viene testimoniata e legittimata la perennità e la
supremazia dell'insegnamento del Loto. Per questo, si dice che il Buddha
apre i tre e rivela l'uno; apre il transitorio e rivela il profondo; apre il
recente e rivela il lontano. E Dogen, per parte sua, afferma:
Il Sutra del Loto è il re dei sutra:
riconoscetelo come il vostro grande maestro. Comparato a questo sutra tutti gli
altri si pongono soltanto come suoi contenuti, perché esso soltanto esprime la
verità ultima. Gli altri presentano soltanto insegnamenti provvisori, non le
vere intenzioni di Buddha
[19],
Se la dichiarata "superiorità" del Sutra del Loto
potrebbe far sospettare una deriva del tipo "religione del libro", in qualche
modo in contrasto con lo spirito più autenticamente "dialettico" del
Buddha-Dharma, sarà opportuno non dimenticare la sottile distinzione tra il
sutra come scrittura (sutra con una ideale iniziale minuscola, forse
da considerare anch'esso solo uno dei mezzi didattici per la diffusione del
Buddha-Dharma) e il Sutra (con iniziale maiuscola) ossia l'insegnamento
del Sutra del Loto come inesprimibile Verità ultima di tutti i Buddha
[20]. In altre parole, tale "pericolo" potrà
essere scongiurato nella misura in cui questa scrittura, da un lato, non venga
isolata dal contesto dato dalla totalità degli insegnamenti buddhisti
(isolamento che la renderebbe, tra l'altro, incomprensibile) e, dall'altro,
venga ricordato che il veicolo unico (Ekayana)
[21] proposto dal sutra è un veicolo
"vuoto", perché al di là di tutti i veicoli, e quindi non può significare
proporre il Sutra del Loto come scrittura quale unico veicolo!
Affermato nel cap. X che il Sutra del Loto racchiude «il segreto
essenziale tesoro di tutti i buddha», nel cap. XXI il Buddha dice:
I divini poteri dei Buddha sono così illimitati
che si pongono al di là dell'intelletto e delle parole. Anche se Io, mediante
questi divini poteri, per un tempo illimitato, descrivessi i meriti di questo
sutra allo scopo di assicurarne la trasmissione, non potrei mai arrivare alla
fine. Poiché, in breve, tutte le dottrine possedute dal Tathagata, tutti i
sovrani divini poteri del Tathagata, tutti i segreti fondamentali tesori del
Tathagata, tutte le più profonde condizioni del Tathagata, tutto ciò è
proclamato, mostrato, rivelato ed esposto in questo sutra.
E nel cap. XXIII
Tra tutti i sutra predicati dai Tathagata questo
è il più profondo e il più grande [...]. Tra milioni di insegnamenti dei sutra
esso è il più illuminante. Come il sole è capace di fugare ogni oscurità così
questo sutra è in grado di disperdere ogni insana oscurità.
Da queste affermazioni sembra evidente che ci si debba
riferire al Sutra e non al sutra o che, quantomeno, i due aspetti debbano essere
costantemente tenuti presenti.
Stabilita, infine, l' equivalenza tra il sutra e «l'intero corpo del Buddha»
(cap. X) è facile comprendere che vengano ad esso attribuiti divini, salvifici
poteri (cap. XXII):
Come il Buddha è il re delle leggi così questo
sutra è il re dei sutra. [...] Questo sutra è ciò che può salvare tutti gli
esseri viventi; questo sutra può liberare tutti gli esseri viventi dai dolori e
dalle sofferenze; questo sutra può arrecare grandi benefici a tutti gli esseri
viventi ed esaudirne i desideri. Come una limpida e fresca fonte è in grado di
soddisfare tutti gli assetati, come un fuoco per chi ha freddo, una veste per
chi è nudo, una guida per una carovana di mercanti, la madre per un bambino, una
barca per chi deve attraversare le acque, un medico per un ammalato, una lampada
nell'oscurità, un gioiello per un povero, un sovrano per un popolo, la via per
il mare per un mercante in viaggio, una torcia che fa svanire l'oscurità così è
il Sutra del Loto, capace di liberare tutti gli esseri viventi da ogni
sofferenza e da ogni malattia, e di sciogliere tutti i vincoli della vita
mortale.
Viene così a costituirsi una pratica di preghiera del
sutra, consistente nell'accogliere, leggere, recitare, diffondere, copiare il
Sutra del Loto, per intero o soltanto pochi o anche un singolo verso o il
suo nome (XXVI). Il valore salvifico del nome del Dharma (e del Sutra del
Loto assimilato al Dharma), ha portato progressivamente alla valorizzazione
della scrittura e della recitazione del titolo stesso. G. Jenner
[22] fa notare come questo non sia esclusivo del
Sutra del Loto e come, nei capitoli di dedica con cui terminano la
maggior parte dei sutra Mahayana, venga spesso sottolineata, al fine di fornire
una garanzia di legittimità, l'importanza del titolo. Gli effetti positivi
ottenuti recitando o copiando il Sutra del Loto sono all'origine di tutta
una letteratura di racconti di miracoli (ad es., uscita dall'inferno), redatti a
gloria di questa scrittura. Nelle narrazioni degli ultimi momenti della vita di
Chih-i (538-597) viene menzionata, pur senza troppo enfatizzare l'importanza di
questa pratica, la recitazione del titolo del Sutra del Loto. Recitare il
titolo è comunque un atto meritorio, poiché esso rappresenta il più adeguato
riassunto del testo e cioè l'essenza stessa di un insegnamento. Nell'autorevole
e recente A History of Japanese Religion, curata da K. Kasahara, viene
riferito che, dalle agiografie dell'ultimo periodo di Heian, si apprende che
molti dei devoti sostenitori del Sutra del Loto [jikyosha]
cominciarono un'opera di proselitismo per la salvezza di tutti gli esseri
senzienti. Ancora, secondo tali scritti, molti preti e devoti laici del Loto
erano considerati capaci
di ottenere una rinascita in una delle Terre
pure recitando sul letto di morte qualcuno dei versi importanti del Loto,
come per esempio, «di coloro che ascoltano il Dharma nemmeno uno mancherà di
conseguire la buddhità» [cap. II]. In effetti, la devozione al Loto
tendeva a essere focalizzata su segmenti sempre più piccoli del testo:
dall'intero Sutra a un singolo capitolo (per esempio, il capitolo sulla
Durata della vita del Tathagata), a versi di particolare importanza.
Nell'ultimo Heian troviamo devoti copiatori del Sutra che cantano il
sacro nome di Amida o il sacro titolo del Sutra del Loto (in giapponese
nella forma di Namu Myo-ho-renge-kyo) e di preti Tendai che predicano
l'efficacia della recitazione del Daimoku nell'ora della morte. Pertanto,
il pietismo del Loto tese progressivamente a prendere la forma della
recitazione del titolo del sutra, con uno sviluppo che raggiunse il suo culmine
nell'insegnamento di Nichiren nel periodo di Kamakura
Chih-i non considerava il titolo come una "sintesi magica"
del contenuto del testo, ma ne analizzava le parole che lo compongono per
dedurne una rappresentazione mistica dell'universo. Nichiren riprende,
interpreta, modifica l'analisi di Chih-i attribuendo al titolo un valore
salvifico, anche sotto l'influenza dell'amidismo, il popolare movimento "rivale"
del periodo di Kamakura, che basava la sua pratica salvifica nella ripetizione
del nome di Amida. La pratica della recitazione di entrambe le due formule,
favorita dal fascino della semplicità a fronte dei complessi itinerari
meditativi di altre scuole, continuò ad avere larga diffusione, sia pure
conservando i rispettivi differenti caratteri, essendo quella amidista
sostenuta-da e indirizzata-verso una visione di latente monoteismo, quella di
Nichiren da una marcata enfasi etico-sociale.
L'evoluzione della pratica di preghiera ci mostra come, nella storia del
buddhismo giapponese, si sia passati dal misticismo razionalistico e scolastico
del Tendai del periodo di Heian al misticismo estatico dello Zen e al misticismo
magico del Nembutsu e del Daimoku (devozione al Loto) del
periodo di Kamakura.
La recitazione del Daimoku è stata, nel Novecento, riaffermata dai tre
principali movimenti neo-buddhisti del Giappone contemporaneo (Reiyu-kai,
Rissho Kosei-kai, Soka Gakkai). Al pari del latte, nutriente per
il bambino anche se questo non ne conosce il motivo, così la recitazione delle
formule viene ritenuta capace di produrre effetti anche su chi non ne conosca
tutti i significati (efficacia ex opere operato). La pratica della
recitazione del Daimoku, che i movimenti neo-buddhisti hanno, con
evidente successo, proposto anche all'Occidente come forma di
preghiera-meditazione[24],
non può non farci interrogare anche sul significato e sul valore di questo
metodo come risposta alla più generale esigenza di inculturazione del buddhismo
in Europa e in America.
3. Conclusione
Ci siamo soffermati, all'inizio di queste riflessioni, sulla
storia interna della preghiera e sul processo della sua progressiva
interiorizzazione. Schleiermacher (pensatore della tradizione che, in Occidente,
considera l'uomo e le cose impronta ed espressione dell'Infinito), nel suo già
citato Predigten[25], osserva come nella preghiera, quando sia
presente una dimensione di richiesta, si determini inevitabilmente un dualismo
tra la volontà nostra e la Volontà divina, una sorta di dimenticanza del fatto
che «nel progetto divino è previsto tutto e tutto vi possiede un'unità».
Pertanto,
colui che prega deve subito ricordare che tutto
ciò che accade ha in noi stessi il suo fine, indirizzato al nostro miglioramento
e all'accrescimento del bene in noi. Egli diviene nuovamente consapevole che
questo fine dell'Altissimo, che il suo impetuoso sentimento gli aveva
allontanato dagli occhi per un breve tempo, è tuttavia anche il suo proprio fine
[26].
La preghiera di Gesù diviene, per l'A., un modello per il
praticante. Dopo il «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!», nel
«Padre, sia fatta la Tua volontà» egli vede, infatti, esprimersi il bisogno del
suo cuore «di abbandonarsi a un indisturbato godimento della comunione con suo
Padre senza un desiderio determinato, senza una vera e propria richiesta a lui».
L'essenza della preghiera si precisa dunque come il
rapportare tutti i pensieri di una qualche
importanza che sorgono in noi al pensiero di Dio, nelle nostre considerazioni
circa il mondo ritenerlo sempre opera della sua sapienza, ponderare tutte le
nostre risoluzioni al cospetto di Dio, perché possiamo compierle nel suo nome,
ed essere, anche nel gioioso godimento della vita, memori del suo occhio che
tutto vede: tutto ciò è l'incessante pregare, cui siamo esortati[27],e
proprio qui risiede l'essenza della vera devozione.
Schleiermacher individua dunque la meta, ma il percorso di
"depurazione" della preghiera rimane complesso e non sempre lineare. L'esigenza
di trovare risposta ai bisogni di senso, devozione, orientamento tende a
esprimersi in forma di dialogo con un interlocutore divino, dialogo cui le
religioni forniscono lessico e sintassi. Gli uomini vivono nel tempo, con
diverse sensibilità, capacità, consapevolezza, e le religioni, con la preghiera
e il rito al loro centro, si declinano nella storia in un rapporto dialettico
con le culture in cui vivono, dacché «le culture danno alle religioni il loro
linguaggio e le religioni offrono il significato ultimo a ciascuna cultura»
[28]. Se qualcuno, come Victor Hugo, poteva
affermare (nel suo testamento): «Io credo, ecco tutto. La massa ha gli occhi
deboli. È affar suo. I dogmi e le pratiche sono occhiali che fanno vedere le
stelle a chi ha la vista corta. Io vedo Dio a occhio nudo», resta il fatto che
tra la sponda delle illusioni e della sofferenza, e quella del nirvana e della
pace, le religioni si offrono come indispensabili traghetti, e ciò può spiegarci
perché tale processo di dialogo (fatto di differenza e dualità, da un lato, ma
anche di esigenza di identificazione e unità, dall'altro) si ritrova presente
nel cuore dei più diversi orientamenti spirituali[29].
Abbiamo visto come nel Sutra del loto il Buddha riveli che i suoi
insegnamenti precedenti (cioè i vari "veicoli" delle scuole buddhiste e, per
estensione, i racconti e i miti in cui si esprimono le varie rivelazione
religiose, nonché le differenti elaborazioni delle metafisiche filosofiche)
siano da considerare porte provvisorie per giungere alla liberazione ossia
"mezzi abili" o didattici (upaya), adeguati alle differenti capacità di
comprensione dei destinatari, abilmente approntati per la guida dei
non-illuminati. Secondo la dottrina buddhista, la Realtà ultima è rappresentata
dalla inesprimibile Vacuità, ma come ci ricorda Nagarjuna, il grande filosofo
del II-III secolo,
L'insegnamento del Dharma da parte dei vari
Buddha è basato sulle due verità: cioè la verità relativa del mondo e la Verità
Ultima.
Coloro che non discernono la differenza tra queste due verità non discernono la
natura profonda dell'insegnamento del Buddha.
La Verità Assoluta non può essere espressa senza appoggiarsi sull'ordine pratico
delle cose.
Senza intendere la Verità Assoluta, il Nirvana non può essere raggiunto.
La realtà convenzionale (condizionata e contingente), benché
priva di esistenza inerente e di una natura sua propria, è dunque indispensabile
(se il Nirvana coincide col samsara) per vivere alla luce della vera Realtà e
del Mistero ultimo. Sul versante conoscitivo, ciò comporterà che i diversi
insegnamenti particolari, benché upaya, debbano non solo continuare a
essere usati, ma che i due livelli - di realtà e di verità - non siano separati
da nessuna forma di dualismo. Sul versante della pratica, di conseguenza, si
delinea un ventaglio di modalità, alcune delle quali potrebbero essere
inappropriate se vissute come un ritorno a forme di rapporto dualistico con
l'Assoluto, mentre potranno essere accolte come "mezzi abili", utili per il
superamento della "illusione" dell'io separato e per il contributo che avranno
portato alla progressiva e dinamica realizzazione della moksha,
l'autentica liberazione indicata dagli Illuminati di tutti i tempi.
Possiamo forse vedere sciolto, a questo punto, l'interrogativo sul significato
della presenza nel buddhismo di pratiche religiose assimilabili, nell'aspetto, a
forme "tradizionali" di preghiera (uso della parola in forma di lode,
invocazione, domanda di salvezza), ma profondamente diverse quanto a natura e
finalità.
Nel buddhismo, infatti, il sacro, inteso come il non-ordinario o il non-profano,
è visto come la grande forza della Vita inerente nel cosmo: essa non è separata
dal mondo (il sacro si esprime nel profano) ed è presente, come natura-di-Buddha
(o essenza) nella totaltà degli esseri e nella vita stessa del praticante. La
"preghiera" diviene allora il processo di trasformazione dei bisogni terreni in
bisogno di illuminazione: sintonizzando la nostra vita individuale col ritmo del
cosmo e il piccolo sé col grande Sé, si stabilisce una forma di "dialogo",
interno alla Realtà ultima[30]
(né personale né non-personale), dalla quale non diviene insensato attendere una
"risposta", sulla base dell'unità della mente umana e della Vita cosmica:
«Tremila mondi in un momento della mente, un momento della mente permea la
Realtà universale»[31].
Il Buddha e i Bodhisattva o il Gohonzon-mandala[32]
di Nichiren, ai quali vengono indirizzate le preghiere, non sono idoli o
immagini di divinità, ma una sorta di mezzi di riflessione speculare:
rappresentando lo stato di perfetta realizzazione essi agiscono come
catalizzatori del cambiamento interiore e dell'impegno a sviluppare e rivelare
le parte migliori di noi stessi
Nichiren, illustrando il significato del Daimoku, osservava che myo
è semplicemente la misteriosa natura della
nostra vita di momento in momento, che la mente non può comprendere e le parole
non possono esprimere. [...] La vita è veramente una realtà inafferrabile che
trascende sia le parole che i concetti dell'esistenza e della non-esistenza. Non
è né esistenza né non esistenza, e comunque ha le caratteristiche di ambedue. È
la mistica entità della Via di Mezzo che è la realtà di tutte le cose. Myo
è il nome dato alla misteriosa natura della vita. [...] Una volta compreso che
la tua vita stessa è la Legge mistica, comprenderai che lo è anche la vita di
tutti gli altri. [...] L'entità della nostra mente, dalla quale sorgono sia il
bene che il male, è in realtà l'entità della Legge mistica[34].
Dal punto di vista della psicologia comparata della
religione, possiamo affermare che il processo di interiorizzazione della
preghiera ha qui il suo compimento: superata la distanza tra l'io individuale e
la Realtà ultima, la coscienza - resa transpersonale - diviene luogo di
autoriflessione della mistica forza della Vita cosmica, punto in cui l'Essere si
svela, nel suo intimo, come «beatitudine fremente» (Zolla). L'Occidente ha
dovuto attendere molti secoli, dopo il Buddha, per poter dire, con Hegel, che:
«L'idea, eterna in sé e per sé, si attua, si produce e gode sé stessa
eternamente come Spirito assoluto»[35].
[1] W. James, The Varieties of Religious Experience (1902), New York,
Penguin Books, 1982, p. 464.
[2] Auguste Sabatier (1839-1901) fu uno dei principali teorici del
protestantesimo liberale francese. Tra le sue opere: Esquisse d'une
philosophie de la religion; Les religions d'authorité et la religion de
l'Esprit.
[3] W. James, op. cit., p. 464-66.
[4] A. Di Nola, La preghiera dell'uomo, Roma, Newton Compton, 1989,
p. 7.
[5] L'espressione «Prego!» (ted. Bitte!) sintetizzerebbe: «Vi prego
di concedermi l'onore del vostro comando!».
[6] Come è stato detto:«Ciò di cui non possiamo parlare e ciò di cui non
possiamo non parlare».
[7] G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, tr. it., Torino,
Boringhieri, 1975, p. 334.
[8] Forse perché lo stesso Allah è un "penultimo", che rimanda a un ultimo
senza nome (o dal nome segreto); ovvero perché non c'è altra realtà che non sia
il nome, inteso come logos che si autoprega. D'altra parte, si dice che
Allah possieda 3000 nomi, di cui:
1000 sono noti solo agli angeli,
1000 solo ai profeti,
300 si trovano nella Torah,
300 nei Salmi,
300 nel Nuovo Testamento,
99 nel Corano,
1 è noto soltanto ad Allah.
[9] A questo proposito, van der Leeuw riporta quanto segue: «Ecco che cosa
ho udito dall'inviato di Dio: la prima cosa che Dio creò fu la penna. Le disse:
- Scrivi. Domandò: - Signore, cosa scriverò? Rispose: - Scrivi il destino di
tutte le cose, sino alla venuta dell'Ora (A. J. Wensinck, The Muslim Creed,
cit. in G. van der Leeuw, op. cit., p. 613).
[10] Numerosi gli esempi, presenti nelle diverse tradizioni, che
testimoniano il rispetto per le scritture. Nell'ebraismo, i rotoli della Torah e
gli oggetti di culto inutilizzabili vengono conservati in particolari "depositi"
(genizah), talvolta siti nei sepolcri di grandi maestri. Nel buddhismo,
le custodie dei rotoli dei sutra sono spesso rappresentate da oggetti di
preziosa fattura e decorazione, realizzati in forma di scatole, cilindri,
stupa, etc.
[11] D. T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen, tr. it., I, Roma, Ed.
Mediterranee, 1975, p. 177 s.
[12] Ci sia consentito rimandare a R. Venturini, Coscienza e cambiamento,
Assisi, Cittadella Editrice, 1998 (specie cap. 5, Una nuova cultura della
mente, e bibliografia).
[13] Amithaba, giapp. Amida, è il Buddha della Luce infinita,
signore del "paradiso occidentale". È al centro della venerazione nella
tradizione amidista o della Terra pura (giapp. Jodo-shu e
Jodo-shin-shu).
[14] Juzu o Nenju (giapp.), mala (tib.), japamala
(skr.), parola composta da japa = ripetizione + mala = grani per
la preghiera; poiché jap (forse per errore fonetico messo al posto di
japa) ha il significato di rosa, ne sarebbe derivato "rosario" (corona
circolare di grani ovvero insieme circolare a forma di corona). La forma oggi
più diffusa in Giappone (nei gruppi che si riferiscono all'insegnamento di
Nichiren ove è connesa alla recitazione del Daimoku o titolo del Sutra
del Loto, v. oltre), presenta non solo i 108 grani tradizionali ma anche 2
grani più grandi (corrispondenti ai Buddha Sakyamuni e Taho; attaccato al
"grano-padre" ve n'è uno di dimensioni più piccole, che vuole ricordare la
natura o essenza del Dharma, la Verità ultima) e 5 pendagli: 3 a dx, 2 a sn.
Nella preghiera, il rosario viene incrociato, a formare un 8; le mani vengono
infilate nei due anelli risultanti e poi congiunte; i grani vengono così a poter
essere strofinati tra loro, in segno di omaggio al Buddha e agli antenati (il
caratteristico rumore così prodotto diviene una preghiera non-verbale), segno di
connessione del mondo saha (questo mondo) col mondo di Buddha. I pendagli
ricordano i 3000 mondi in un momento dell'esistenza (ichinen sanzen) e
gli speciali "grani-giara" sono simbolo dei depositi dei meriti; nell'insieme,
il rosario, con le sue appendici, viene a disegnare una immagine della figura
umana, simbolo dell'incarnazione del Dharma.
[15] Vedi M. I. Macioti (a cura di), Sutra del Loto: un invito alla
lettura, Milano, Guerini, 2001; G. Reeves (a cura di), A Buddhist
Kaleidoscope - Essays on the Lotus Sutra, Tokyo, Kosei, Publishing Co.,
2002. Numerose le traduzioni del Sutra del Loto in lingue occidentali:
per quelle in lingua inglese, v. elenco in G. Reeves, op. cit.; in
francese: a cura di J. N. Robert, Le Sûtra du Lotus, Fayard, Parigi,1977;
in italiano: a cura della Soka Gakkai, Il Sutra del Loto (tr. it. della
tr. in. di B. Watson), Milano, Esperia, 1997; a cura di L. Meazza, Sutra del
Loto (tr. dal sanscrito), Milano, BUR, 2001; è in corso una trad. dal cinese
a cura di S. Vita.
[16] L. A. Waddell, The "Dharani" Cult in Buddhism, Its Origin, Deified
Literature and Images, s. i. ed.
[17] La Scuola Tendai era denominata Hokke-shu (Scuola del Loto,
Hokke significando Fiore della Legge, abbreviazione di Fiore di Loto della
mistica Legge) ed è considerata la "casa madre" del buddhismo giapponese.
[18] Possiamo notare l'analogia, tra Sutra del Loto e Vangelo di
Giovanni, relativa alla (apparente) incongruenza temporale tra la durata di
vita del Buddha storico e quella del Buddha eterno, da un lato, e, dall'altro,
tra l'età di Gesù e l'eternità del Cristo («Così, da quando ho conseguito la
buddhità a oggi, è trascorso un tempo estremamente lungo. La mia vita dura da un
incalcolabile numero di asamkhya di kalpa e durante tutto questo periodo io sono
sempre vissuto qui e la mia vita non si è mai estinta», Sutra del Loto,
cap. XVI; «- Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio
giorno; lo vide e se ne rallegrò. Gli dissero allora i Giudei: - Non hai ancora
cinquant'anni e hai visto Abramo? Rispose loro Gesù: - In verità, in verità vi
dico: prima che Abramo fosse, Io Sono», Gio 8, 56-58).
[19] Dogen Zenji, Shobogenzo, tr. in., IV, Tokyo, Nakayama Shobo,
1983, p. 40. E F. Taiten Guareschi: «Lo Shobogenzo sembra un commento al
Sutra del Loto (in Zen Notiziario, 1998, V, n°2, p.4).
[20] La tradizione buddhista rende legittima questa domanda dacché ci
ricorda che l'inizio simbolico dello Zen viene individuato nel momento in cui il
Buddha Sakyamuni mostra un fiore, rimanendo in silenzio di fronte all'assemblea,
o che il Buddha della Terra profumata, di cui parla il Vimalakirti Nirdesa
Sutra, insegnava soltanto mediante profumi.
[21] Il Sutra del Loto propone un veicolo unico (giapp. Ekayana)
o Buddhayana, unificazione dei veicoli Theravada e del mahayana pre-Loto.
[22] G. Jenner, Daimoku, in Hobogirin, vol. 7,
Maisonneuve-Maison Franco-Japonaise, Parigi-Tokyo, 1994, s.v.
[23] K. Kasahara (Ed.), A History of Japanese Religion, Tokyo, Kosei
Publishing Co., 2001, p. 97 s.
[24] È noto che la protratta ripetizione, vocale o mentale, di parole o
mantra ha il potere di produrre una alterazione dello stato di coscienza,
per cui viene a labilizzarsi il già sfumato confine tra preghiera e meditazione.
[25] F. D. E. Schleiermacher, La forza della preghiera, tr. it. in G.
Bevilacqua (a cura di), I romantici tedeschi, IV, Milano, Rizzoli, 1996,
pp. 837-53.
[26] Anche nella preghiera "altruistica", finalizzata a ottenere il bene
dell'altro, permane il desiderio di correggere quanto la Provvidenza ha già
disposto.
[27] Ricordiamo il paolino "sine intermissione orate" e la "pratica
incessante" di Dogen.
[28] UNESCO, Declaration on the Role of Religion in the Promotion of a
Culture of Peace, Barcellona, 1994.
[29] S. Agostino, che tanto si è soffermato sulla inesauribile ricerca
dell'Assoluto, ne afferma anche, con appassionate parole, il senso della
immediata presenza: «Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo»
[Tu infatti eri l'intimità della mia intimità e il vertice di ogni mia
altitudine], Confessioni, III, VI, 11.
[30] Per tentare un'altra analogia, potremmo ricordare che anche il Dio
trinitario è un Dio dialogico al suo stesso interno.
[31] Secondo la formula che sintetizza l'insegnamento fondamentale della
Scuola T'ien-t'ai/Tendai.
[32] "Oggetto di devozione", rappresentato da uno scritto autografo di
Nichiren.
[33] Cfr. Prayer in Buddhism, "SGI Quarterly", January 2000 e The
Gohonzon-Observing the Mind, "SGI Quarterly", April 2003.
[34] Gli scritti di Nichiren Daishonen, tr. it., IV, Milano,
Associazione ital. Nichiren Shoshu, 1991, p. 5 s.
[35] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it.,
Bari, Laterza, 1967, p. 528.
Tab. 1 - Operazioni della condotta
operazioni autoplastiche
operazioni alloplastiche
concrete
fisiologiche
azioni materiali (muovere cose)
simboliche
attività mentale, conscia e inconscia
comunicazione, linguaggio
Tab. 2 - Tipologia della preghiera: tipi e classi
Dichiarativa
Voto, intendimento, proposito, dichiarazione
Auspicio, profezia
Lamentazione
Gratuita (esprime dipendenza,
sottomissione, accompagna offerte e sacrifici) [come forma di
captatio benevolentiæ potrebbe rientrare nella categoria precedente]
Lode
Glorificazione
Ringraziamento
Offertoria
Sacrificale
Propiziatoria della divinità
Invocazione (rivolta a poteri superiori)
Esclamazione (serve ad allontanare e spaventare gli
spiriti del male)
Utilitaristico-eudemonistica
(richiesta di beni materiali o spirituali per sé o altri)
Impetratoria (supplica, richiesta)
Patto
Intercessoria o di intercessione (per morti, neonati,
persone lontane…)
Confessione
Affermazione di fede
Riconoscimento di essere un peccatore
Espressione di pentimento e richiesta di perdono
(Miserere, Salmo 51)
Mistica
Ripetizione di mantra (Om), formule, nomi (di Amida,
di Gesù) (a differenza dalle formule magiche, conservano il
carattere di preghiera in quanto la salvezza o altri possibili
effetti dipendono sempre dal rapporto-colla e dalla risposta-della
Potenza a cui ci si riferisce, e dànno accesso a una condizione
superiore o di salvezza)
Preghiera di silenzio/quiete/unione (per realizzare
l’unione con l’Assoluto nel silenzio delle facoltà psichiche o
“potenze dell’anima”)
Vuoto mentale, non -pensiero
Abbandono confidenziale
di Fondazione
Pronunciata da una figura divina
(benedizione di Abramo, benedizione di Giacobbe, Pater noster) può
poi divenire ritualizzata
Insulti, minacce
Le divinità vengono insultate per
non essersi comportate “bene” e minacciate del ritiro del culto (col
che cesserebbero di esistere)
Tab. 3 - Tipologia della preghiera: condizioni e modalità
Numero degli oranti
Individuale, collettiva
Status dell’orante
Preghiera sacerdotale, monastica,
dei pontefici…
Libera
Profonda (quando parte da grandi esperienze
religiose)
o
banale (quando scade nel parlare a vuoto, nella
glossolalia, etc.)
Istituzionalizzata, rituale o
liturgica
Inno (se destinata a essere cantata)
Salmo (se accomapgnata da danze)
Recitazione di rosario, litanie, giaculatorie
Letture di testi “sacri” o ispirati
Tempi e luoghi
Canoniche
Preghiere in tempi particolari (nelle diverse ore del
giorno; per accompagnare diverse funzioni corporee e operazioni
della condotta; per la semina, il raccolto, i sacrifici, etc.)
e
in luoghi particolari (templi, tombe di santi, spazi
e territori sacralizzati)
ovvero
in ogni tempo e ovunque
Occasionali (legate a situazioni di crisi)
o
periodiche (momenti di passaggio)
Modificazioni della voce
Lamento, balbettìo, mormorazione,
grido
Suoni
Battito di mani e/o piedi; canti;
impiego di strumenti
Posture, gesti, atteggiamenti
Prosternazione, inclinazione,
genuflessione, rotazione e circumambulazione [come per rinchiudere
il sacro], dondolìo, danza, saltellamento, tripudio, elevazione
delle mani, toccamento dell’oggetto sacro; battersi il petto,
congiungere le mani, incrociare le braccia, toccare la terra,
denudarsi i piedi o tutto il corpo, scoprirsi o coprirsi la testa
Uso di particolari oggetti
Rosario, ombelico (onfaloscopia esicastica)
tab 4. Esempi dei 108 caratteri/insegnamenti del Buddha e contaminazioni
umaneù
Retta fede
Mente non determinata
Mente pura
Mente contaminata
Mente gioiosa
Mente inquieta/turbata
Motivazione alla verità
Contaminazioni
Retta azione
Azione risultato di scorretti: atti fisici, parole,
pensieri