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Conferenza sugli Siva sutra
(Raffaele Torella)
Università Cà Foscari, 22 aprile 2013
Prof. RIGOPOULOS
Buon giorno e ben trovati. Abbiamo l’onore di avere qui oggi il prof. Raffaele
Torella, ordinario di Religioni e Filosofie dell’India, Indologia, Lingua e
Letteratura Sanscrita presso l’università La Sapienza di Roma, ed è un onore e
un privilegio soprattutto in occasione della presentazione di un libro così
importante appena edito da Adelphi che ha per titolo “Gli aforismi di Śiva” -
gli Śivasūtra con
la Śivasūtravimarśinī il
commento di Kṣemarāja. È un’occasione rara di poter colloquiare con uno dei
massimi esperti di śivaismo kaśmīro e non solo, di poterlo interrogare e poter
conversare con lui su questo testo così importante che fonda il non-dualismo
śivaita ed è un testo che è alla base del tantrismo śaiva e non soltanto, quindi
è un grande piacere averlo qui per noi tutti riuscire ad essere insieme, aver
pensato all’incontro di oggi come una conversazione a tre con Federico Squarcini
e me, sostanzialmente cercando di colloquiare distesamente offrendo degli spunti
al prof. Torella per introdurci alla complessità, alla densità degli Śivasūtra di
Vasugupta e alla sua tradizione commentaria. Io partirei proprio da una
constatazione: chiunque abbia preso in mano questo testo avvicinandosi agli Śivasūtra di
Vasugupta rimane forse sconcertato dalla laconicità, dalla densità di questi
sūtra che letti uno dopo l’altro appaiono davvero anche a un indologo avvertito
sostanzialmente incomprensibili senza la guida di un commento che ti prenda per
mano e ti permetta di entrare nella selva oscura di questo testo. Quindi vorrei
proprio iniziare chiedendo al prof. Torella di dirci qualche cosa rispetto a
questa estrema laconicità e aforicità di questo testo e sul genere dei sūtra in
generale e di Vasugupta in particolare.
Prof. TORELLA
Io vorrei invece iniziare ringraziando per la splendida e affettuosa ospitalità
dei due amici qui presenti e in generale grazie sentitamente. La domanda che mi
fa il prof. Rigopoulos è in effetti centrale. Se uno si legge gliŚivasūtra,
e io li ho fatti mettere da soli anche se in India non esiste una tradizione
degli Śivasūtra da
soli, un poco come quello che succede con gli Yogasūtra,
e quando nei rari manoscritti in cui voi trovate gli Śivasūtra da
soli sono stati estrapolati dal complesso Śivasūtra commenti,
uno se li legge dopo averli letti… non ha capito assolutamente niente. Allora la
prima domanda che uno si fa è: quando si3 scrive un’opera la si compone perché
si vuole diffondere del sapere altrimenti uno si risparmiava la fatica, scrivere
un testo incomprensibile tanto vale non scriverlo. Per quale motivo l’India ha
questo compiacimento nello scrivere opere incomprensibili che per diventare
comprensibili hanno bisogno di un supporto, ovvero crea opere già zoppicanti che
hanno bisogno di una stampella. Quindi quando uno scrive un testo sūtra scrive
un testo già ipotizzando preveggendo davanti qualcuno poi gli metterà tutti
questi supporti. È la domanda che mi sono posto in un altro mio libro “Il
pensiero dell’India”,
nell’introduzione ho dedicato per la prima volta in una rassegna del pensiero
indiano un capitolo dedicato alla forma dei testi, ovvero perché i testi indiani
sono fatti così. Io mi sono molto stancato nella mia attività di studioso di una
dimensione descrittiva; mi rendo conto che descrivere le cose in maniera
attendibile è molto importante, ma dopo aver descritto le cose ti rimane in
bocca una gran voglia di andare avanti. Per quale motivo le cose in India sono
così? dopo averle descritte perché sono così? Uno si rende conto che tutta la
cultura indiana e ovviamente tutte le culture mondiali, nello svolgersi hanno in
mente determinati obbiettivi che sono diciamo di carattere culturale sociale
ecc. anche supponiamo di descrivere il Vedānta, che parte da un insieme di
dottrine di credenze, per quale motivo il Vedānta crede a una cosa piuttosto che
a un’altra, perché le mette insieme in quel modo, allora si comincia a delineare
una strategia che in India è sempre molto ricca di a chi si rivolge il testo, a
chi si rivolge una dottrina, per quale motivo dice questa cosa invece di dire
quest’altra, chi sta cercando di chiamare a sé, da chi sta cercando di
distanziarsi, per quale motivo; in questo rientra anche la questione della forma
dei testi, quindi noi abbiamo in India molto diffusa questa tendenza a
costituire una sūtra
tradition,
che di per sé non si regge in piedi, è piena di buchi, immaginatela come un
formaggio fatto in gran parte di buchi, questi buchi sono dei buchi deliberati,
i quali permetteranno al testo di vivere nei secoli. Quindi l’India sa benissimo
che più un testo è preciso meno è longevo, più un testo è preciso più è legato
al suo presente, più un testo diventa indeterminato più è in grado di sfidare i
secoli, evocando chi di secolo in secolo lo riattualizzerà. Scrivere un testo
sūtra vuol dire dare ad una certa tradizione culturale un fondamento
difficilmente scalzabile che possa essere difficilmente reso inattuale e funga
da baricentro ad una tradizione destinata a durare anche mille o duemila anni.
Questa tradizione rimarrà sempre uguale? In questo errore di prospettiva sono
caduti tutti i cosiddetti tradizionalisti alla Guénon alla Eliade ecc., i quali
hanno preso alla lettera questo modo dell’India di porre se stessa come se
l’India fosse una terra di verità atemporali, quindi esistono verità atemporali
noi abbiamo detto una volta per tutte quello che si può fare dopo è
semplicemente vagamente commentare e ripetere, ma ormai tutto è stato fatto.
Ovviamente l’India, una delle più grandi civiltà dell’umanità, non è così
ingenua. Gli indiani sanno benissimo di essere esseri storici e che l’uomo non
può che essere un essere storico, è la sua condanna e la sua felicità quello di
essere un essere storico quindi l’India nel cercare di dare l’impressione di
avere tutta la verità alle spalle sta semplicemente giocando il gioco di chi
vuole cercare di neutralizzare esorcizzare diciamo l’angoscia del presente,
facendo finta che tutto è già stato detto e che quindi restino soltanto dei
dettagli da definire. In questa strategia è abbastanza primario il sūtra, quindi
tu fai un testo sūtra, questo testo sūtra rimane la base atemporale inscalfibile
di una disciplina, la disciplina continua storicamente non dico ad evolversi,
lasciamo stare il fatto di migliorare o peggiorare, continua a cambiare perché
gli esseri umani cambiano, il cambiamento è quindi il vero e proprio sviluppo di
una disciplina, in questo caso del non-dualismo kaśmīro, viene affidato a chi lo
comunicherà nel futuro, quindi il commento ha questo compito primario di versare
sempre nuovi contenuti all’interno di una griglia che però non viene mai messa
in discussione, e questo è un modo che trovo anche molto attendibile anche molto
ingegnoso, che però non va preso alla lettera. Ora, il termine sūtra è stato
come potete immaginare dagli indiani stessi lungamente indagato e come fanno gli
indiani spesso per indagare una parola un concetto ecc. la prima cosa che mi
viene in mente è l’etimologia, la scienza dell’etimologia o forse è meglio la
scienza dell’analisi semantica che in India dal VI secolo a. C. non si fa altro
che etimologizzare tutte le parole chiave. Quando andiamo a vedere le etimologie
correnti di sūtra, già capiamo molto su quello che l’India si aspetta dai sūtra,
quella più corrente è dalla radicesūc che
vuol dire “indicare”. Quindi il sūtra non sta a dichiarare delle cose ad
asserire delle cose in maniera così chiara completa ecc., ma sta soltanto a
indicare oscuramente qualcosa, alludere a qualcosa sarà poi il commentatore che
deve svolgere dipanare questi fili. Un’altra etimologia molto meno nota, che è
diffusa in ambiente jaina, è ancora forse più significativa di questa. Il sūtra
viene messo in relazione con la parola sup la
radice sup che
vuol dire “dormire”. Ora, ovviamente, non c’è nessuna relazione etimologica dal
punto di vista scientifico tra sūtra e sup,
l’etimologia cosiddetta scientifica di sūtra che gli indiani lo sanno benissimo
essendo i più grandi linguisti dell’umanità non possiamo stare noi a dare
lezioni di linguistica o di scienza grammaticale agli indiani, lo sanno
benissimo, ma a loro interessano anche altre cose. L’etimologia reale, diciamo
così, è quella che vuol dire “tessere”, il sūtra è un tessuto è il filo di un
testo e il testo del resto è una grande metafora europea che vuol dire
tessitura, un ragno che tesse la sua tela, un tessitore che tesse usando dei
fili. Secondo questa etimologia il sūtra si chiama sūtra perché è un testo che
dorme, è un testo dormiente suptà è
un testo dormiente in attesa che un commento lo svegli, quindi è una specie di
testo virtuale il quale vive una sua vita virtuale al di fuori della realtà.
Immaginate una bella addormentata nel bosco che aspetta il suo cavaliere che di
secolo in secolo… ci sono testi che vengono commentati nell’arco di duemila anni
e ogni volta si tira fuori dal testo qualcosa di nuovo. Quindi il sūtra sta lì
in attesa che qualcuno lo riempia di contenuti in maniera ovviamente non
arbitraria ma mantenendo un filo che lo lega a una scuola a una dimensione
tradizionale. Il sūtra non viene mai commentato in termini arbitrari da un
passante, ma viene commentato da qualcuno autorizzato da una appartenenza ad una
certa linea spirituale, magari avversaria ma certamente con delle credenziali.
Ecco, per concludere questa domanda molto significativa che mi ha fatto l’amico
Rigopoulos, sempre nell’ambito jaina ad un certo punto si parla in scritture
jaina medioevali immaginando una catastrofe cosmica che si sta avvicinando. I
poveri monaci jaina dicono che facciamo? sta arrivando questa inondazione, una
specie di fine del mondo, andiamo nella nostra biblioteca i testi sono tanti,
dobbiamo scegliere: salviamo i sūtra originari, ovvero gli āgamadella
tradizione jaina, o salviamo i commenti? Dopo un breve conciliabolo i monaci
salvano i commenti e mandano a mare i testi originali, questo per capire
l’atteggiamento della cultura indiana.
Prof. SQUARCINI
(sintesi) L’opera è composta in tre parti, da poco meno di cento sūtra, è
commentata da Kṣemarāja e da Bhāskara, come ti appare la relazione tra le tre
parti che formano il testo e le diverse interpretazioni dei due commentatori?
Prof. TORELLA
Anche questa è una domanda importante. Leggere gli Śivasūtra da
soli è un’esperienza molto interessante, perché anche non capire niente è
un’esperienza molto…, succede spesso, sono testi molto spiazzanti anche molto
belli esteticamente, anche se non capite che cosa vuol dire, come succede a
volte nei Veda, ci sono dei passi di una bellezza folgorante dove però non
capite che cosa voglia dire, si capisce però che non è un insieme di sūtra presi
a casaccio, di sicuro è un certo numero di sūtra quindi brevi formulazioni
presenti all’interno di circoli śākta.
Sappiamo grossomodo che cosa vuol dire śākta:
è una religione che vede al suo culmine il divino nella sua forma di energia
piuttosto che nella sua forma di distacco o nella sua forma di assenza di
attività, come tende a fare il Vedānta, quindi al culmine del reale noi vediamo
un qualcosa che quando viene denotato viene sempre denotato attraverso dei nomi
dinamici, nomi che vogliono dire movimento che vogliono dire vibrazione onda
ecc. Questo è già piuttosto inusuale perché si dice normalmente che il pensiero
indiano rifugga dal movimento, e quindi consideri il movimento una specie di
mostro da esorcizzare e tutto ciò che è significativo e ontologicamente elevato
la prima cosa che fa si sbarazza dell’azione e del movimento. Questo è vero solo
in parte ovvero è vero soltanto se noi cancelliamo l’intera tradizione tantrica,
la tradizione tantrica che poi finisce per diventare la tradizione dominante
dell’India anche quando l’India non se ne rende conto, l’India attuale è
profondamente tantrica molto più di quanto non pensi di esserlo, nel tantrismo
invece è tutto il contrario, quindi il fatto che Dio sia dotato di attività non
è una cosa che ci deve fare schifo, al contrario il fatto che Dio sia dotato di
attività è l’essenza stessa della soggettività. Ora, la formulazione ricordata
da Federico è molto ambigua perché intanto, come dicono i commentatori uno si
aspetterebbe“Il sé è cosciente” [caitanyam
ātmā],
ma non il sé è coscienzialità, caitanyam è
un astratto. Quando tu vuoi definire un’entità la definisci come? La definisci
con un aggettivo non la definisci con un astratto derivante da un aggettivo.
Dietro questa scelta ci sono delle motivazioni che ci portano rapidamente
all’interno di uno dei mondi più delicati del pensiero indiano, ovvero
l’interazione che c’è tra pensiero linguistico e pensiero insomma anche
filosofico e religioso, quindi nell’usare un astratto c’è dietro una
consapevolezza di filosofia della grammatica molto precisa su cui adesso non
starò a diffondermi. Ugualmente problematica è la parola ātman.
Ora, la parola ātman per
noi è una parola scontata nel pensiero indiano, tutti quanti parlano ātman,
Brahman ecc.
ecc. Quelli che storcono il naso davanti alla parola ātman sono
proprio gli śivaiti; per quale motivo agli śivaiti non piace tanto questa parola ātman?
potremmo dire per converso per gli stessi motivi per cui al mondo brahmanico
vedāntico ecc. non piace tanto la parola “io”. La parola io aham,
io sembra troppo terra terra, sembra troppo legato all’umano, troppo umano che
va necessariamente trasceso, ma trasceso non attraverso una gradualità ma
superando un abisso, quindi noi diciamo “io” nel momento in cui siamo immersi in
una specie di sogno, questo sogno non ci porta gradualmente verso il risveglio,
ma bruscamente verso il risveglio. Una volta che noi usciamo dal sonno dell’io
ci svegliamo alla consapevolezza dell’ātman ci
accorgiamo che tutto quello che era io e così via era tutta una serie di piccole
miserie e dimentichiamo, buttiamo tutto a mare, quindi buttiamo a mare tutta
quella che era la nostra vita individuale passionale emozionale corporea ecc. e
finalmente adesso siamo all’interno di questa bella casetta dell’ātman ci
sentiamo molto bene ci sentiamo molto fieri di essere degli esseri ātman guardiamo
tutto dall’alto, ma guardiamo dall’alto dopo aver cancellato tutto quello che ci
serve. L’insegnamento del tantrismo è ben diverso, supponendo che ci sia un alto
contrapposto al basso, e questo è tutto da verificare, perché in realtà così non
si crede, il momento in cui tu arrivi al cosiddetto alto non sei autorizzato a
buttare a mare tutto il cosiddetto basso altrimenti non hai capito niente, tu
hai raggiunto l’alto il momento in cui non esiste più né un alto né un basso, in
cui tu dall’alto di questa tua realizzazione vedi il tuo presente di essere
individuale emozionale corporeo ecc. non cancellato ma semplicemente illuminato
dal di dentro da una nuova consapevolezza, quindi questo è l’insegnamento del
tantrismo. Perché non piace tanto la parola ātman?
non piace tanto perché dentro la parola ātman c’è
un sospetto che sento anch’io da tantrico in qualche modo , da tantrico
acquisito, di reificazione, come se ci fosse una realtà già bella che costituita
nella quale tu entri dentro e ti accomodi in questa realtà che già ha i suoi
parametri e tu devi semplicemente versarti all’interno di questa realtà
precostituita. Gli śivaiti amano molto di più un’altra parola, che è proprio la
parola “io” aham che
linguisticamente tutti sapete corrisponde all’εγω greco all’ego latino,
parola che invece è molto bistrattata all’interno del pensiero indiano
soprattutto quello brahmanico. Nell’āśram di
Rāmaṇa Mahāṛṣi tuttora credo se a uno gli capita di dire per sbaglio la parola
io mentre sta lì viene preso a mazzate viene preso a bastonate proprio
fisicamente a bastonate. Quindi questo rifuggire da questa che è la realtà
individuale ecc. è una delle caratteristiche che accomunano l’intero mondo
brahmanico. Per quale motivo invece lo śivaismo non ha paura dell’ātman anche
se non lo preferisce? intanto mette in evidenza il fatto che la parola ātman bene
o male è maschile è una parola maschile, aham non
ha genere non è né maschile né femminile né neutro, il momento in cui io nella
mia realtà individuale adesso per esempio uso la parola io è come se lanciassi
le mie radici verso un qualcosa che sotterraneamente mi congiunge a tutti gli
altri io i quali formano insieme l’Io di Śiva, quindi anche se in una dimensione
limitata il mio dire io è un atto di affiliazione energetica verso un qualcosa
di imprevedibile legato all’energia legato alla creatività individuale che alla
lontana mi mette in relazione con quello che è l’io nella sfera della
realizzazione più alta e tra questo Io cosiddetto assoluto che è l’Io di Śiva e
l’io provvisorio limitato quanto vogliamo che è il nostro io attuale non c’è
quell’abisso che c’è tra ahaṁkāra e ātman ma
c’è semplicemente una differenza di grado per cui partendo dal nostro io
individuale noi possiamo percorrere questo percorso che ci porta… è un percorso
aperto, immaginate è una circonferenza da ogni punto della quale si può spiccare
il volo verso il centro. Ecco questo è il mondo armonico e integrato del
tantrismo che si contrappone a questo mondo segmentato dei buddhisti prima di
tutto e a questo mondo fatto di due facce che non comunicano che è il mondo in
generale del Vedānta. Quindi la prima affermazione va presa molto… perché non ha
detto “io” è coscienzialità? ancora probabilmente l’io non è apparso chiaramente
all’orizzonte delle scuole śākta,
quindi queste scuole śākta non
hanno ancora una filosofia, hanno dei testi sapienziali sicuramente precedenti
allo Yogasūtra [secondo
me qui allude invece agli Śivasūtra]
non hanno ancora una filosofia, ancora aspettano qualcuno che dia loro una
filosofia. Questo qualcuno arriverà nel giro di un secolo e sarà Somānanda con
laŚivadṛṣṭi ne
parlavamo ieri sera, e questi Śivasūtra sono
un insieme eterogeneo per cui immaginiamo un adepto frequenta questi circoli che
hanno spesso una tendenza anche trasgressiva per cui quello che si facesse in
questi circoli più o meno lo sappiamo, alcune sono cose abbastanza inquietanti,
però insomma ci siamo ormai allontanati da quello che era lo zoccolo duro del
tantrismo duramente trasgressivo il tantrismo del sesso del sangue della morte
dell’alcol ecc. siamo già al tantrismo più spiritualizzato perlomeno
interiorizzato. C’è un percorso indipendentemente dal modo in cui i due
pensatori, questi due grandi autori, lo hanno organizzato? apparentemente sì,
intanto pur appartenendo a due scuole diverse l’ordine è sostanzialmente lo
stesso, sono abbastanza pochi quindi non si tratta di una specie di paniere di
aforismi dai quali ognuno dei due ha scelto, è qualcosa di più, esisteva già una
sorta di strutturazione, ci sono dei sūtra che ricorrono quasi uguali all’inizio
e alla fine, questo quasi uguali ci fa capire che sono diversi modi di vedere un
certo tema e ci fa supporre anche il tono generale di queste tre sezioni, che
l’ultima sia più legata a un’esperienza che l’India conosce più da vicino ed è
un’esperienza psicofisica in cui la realizzazione di tipo yogico si muove su
linee possiamo dire a noi più note più tradizionali in cui si agisce in maniera
costante, ripetitiva su qualcosa per ottenere dei risultati, il vero
insegnamento profondo di queste scuole è basato sul rigetto della gradualità e
sul rigetto della durata. Tutto ciò che è significativo avviene nell’istante,
avviene nell’istante, un istante trasformativo. Questo modo di vedere l’iter
spirituale ovviamente è appannaggio certamente di una schiera di eletti, quindi
non tutti sono in grado di affrontare un iter che procede soltanto per salti
violenti. Diciamo la gran parte degli adepti ha bisogno di restare in una
situazione di credibilità di insegnabilità di avere dei punti di riferimento
precisi, si capisce man mano che si va avanti che questi punti di riferimento
precisi aumentano. I primi sūtra sono dei sūtra molto inaspettati, pensate che
all’inizio dopo aver detto caitanyam
ātmā,
questa affermazione abbastanza così oscura se ne dice una ancora più oscura
“Bhairava è slancio”, che cosa vuol dire, quando mai nel pensiero indiano è
venuto in mente che l’Assoluto è slancio, che significa slancio? slancio è una
parola molto pesante in queste scuoleudyamaḥ in
cui yam ha
il senso di una tensione yam ha
poi tanti significati, ud è
una tensione che ti porta verso l’alto ud/yam quindi
dire l’assoluto Bhairava, che è la forma terrifica di Śiva, terrifica non in
quanto vuole spaventare a tutti i costi ma perché il suo essere terrifico
rappresenta la cifra dello stravolgimento di tutte le barriere che ti metti
davanti, quindi tu tendi a farti una vita fatta di piccoli steccati di
etichette, questo è bello questo è brutto, questo è buono questo è cattivo,
arriva Bhairava nella sua forma terribile e ti travolge tutti questi steccati
che ti sei fatto intorno, non lo fa per farti un dispetto ma al contrario lo fa
per farti un piacere, per farti mettere al centro della realtà e non farti
restare una specie di osservatore e di qualcuno che prende atto di come sono
fatte le cose, sei tu che fai le cose, sei tu che dai a una cosa l’etichetta di
puro e di impuro, quindi non c’è niente in sé che sia puro o impuro. Questo
Bhairava che nella sua forma iconografica è spaventoso, ha tutti teschi, questo
Bhairava viene definito con una parola, questa parola “slancio” e così si va
avanti. Appena dopo troviamo un’altra formulazione estremamente ampia e ancora
forse più inaspettata perché qui siamo partiti da una prima affermazione:
l’Assoluto non è assenza di movimento, il contrario l’Assoluto è un movimento
sottile che non cessa mai, quindi anche nella dimensione, questo lo dirà
Somānanda, anche quando Śiva appare nella sua forma quiescente ovvero lo Śiva
trascendente inarrivabile... se voi avete presente l’iconografia di Elephanta,
che poi ho scoperto è un’iconografia molto più diffusa di quanto non pensassi,
tutti l’avete vista immagino, una delle cose più belle che ci sono in India: la
Maheśamūrti di Elephanta (Prof. Rigopoulos: è quella che appare sul testo…)
quella l’ho fotografata io al ***** perché consideravo molto enigmatica questa
icona davanti alla quale gli stessi portoghesi che erano degli iconoclasti non
hanno avuto il coraggio di rovinarla, quindi quando sono arrivati nelle grotte
di Elephanta loro che hanno sfigurato immagini in tutta l’India lì sono rimasti
abbacinati davanti a questa forma. È una forma molto grande con una figura
divina con gli occhi chiusi che è secondo me l’icona più alta della spiritualità
chiusa in se stessa, quindi un dio assolutamente trascendente sereno tranquillo,
ma lontanissimo nello stesso tempo, a fianco emergono dalla sua stessa figura
due altre dimensioni una femminile sorridente amorevole e un’altra corrusca
maschile bellicosa e quindi queste tre facce del dio sono le tre facce della
Maheśamūrti che poi ritrovate in tante sculture del nord dell’India del VII o
VIII secolo che poi è lo stesso periodo della Maheśamūrti. Quindi qui si parla
della dimensione energetica lo slancio del dio ecc. Il passo successivo è un
verso un sūtra altrettanto misterioso però su tutt’altro registro, che comincia
subito a mettere le carte in tavola come se stesse mappando un territorio: “Al
conoscere presiede lamatṛkā”.
Anche questo che vuol dire? Questo sarebbe già più chiaro se uno conosce un po’
di tantra. Che cosa è la mātṛkā?
La mātṛkā è
una divinità alfabetica. Voi direte che cos’è una divinità alfabetica? È la
Śakti, controparte di Śiva, consorte di Śiva nella sua forma alfabetica, fatta
di fonemi, voi immaginate un dio fatto invece che di una sostanza spirituale
fatto di suoni, un dio sonoro un dio fonematico, il dio fonematico il Bhairava
fonematico è lośabdarāśī [insieme
di fonemi], quindi noi abbiamo una specie di controparte, in realtà sono le
stesse figure, figure con una loro controparte puramente sonora fatta di
linguaggio, abbiamo Śiva da una parte, Bhairava da una parte, śabdarāśī,
e abbiamo a fianco la Śakti che corrisponde a tutti i fonemi che formano
l’alfabeto Sanscrito tradizionalmente considerati cinquanta, poi appare ben
presto una seconda divinità femminile alfabetica ed è Mālinī in tutti i testi
tantrici noi troviamo una presenza alla fine predominante di questa Mālinī e nel
rifare da capo questo lavoro che come dico nell’introduzione, l’edizione
precedente risale a dodici anni fa, ho trovato nuovi strati di testo che mi
erano sfuggiti nella prima e probabilmente altri ne troverò in una eventuale
futura edizione, uno di questi è il rapporto che c’è tra Matṛkā e Mālinī, questo
lo dico per introdurre quello che stavo dicendo prima, Mālinī è fatta degli
stessi fonemi dell’alfabeto Sanscrito ma tutti mischiati, impazziti, voi
immaginate l’ordine normale tradizionale dei fonemi è di Matṛkā che è una
divinità energetica ma tutta bella tranquilla, gli adepti tantrici non si
interessano granché alla Matṛkā, si interessano molto di più a Mālinī, Mālinī è
legata al potere è legata alla trasgressione è legata al momento in cui dalla
realtà manifestata noi rientriamo verso l’Assoluto in questo pulsare continuo
che va tra assoluto e manifestato in India, nel mondo tantrico indiano, perché
Mālinī è detta bhinnayoni con
le consonanti mescolate, si capisce dal Mālinīvijaya e
da altri tantra anche dal Siddha….
si capisce che questa espressione bhinnayoni, yoni è
il nome in codice delle consonanti può significare… significa le consonanti
mescolate ma significa nel contempo “con la vagina trafitta” bhinnayoni che
cos’è questa vagina trafitta? è il dio Bhairava, Assoluto, il quale turba
sessualmente la sua controparte tranquilla Matṛkā, Matṛkā turbata sessualmente
da Śiva si eccita ad un certo punto non ci capisce niente, tutti i suoi fonemi
si mescolano in maniera arbitraria caotica in seguito a queste attenzioni
sessuali di Śiva e viene fuori la forma energetica turbata violenta trasgressiva
della dea nella sua forma caotica, per quale motivo c’è questo accentuare
continuamente la presenza dell’alfabeto del linguaggio nel cuore stesso
dell’Assoluto questa è una delle idee chiavi dell’India secondo cui noi non
abbiamo un pensiero il quale si manifesta col linguaggio ovvero il linguaggio
visto come uno strumento per comunicare il pensiero un docile strumento per
comunicare il pensiero. L’India ha saputo fin dal tempo vedico che il pensiero
non usa il linguaggio ma è il contrario, il pensiero senza il linguaggio
semplicemente non esiste, quindi conoscere pensare vuol dire gettare intorno
all’oggetto una griglia linguistica, altrimenti l’oggetto sarebbe destinato a
restare al di fuori della coscienza, se noi possiamo portare l’oggetto
all’interno della coscienza è perché disponiamo di questa griglia linguistica la
quale in ultima analisi coincide con la coscienza, non esiste coscienza senza
una sua articolazione linguistica, motivo per cui ai vertici del pantheon
śivaita noi troviamo la suprema potenza chiamata tranquillamente “suprema
parola”, a questo punto ti dice il sūtra proprio mette le carte in tavola “Al
conoscere presiede la Mātṛkā” il che vuol dire, alla nostra capacità cognitiva
presiede una dimensione linguistica senza la quale il nostro conoscere… e questo
lo dice ai primissimi sūtra quindi in mezzo a questi slanci proprio di carattere
scritturale spirituale c’è un’improvvisa puntualizzazione di tipo filosofico
linguistico e questo ci fa capire come questo testo sia veramente continuamente
in bilico e ha bisogno di qualcuno che lo fermi e ce lo polarizzi nell’una o
nell’altra dimensione questo che poi esista una possibilità di interpretazione
in termini di tre vie questo è probabilmente una forzatura, che ci sia però un
senso di diversificazione di strade quali siano ancora non si capisce questo è
chiaro quindi strade più immediate più travolgenti istantanee e strade più
graduali ripetitive e questo è qualcosa che ha attraversato l’India non soltanto
l’India brahmanica ma anche l’India buddhistica da sempre quindi una
contrapposizione tra krama e akrama ciò
che è successione e ciò che è privo di successione c’è una famosa disputa
all’interno del buddhismo del tantrismo buddhista che ha visto mobilitato
Kamalaśīla in cui ci si chiedeva ha un senso ricorrere a dei mezzi ha un senso
ricorrere allo yoga ricorrere alla ripetitività alla gradualità, la risposta di
queste scuole è un drastico no. Io sto facendo a Roma una serie di lezioni
private soprattutto a maestri yoga su qual è la posizione yoga all’interno del
tantrismo e stanno venendo fuori delle cose anche perché si parla di testi mai
letti mai tradotti eccetera piuttosto nuove, quindi il tantrismo alto questo
dello śivaismo e dello yoga non ha fatto un passo quello che chiama yoga quando
usa questa parola è qualcos’altro che appartiene a questi primi, che appartiene
a questa prima sezione…
Prof. RIGOPOULOS
A proposito dell’ontologia della prospettiva adombrata dai sūtra e poi nel
commento, caitanya o
la coscienza come unità indissolubile si dice di luce prakāśa e
di riflesso, consapevolezza riflessa vimarśa qui
entrano in gioco due categorie centrali del pensiero tantrico śivaita prakāśa e vimarśa e
si è sottolineato il loro incessante dinamismo che contrassegnerebbe proprio la
potenza di libertà di Śiva questa svātantryaśakti che
è forse la sua più autentica definizione, ecco in rapporto a questa dialettica
che poi anche nell’introduzione spieghi tra Śiva relato e Śiva irrelato ti pongo
una domanda forse troppo ampia ma un’interrogazione che ti vorrei porre in
questi termini di nuovo qui torna un tema fondamentale nelle religioni e
filosofie dell’India che è il tema della luce e del riflesso ti chiedo come
dovremmo intendere come intenderesti prakāśa e vimarśa,
cioè a dire spesso si parla della luce e del riflesso come metafora, ma sono una
metafora sono piuttosto ciò che è detto al di là e oltre la metafora cioè a dire
questo tema che ritorna continuamente nel pensiero filosofico indiano nel
Sāṁkhya stesso nel Vedānta cioè l’idea di un Assoluto come pura luce, una luce
che si rifrange che si specchia e che si riflette, questo tema portante del
rapporto luce-riflesso che quindi implica anche l’orizzonte dinamico a cui prima
facevi riferimento ecco mi piacerebbe sentirti riflettere a voce alta su questo
tema della luce e del riflesso.
Prof. TORELLA
Diciamo che vimarśa non
viene inteso come riflesso quindi il rapporto luce-riflesso è un rapporto
affiancato a quello di prakāśa-vimarśa ma
non coincide con prakāśa e vimarśa,
ci porterebbe verso un’altra dimensione ugualmente interessante. E da dove nasce
questa cosa che diventerà poi in India corrente all’interno di tutte le scuole
tantriche quindi luce da una parte, uno immagina luce come un aspetto statico
l’aspetto potremmo dire quasi di contenuto contrapposto invece a vimarśa che
è l’aspetto dinamico vimarśa è
il momento in cui si prende consapevolezza e si agisce sui contenuti, quindi
immaginiamo a livello più basso non a livello assoluto anche se dobbiamo sempre
tenere presente che questo alto e basso… c’è una parte del Parātrīśikavivaraṇam il
grande commento di Abhinavagupta ad un breve tantra, che è meno di questo, un
tantra di trenta versi che è dedicato alle sedici diverse etimologie della
parola anuttara che
vuol dire letteralmente senza superiore ciò che non ha nulla al di là, alcune di
queste etimologie sono bellissime sempre etimologie come dicevamo prima
etimologie molto creative e alcune di queste prendono anuttara nel
senso di non ciò rispetto al quale non c’è niente di uttara ovvero
di trascendente che viene dopo ma anuttara come
il non-trascendimento ovvero non c’è niente che vada trasceso tutto quanto va
semplicemente vissuto per quello che è senza inserirlo in gerarchie, quindi il
momento in cui noi diciamo questo è bello questo è il primo gradino secondo il
terzo il quarto noi abbiamo fatto un percorso ascendente, Abhinavagupta ci mette
in guardia da questi percorsi ascendenti che creano gerarchie e mettono
etichette alla realtà, anche quello che a te sembra il gradino di partenza che
poi tu devi superare non credere che sia così, anche il gradino di partenza ha
la stessa dignità del gradino successivo, quindi non ci dev’essere un
trascendente, ora tutta la filosofia del tantrismo indiano finisce per assumere
le categorie elaborate dai nostri amici śivaiti intorno al IX – X secolo
soprattutto con la scuola del riconoscimento, la scuola della Pratyabhijñā è
in questa scuola in cui noi troviamo per la prima volta questa opposizione tra prakāśae vimarśa non
le troviamo in Somānanda quello che sarebbe in teoria il fondatore della scuola pratyabhijñā ora
la scuola del riconoscimento chi si vuole occupare di queste scuole non può non
affrontare i testi difficili della scuola pratyabhijñā ora
l’opera principale della pratyabhijñā è
di Utpaladeva e si chiama “Le stanze del riconoscimento del Signore”. È un’opera
di carattere strettamente filosofico epistemologico pienamente tantrica però un
tantrismo speculativo, opera complessa a cui io ho dedicato un lavoro che sta
per essere ristampato in India, edizione critica e traduzione in inglese di
questo testo con l’auto-commento dell’autore in questo testo emerge per la prima
volta prakāśa e vimarśa allora
sempre restando in questo percorso più interpretativo che descrittivo che è
quello che mi interessa di più ora oltre a cercare di capire che cosa volessero
dire questi due termini per cui alla fine vimarśa è
l’aspetto appropriativo quindi io ho una certa conoscenza nel momento in cui io
percepisco un oggetto questa percezione dentro di me dell’oggetto questo
illuminarsi dell’oggetto al mio interno è il momento della luce seguito da un
appropriarmi intellettualmente in maniera analitica in maniera consapevole di
questo contenuto cognitivo questo è uno dei significati di prakāśa e vimarśa.
Per quale motivo nasce questa opposizione che avrà poi così grande fortuna prakāśa è
Śiva vimarśa è
Śakti quando mi sono posto questa domanda man mano il discorso s’è fatto sempre
più complesso perché in India come tutti quanti voi sapete non c’è niente di
semplice probabilmente in nessuna civiltà c’è niente di semplice nell’India
ancora peggio perché è tutto più complicato quindi quando ai miei studenti
all’inizio dell’anno do un po’ di catechismo agli studenti nuovi, dico due o tre
cose, una di queste riguarda il modo incisivo di parlare e di scrivere, è vero
che noi siamo abituati a parlare, anch’io mi rivolgo a me stesso che in fondo
non faccio altro che parlare, una delle prime cose che dico loro è che se una
cosa può essere detta con dieci parole voi ditela con otto questo è uno dei
primi, seconda cosa è non esiste la semplicità, la semplicità è semplicemente il
frutto dell’incapacità di cogliere la complessità il che non vuol dire che le
cose complesse non possano essere espresse con chiarezza e questo vale
maggiormente per le cose dell’India che sono tra le più incasinate che esistano,
quando si va a vedere la genealogia di questi due termini che poi diventeranno
pane quotidiano lo sanno anche i ragazzini kashmiri parlano di prakāśa e vimarśa dietro
noi abbiamo un grande fantasma questo grande fantasma è il più grande linguista
dell’umanità ed è Bhartṛhari, grammatico filosofo del V secolo è sicuramente la
mente più lucida che nella storia dell’umanità abbia affrontato il linguaggio in
tutti i suoi aspetti semantico linguistica-storica filosofia del linguaggio
insomma una delle grandi menti dell’India in questa opposizione prakāśa e vimarśanella
forma satyavamarśa è
presente in Bhartṛhari, qui finirei per parlare troppo a lungo di questo terreno
su cui nho lavorato molto diciamo solo che Utpaladeva, il grande filosofo dello
śivaismo prima ancora di Abhinavagupta si trova a dover creare delle coordinate
della visione del mondo śaiva esprimendola in termini teoretici; nel fare questo
come dicevamo prima si trova a fare delle scelte ovvero a dichiarare guerra a
qualcuno e a cercare alleati in altri settori spesso poi anche questa
dichiarazione di guerra è fatta al fine di rassicurare o di attrarre dei
potenziali alleati che hanno paura di quelli, allora dicevamo io faccio guerra a
quelli attacco quelli voi venite qui che vi proteggo io questa strategia che è
molto chiara se uno la sa vedere è quella che fa sì responsabile dell’attaccare
i buddhisti da parte dello śivaismo e nello stesso tempo attaccando i buddhisti
stringere le fila dei fedeli śivaiti che però non sono ancora śivaiti advaita fa
vedere che loro sono in grado di fronteggiare il grande prestigio intellettuale
dell’epistemologia buddhista medioevale che spopolava in questo spazio e in
questo tempo e far capire che loro i seguaci delle scuole Nyāya Vaiśeṣika che di
religione erano tutti śivaiti ma non śivaiti di questa… fanno capire che loro
non riusciranno mai a spuntarla nei confronti dei buddhisti a meno che loro non
si mettano, non si nascondano in un certo senso o non entrino nelle fila loro e
quindi parte questo gioco al massacro contro la filosofia buddhista con dei fini
precisi egemonici per ingrossare le fila di tutte queste masse sparpagliate le
quali sarebbero state destinate ad essere delle vittime filosofiche dei
buddhisti se non armandosi delle armi di queste scuole sofisticate pratyabhijñā riconoscimento
ecc. qual è il principale argomento contro i buddhisti? il buddhismo viene visto
come in realtà è come una visione di un mondo segmentato un mondo fatto di
istanti con un abisso tra un istante e l’altro, quindi una realtà fatta di
punti-istanti non comunicanti quindi una realtà discreta frammentata alla quale
lo śivaismo oppone che cosa oppone il suo contrario una realtà integrata un
circolo di fiamme continuo che gira su se stesso che cancella ogni
differenziazione del reale e permette anche una grande libertà di movimento
all’interno del reale perché non c’è nessun steccato che separa una cosa
dall’altra le cose non hanno un’etichetta per cui sono quello e rimangono per
sempre quello le cose sono in grado di essere continuamente riformulate
rimodellate ricreate quindi sono due visioni del mondo proprio opposte da questo
punto di vista frammentate nel mondo dei buddhisti e integrato e continuamente…
diciamo un mondo che si muove a spirale quello dello śivaismo. A questo punto
Utpaladeva ha bisogno di un modello interpretativo molto prestigioso da opporre
a quello dei buddhisti sceglie il modello del linguista filosofo Somānanda, nel
momento in cui Somānanda, scusate Bhartṛhari (c’è un motivo perché dico
Somānanda invece di Bhartṛhari)… possiamo dire… vedete come ci stiamo
allontanando da una dimensione puramente religiosa come è questa, ma
allontanando in parte perché la dimensione teoretica in queste storie è sempre
sotto pelle per cui c’è sempre un gioco continuo tra i due piani quindi noi in
modo in una sorta di archetipo o paradigma della frammentazione dei buddhisti e
della integrazione degli śaiva è rappresentata epistemologicamente dall’abisso
che separa il momento della percezione diretta che secondo i buddhisti è l’unico
momento in cui il reale viene a contatto con noi quindi noi abbiamo un momento
in cui la diretta percezione fa rispecchiare dentro il nostro conoscere
integralmente il reale momento privilegiato in cui noi tocchiamo il reale che ha
il solo difetto però di non essere usabile ovvero di essere un momento talmente
vivido che non può entrare nel gioco della nostra realtà quotidiana, per poterlo
utilizzare questo momento in cui il reale si rispecchia dentro di noi dobbiamo
farlo affievolire dobbiamo spegnerlo in che cosa nel pensiero concettuale,
quindi il pensiero concettuale toglie luce al reale toglie addirittura dignità
al reale però ci rende liberi ci mette in grado di lavorare sul reale e quindi
noi abbiamo questo abisso che separa il pensiero discorsivo dal pensiero non
discorsivo. C’è un passo bellissimo che ho messo in evidenza in qualche mio
lavoro che si trova in uno dei grandi commenti di Abhinavagupta questo testo che
si chiama “Stanze del riconoscimento del Signore” è un commento molto analitico
difficile in 1200 pagine Sanscrito fittissimo difficilissimo lui fa una
similitudine bellissima secondo me per far capire che cos’è questo momento della
diretta percezione nei confronti invece della elaborazione concettuale. Parla di
un uomo che viene dalla campagna, quest’uomo viene dalla campagna e si trova in
città entra in un palazzo rutilante di luci dove c’è una festa bellissima con
cibi raffinatissimi tutto quanto shining al
massimo dopo il primo momento che si trova in questo palazzo meraviglioso che
sarebbe il palazzo della percezione diretta lui si sente un po’ a disagio e
comincia a dire sì beh qui è tutto bellissimo è sopra le righe ma io mi sento un
po’ a disagio e allora va in cerca del portiere perché non riesce più a uscirne
fuori da questo palazzo chiede al portiere di portarlo fuori da questo palazzo
che è fin troppo bello nel quale lui è talmente bello non riesce a vivere non
riesce e vuole ritornare al suo villaggio perché lì bene o male le cose insomma
funzionavano erano un po’ orizzontali ma insomma… il portiere ci dice alla fine
di questa metafora Abhinavagupta è il pensiero discorsivo quindi lui si rivolge
al pensiero discorsivo per uscire dal festival bellissimo ma alla fine
insostenibile della percezione diretta con tutte le sue luci abbaglianti. Quindi
questo è quello che succede nel mondo dei buddhisti. Bhartṛhari oppone a questa
visione del buddhismo una visione diametralmente opposta: secondo Bhartṛhari
anche nel momento della più immediata percezione noi abbiamo già
un’articolazione linguistica quindi quello che sarà il pensiero discorsivo che
viene dopo non è un salto di qualità non è un abisso che abbiamo superato ma è
semplicemente un progressivo svolgersi di un seme, di un germe che era già
presente anche nel momento della percezione sensoriale apparentemente più
immediata e questo secondo Bhartṛhari è per due motivi, primo perché è chiaro
che il conoscere prende non solo la forma ma ha bisogno di una struttura
linguistica per aver luogo, questa struttura linguistica noi l’abbiamo non
soltanto quando abbiamo la consapevolezza diretta del linguaggio ma prima c’è
una occulta struttura linguistica che progressivamente si dipana si scioglie si
articola, quindi noi abbiamo da una parte il mondo frammentato dei buddhisti e
dall’altra parte il mondo epistemologicamente integrato di Bhartṛhari e
Bhartṛhari nel parlare di questo usa proprio le parole prakāśa e vimarśa e
ci dice che se all’interno del momento della percezione diretta ovvero del prakāśa non
esistesse già questa articolazione linguistica per quanto ancora non tangibile
la stessa luce non potrebbe risplendere na
prakāśa prakaśeta la
luce non risplenderebbe. Abbiamo qui tutto il pensiero śivaita già in qualche
modo ante litteram esplicitato a livello epistemologico. Utpaladeva molto
saggiamente prende questo blocco di un grande pensatore come è Bhartṛhari lo fa
proprio e lo usa come strumento anti-buddhista per i motivi che abbiamo esposto
prima. Questo è un po’ quello che c’è dietro a prakāśa e vimarśa.
Prof. SQUARCINI
L’altra questione che volevo sollevare e inerente alla visione di questo testo
riguardo al legame al mondo, ad esempio rispetto al Vedānta, se vediamo il
secondo sūtra del primo dischiudimento c’è un vincolo tra la conoscenza e il
legame e lo stesso nel secondo sūtra del terzo dischiudimento dice la stessa
cosa, solo che nel primo caso il sūtra è legato a caitanyam mentre
nel secondo è legato a cittam la
domanda verte su quale può essere l’origine del nostro condizionamento.
Prof. TORELLA
Effettivamente uno potrebbe andare oltre come sei andato tu nella lettura di
questo testo e esplorare dei terreni incolti, incolti anche dagli autori stessi,
dall’autore stesso… prima considerazione che possiamo fare è che noi siamo
abituati a pensare all’uomo come animale razionale la Grecia ci ha insegnato che
l’uomo spontaneamente è un essere pensante e spontaneamente va verso la
cognizione quindi il conoscere rappresenta la naturalità e allora uno attrezzato
da questa considerazione il pensiero occidentale l’ha fatta propria Cartesio
Usserl ecc. arriviamo al mondo indiano, certamente nel mondo indiano troviamo
formulazioni del genere soprattutto formulazioni che ci portano a considerare
l’elemento portante all’interno della soggettività non dico soggettività umana o
divina ma soggettività almeno meta-cognitiva ovvero quello che noi chiamo il
soggetto l’India ha bisogno di aggiungere qualcosa e quindi dice quale soggetto
il soggetto agente o il soggetto conoscente aggiunge qualcosa per cui quando noi
parliamo di soggetto e basta all’India non è sufficiente, dovremmo mettere ātman o
… gran parte dell’India soprattutto l’India brahmanica è concorde sul fatto che
dire soggetto vuol dire dire implicitamente soggetto conoscente quindi il
soggetto è caratterizzato dal fatto di conoscere jñātṛ tanto
per usare una parola sanscrita. Gli śaiva non sono mica tanto d’accordo su
questo anche perché nel mondo vedāntico attribuire al soggetto questa qualifica
centrale di conoscente corrisponde la sottrazione e l’eliminazione della
qualifica di agente quindi il soggetto conoscente vero e proprio lo dicono
sempre i testi brahmanici non è attivo è akriyā è
soltanto un soggetto... Andiamo a vedere quello che succede nel mondo tantrico
non solo śivaita ma anche vaiśnava e troviamo che invece il soggetto per
eccellenza è kartṛcioè
io sono soggetto in quanto agisco non in quanto conosco, a questo punto si
aprirebbe un altro possibile snodo del nostro discorso che è l’incontro scontro
tra conoscere e agire nel mondo tantrico, primato della conoscenza o primato
dell’azione? Quando dico primato della conoscenza posso tradurre anche primato
del rito o primato della gnosi? Quindi come vedete le biforcazioni poi partono
all’impazzata diventano tante. Quindi noi nel mondo tantrico abbiamo sicuramente
una identificazione del soggetto con kartṛ con
il soggetto agente non con il soggetto conoscente nel mondo brahmanico abbiamo
una sola eccezione che ci può sembrare anche inattesa e chi è che sostiene la
centralità del kartṛ nel
soggetto? sono proprio i fondamentalisti cosiddetti indiani laMimāṁsā,
questa è l’unica scuola indiana che esce dal coro dei fautori del… e afferma che
l’io è un io in quanto sacrificante ovvero in quanto operatore di un atto
sacrificale e quindi all’interno della falange brahmanica abbiamo quella che
dovrebbero essere proprio la śivasenā i
fondamentalisti più aggressivi che sono quelli dellaMimāṁsā che
sostengono invece la centralità dell’azione dell’azione però sacrificale quindi
io sono io in quanto sacrifico. Nel mondo tantrico le cose poi vanno… se uno
legge i testi attentamente le cose diventano ancora più complicate ancora più
interessanti perché nella gerarchia delle potenze la potenza d’azione non viene
prima ma come uno potrebbe dire il soggetto è il soggetto in quanto è soggetto
agente io mi aspetterei che quindi la potenza di azione sia la potenza primaria
no la potenza d’azione è una specie di ultima potenza a superarla in qualche
modo tra virgolette ontologicamente sono altre potenze più indeterminate più
trasparenti della potenza d’azione… la potenza di conoscenza viene
gerarchicamente prima della potenza d’azione la potenza di conoscenza è a sua
volta trascesa da una potenza ancora più trasparente ovvero ancora più
indeterminata potete immaginare quale sia: la volontà; la volontà sta dietro sia
all’azione che alla conoscenza ed è considerata una potenza gerarchicamente più
alta e questo ce lo dice anche lo Śivasūtra quando
ci dice che la più alta potenza è la potenza di volontà śaktitā se
invece noi andiamo a leggere invece la Śivadṛṣṭi questo
grande testo filosofico religioso che viene ancora prima di Utpaladeva, che ne è
il commentatore, troviamo delle note ancora più coinvolgenti. Somānanda, che è
l’autore, non si accontenta della volontà prima ancora della volontà lui vede
un’altra potenza ancora prima della volontà e questa potenza viene chiamata
tecnicamente aunmukhya che
vuol dire il puro atto di essere protesi verso protensione verso… questa
protensione verso puntini puntini è il primo incresparsi della coscienza il
primo dinamismo, voi immaginate una coscienza la quale rappresenta la prima
potenza secondo Somānanda chiamata con un termine che ha delle forti
connotazioni estetiche nirvṛti quindi
una coscienza la quale ha quel senso di appagamento che è l’appagamento che noi
sperimentiamo dopo una forte esperienza estetica e vediamo come l’estetica entri
sempre più profondamente all’interno dell’esperienza religiosa proprio a partire
da questi testi straordinari, quindi noi vediamo che per il tantrismo non è
l’essere conoscente il quale rappresenta il nucleo della soggettività quindi
l’essere in quanto conoscente in un certo senso nei meandri dell’essere agente
ma è l’essere desiderante in cui l’agire non si rapprende ancora in un’azione
definita ma si identifica con questo dinamismo che fa alzare il capo unmukka vuol
dire protendere la testa verso l’alto mettendosi in una sorta di situazione di
attesa dell’azione che verrà (prof. Rigopoulos: quindi uno slancio) uno slancio
esattamente sempre un ut cioè
in grado di levarsi quindi possiamo dire tranquillamente che all’uomo conoscente
del mondo brahmanico il quale uomo conoscente voi potrete capire che è anche più
tranquillizzante per una ideologia la quale tende a dominare una realtà
composita come quella indiana se quindi metti un uomo conoscente che sta
benissimo un uomo conoscente soprattutto se questa conoscenza siamo noi a
trasmettergliela noi brahmini ecc. se tu metti al centro dell’uomo l’uomo
desiderante insomma bisogna stare in campana come si dice a Roma perché poi
l’uomo desiderante poi difficilmente si presta a restare all’interno degli
schemi che sei tu a dargli quindi il tantrismo risponde appunto al mondo
brahmanico anche in termini ideologici in termini di tentativo di sostituire
un’egemonia con un’altra proprio minando una di queste diciamo proprio di questi
meccanismi di de-egemonizzazione sostituendo quindi all’uomo con essenza
conoscente un uomo con essenza desiderante. Ora, dopo essere partiti molto da
lontano, tornando alla domanda di Federico la parola in questione era ajñānaṃ e
non jñānaṃ perché
il manoscritto e anche nella recitazione se io dico caitanyam
ātmāla
parola finisce con una ā lunga
e subito dopo dico jñānaṃ in
sanscrito la ā finale
di ātmā potrebbe
benissimo essere la fusione della ā finale
di ātmā con
la a iniziale
negativa di jñānaṃ tutte
e due sono possibili quindi io mi posso inventare che la conoscenza è un legame
e lì posso prendere tutta una serie di snodi molto interessanti, quello che
hanno in mente queste scuole invece è un discorso molto mirato, mirato nei
confronti dello Śaiva
Siddhānta ora
lo Śaiva
Siddhānta è
una sorta di versione mild dello
śivaismo ancora molto vicina al mondo brahmanico è un primo distacco dal mondo
brahmanico che però non lo mette sostanzialmente in discussione soprattutto dal
punto di vista sociale e la presenza della casta all’interno dello Śaiva
Siddhānta è
fortissima quindi Abhinavagupta rimprovera ai pensatori dello Śaiva
Siddhānta una
ossessione della casta mentre il tantrismo tenderebbe ad eliminare ogni
divisione di casta sulla carta, lo Śaiva
Siddhānta nemmeno
sulla carta lo pensa, quindi un maestro śaivasiddhāntin può
iniziare un adepto soltanto se l’adepto è di casta uguale o inferiore quindi un
maestro śaivasiddhāntin che
ad esempio è uno kśatriya non
può iniziare un brahmino che viene lì e chiede io voglio diventare uno śaivasiddhāntin non
può iniziare un tale adepto. Lo Śaiva
Siddhānta è
una delle forze dominanti del Kashmir in cui sorge lo śivaismo quindi lo
śivaismo ha bisogno di distinguersi dallo Śaiva
Siddhānta e
nello stesso tempo respingere oltre quello che un distacco dal mondo smārta ovvero
quella che è la cosiddetta ortodossia brahmanica che rimane un po’ lo zoccolo
duro della società kashmira lo Śaiva
Siddhānta è
noto è presentato dagli śivaiti non dualistici come una religione centrata sulla
ritualità incentrata sul rito, per quale motivo lo Śaiva
Siddhānta ha
questa possiamo dire anche in questo caso ossessione del rito che noi troviamo
anche nel Sāṁkhya viṣṇuita
nel Pāñcarātra ecc.
ma troviamo molto di meno in queste scuole qui il discorso sarebbe molto lungo
cerchiamo di restringerlo un po’ all’interno di certi termini. Quello che dicono
i dottori śivaiti dello Śaiva
Siddhānta è
che noi abbiamo una anima individuale la quale sì coincide unicamente con Śiva
però ha delle forze che hanno condizionato costretto depotenziato questi poteri
quindi queste forze sono codificate in tre tipi di forze, da una parte ne
abbiamo una che fa pensare un po’ al nostro peccato originale, è una cosa che
c’è da sempre la quale copre quelle che sono le potenze che noi condividiamo con
Śiva in primo luogo conoscenza e azione le contrae senza distruggerle le rende
affievolite per cui noi abbiamo sì un conoscere e un agire però enormemente
depotenziato rispetto a quello divino però della stessa qualità e abbiamo altre
due fonti di depotenziamento ora dicevo dello Śaiva
Siddhānta questa
specie di macchia originale che noi abbiamo è qualcosa di sostanzialmente fisico
tra virgolette ed essendo qualcosa di concreto dravya in
sanscrito ha bisogno per essere rimossa di qualcosa di altrettanto concreto
ovvero un’azione rituale quindi noi abbiamo bisogno di un rito il quale cancelli
fisicamente proprio, tanto è vero che una delle iniziazioni prescritte dallo Śaiva
Siddhāntachiamata
anche pratyaya
dīkśā oppure tuladīkśā è
anche abbastanza ingenua si prende l’iniziando e lo si pesa prima
dell’iniziazione, lo si ripesa dopo e lo si trova più leggero magari quel
poveretto ha fatto una sudata, questo essere più leggero è perché è stato
cancellato fisicamente il mala questa
macchia che copriva quindi è stata rimossa questa sostanza, la macchia è stata
rimossa, per rimuovere una sostanza c’è bisogno di un’azione. Il mondo non
dualistico dello śivaismo si muove su prospettive totalmente diverse e questo lo
troviamo formalizzato forse per la prima volta nel Mālīnivijayottara che
dice non questa macchia non è un fatto, un fatto concreto che va lì a coprire
una cosa, è soltanto un nostro interiore atteggiamento che va modificato
attraverso una pura e semplice presa di coscienza di non alterità nei confronti
del divino, quindi quello che dice subito all’inizio è una presa di distanza
immediata nei confronti del Śaiva
Siddhānta e
dice guardate mala,
viene adoperata la stessa parola, la maculazione, la macchia non è un dravya ma
è una pura e semplice mancanza di conoscenza, la quale va rimossa non attraverso
un’azione rituale concreta eccetera ma va imossa semplicemente modificando il
nostro atteggiamento mentale interiore noi pensiamo di essere limitati in realtà
siamo liberi e la nostra limitazione consiste soltanto nel presumerci limitati,
questa è una grande bordata che disattiva tutto l’universo rituale l’universo in
cui si muove lo Śaiva
Siddhānta demolendo
l’intero edificio rituale dello Śaiva
Siddhānta ed
evocando tutta un’altra serie di mezzi, mezzi che sono molto più come diceva
ieri il prof. Rigopoulos una cosa che l’aveva colpito era che nello Śivasūtra c’è
l’assoluta mancanza del rituale di questo magari potremo parlare dopo,
effettivamente qui di rito non si parla si parla di altre cose, cose
imponderabili, certamente non di rito. Ci sono dei mezzi per raggiungere…?
certamente ci sono dei mezzi, ma dei mezzi talmente sottili talmente sofisticati
per cui anche lo yoga viene visto come un qualcosa di troppo grezzo per lavorare
su questi meccanismi c’è un meraviglioso passo del Mālinīvijayavārtikam di
Abhinavagupta che dice lo yoga non serve io l’ho ricordato in più di
un’occasione nei miei scritti lo yoga non è un mezzo per raggiungere l’anuttara ovvero
questa dimensione dell’assoluto per questa dice esattamente Abhinavagupta ci
serve una navicella mossa da un vento leggero intendendo un’onda il prāṇa dello
yoga sottoposto al controllo delprāṇāyāma ecc.
quindi è un percorso che richiede strettamente una lievità una leggerezza una
naturalezza che non è quello dello yoga e alla fine di questo passo c’è
un’espressione che io credo sia nata nella letteratura filosofica religiosa
dell’India espressione che è veramente meravigliosa nel momento in cui ci si
attacca come fanno spesso questi autori contro i due caposaldi dello yoga, i due
caposaldi che sono diventati anche quelli della Gītā ovvero il praticante e
l’aspirante alla liberazione deve avere vairāgya e
in certi casi si parla di nirodha in
certi casi di un controllo compressione tappe in cui è possibile produrre nirodha e vairāgya ci
vuole distacco quindi distacco non-attaccamento la risposta di Abhinavagupta
come spesso succede è paradossale quindi ci vuole distacco? al contrario ci
vuole attaccamento e quindi crea alla fine di questo breve passo ma densissimo
crea questa espressione anādara
virakti che
io ho tradotta con un distacco virakti equivale
a vairagya insomma
per chi di voi conosce il sanscrito an-ādara:
praticata in elegante souplesse quindi
voi immaginate un distacco praticato in souplesse quindi
non immaginiamo la scena che sta lì [con sforzo] ma un distacco che vive, che è
vissuto in termini di leggerezza, per cui la leggerezza è una delle chiavi per
cui intendere lo śivaismo, io ho fatto una conferenza a Torino al festival di
Torino spiritualità su un tema analogo, sul sorriso nello śivaismo e qui siamo
in questa chiave anche se poi ovviamente c’è l’elemento trasgressivo brutale di
queste scuole ma questo è un altro discorso quindi questa sicuramente era ajñāna … ajñāna ma
lui si trova perché lui fa proprio riferimento alla risposta su che cos’è l’āṇavamala e
qual è l’antidoto all’ānavamala che
non è qualcosa di concreto ma è semplicemente un fatto cognitivo e come fatto
cognitivo non ha bisogno di un’azione per essere rimosso ha bisogno
semplicemente di un atto interiore di auto-riformulazione.
Prof. RIGOPOULOS
Sul versante epistemologico questa è un po’ la mia ultima domanda, ecco negli Śivasūtra si
dice proprio fin dall’inizio che i pramāṇa cioè
i mezzi di conoscenza non possono condurre a questo riconoscimento dell’unica
realtà, che i pramāṇa sono
sostanzialmente inidonei, tutti i pramāṇa e
l’altro sūtra straordinario a proposito di bellezza anche estetica sottolinea
come non di meno questa esperienza dell’assoluto inteso come prakāśa evimarśa deve
realizzarsi per esperienza ordinaria evidentemente e tu hai coniato questo
“meravigliato assaporamento” come traduzione di vismaya
camatkāra che
è sostanzialmente la condizione mi verrebbe da dire del liberato in vita cioè
colui che fa l’esperienza hic
et nunc qui
ed ora della realtà non duale di Śiva comeprakāśa vimarśa e
che assapora istante per istante concepito come un continuum che è immerso che è
parte di questa realtà pulsante vibrante e qui questo straordinario meravigliato
assaporamento è una sorta di trasfigurazione della realtà per cui tutto è Śiva
in effetti. Ora ti domando: se appunto non vi sono pramāṇa che
conducono a questa esperienza ovvero se pure c’è questa dialettica upāya-anupāya “mezzo
non-mezzo” in particolare la seconda sezione da quello che capisco leggendo è
particolarmente dedicata al tema del mezzo che però poi in qualche modo va
trasceso perché in qualche modo il mezzo rimanda alla condizione che inibisce
quella naturalità quella leggerezza di cui prima parlavi ad esempio mi viene in
mente che si parla di guru
upāya il
mezzo è l’*******, ecco se potessi illuminarci su questa sorta di dialettica tra
questa esperienza di meravigliato assaporamento che è un esito è una realtà che
connota l’esperienza del liberato e di nuovo in fondo torniamo a questo discorso
tra graduale e subitaneo upāya
anupāya allora
c’è un mezzo non c’è un mezzo, se i pramāṇasono
utilizzabili dobbiamo forse riferirci a una sorta di yogipratyākṣa?
Prof. TORELLA
Beh questo sarebbe l’argomento adatto per un seminario perché i temi che ha
toccato il prof. Rigopoulos sono nevralgici, ognuno nevralgico e ognuno porta
tutta una serie di snodi. Io mi sono occupato della questione delloyogipratyākṣa come
sai e sono tutti quanti strettamente connessi partiamo dal primo che in un certo
senso è il più semplice ovvero i pramāṇa possono
dimostrare Śiva questo viene negato all’inizio dellaĪśvarapratyabhijñākārikā dimostrare
un qualcosa vuol dire che un mezzo di conoscenza considerato epistemologicamente
valido nel mondo indiano supponiamo percezione inferenza ecc. serve a portare
alla luce qualcosa che prima era oscuro quindi noi prima di conoscere
l’esistenza che ne so del fuoco grazie all’inferenza vedevamo solo un fumo
questo fumo ci consente grazie al fatto che noi in passato abbiamo avuto tante
esperienze che ci hanno permesso di stabilire l’invariabile concomitanza tra
fuoco e fumo ci permette di stabilire che noi vediamo adesso un fumo è come se
vedessimo un fuoco quindi questo atto di inferenza ci porta alla conoscenza
qualcosa che prima non c’era prima di fare questo lavoro cognitivo noi non
sapevamo che lì c’era un fuoco lo sappiamo adesso quindi il fuoco viene portato
ad essere in qualche modo come terminologia sanscrita noi abbiamo da una parte
un mezzo di conoscenza il pramāṇa che
è un sādhana che
è un realizzatore un operatore e qualcosa che deve essere realizzato dal sādhana ovvero sādhya nel
mondo śivaita non è possibile chiamare sādhya Śiva
perché Śiva è il contrario è siddha cioè
qualcosa che è stabilito fin dall’inizio e non ha bisogno che arrivi qualcuno a
portarlo alla luce perché è qualcosa che è la nostra stessa luce è la luce del pramāṇastesso
per cui non è una luce che abbia bisogno di essere accesa (Prof. Rigopoulos: era
già accesa) è il presupposto della luce che c’è negli ****** per cui poi il
discorso si complica quando uno ha consapevolezza di quello che c’è nel pensiero
linguistico indiano viene fatta una differenziazione costante tra siddha e sādhya che
sono termini completamente diversi quindi siddha e sādhya, siddha è
quello che caratterizza i nomi sādhya è
quello che caratterizza i verbi il nome è tale in quanto è un’entità ormai
conclusa in se stessa un’entità chiusa ha dei confini ha una dimensione ormai
acquisita in qualche modo questa dimensione acquisita rappresenta la negazione
del movimento, la negazione dell’energia, immaginiamo un nome è un oggetto che
ha smesso di crescere è un oggetto che ha smesso di evolversi ha raggiunto una
coincidenza con una forma in questo contesto parlare di siddha vuol
dire introdurre un termine limitativo mentre sādhya ciò
che è continuamente in corso come l’azione verbale è l’incarnazione stessa del
movimento dell’energia della potenzialità quindi noi potremmo dire che a un
realtà come Śiva sta bene siddha dal
punto di vista primo e sta bene sādhya da
questo punto di vista secondo quindi questo per quanto riguarda la dimensione se
un pramāṇa può
farci conoscere Śiva. Quello che dice Utpaladeva è che noi non dobbiamo portare
alla luce qualcosa che prima non fosse ma semplicemente pulire un po’ questo
specchio è il riconoscimento, togliere un po’ di polvere e far sì che questa
realtà che non ha mai cessato di essere tale sia riconosciuta verbalmente e nel
nostro comportamento all’interno della realtà ordinaria è quella che nella
epistemologia buddhista è la distinzione tra vijñānakāyasādhana quindi
non è che tu provi la conoscenza di qualcosa ma ne provi la sua applicazione,
consapevole nella realtà ordinaria questo si lega in maniera indiretta ma mica
tanto ad un’altra questione di cui mi sono occupato in passato che parte proprio
dai tantra ci sono i tantra i quali molto spesso quasi sempre si presentano come
un dialogo tra un dio che chiede e una dea che risponde o viceversa quindi a
seconda dell’orientamento che ha il tantra se è un tantra trasgressivo un tantra
di sinistra il dio è ignorante chiede lumi alla dea se invece è un tantra di
destra più sullośaivasiddhānta ecc.
o tantra di questi intermedi è la dea che chiede e Śiva Bhairava o chi volete le
risponde se non che vai a leggere i commentatori degli antichi leggono questo
dialogo e leggono “la dea disse” devi uvācacaspita,ogni
commentatore tantrico soprattutto questa gente qui gente di alta cultura questi
non sono dei commentatori come tantrici da strapazzo che se ne vanno in giro
semplicemente a copulare con le loro adepte nei campi di cremazione ecc. questa
è gente all’interno della camera più segreta della cultura indiana teniamo
presente che il pensiero estetico indiano nasce in questo ambiente quindi senza
le grandi scuole kashmire tantriche noi non avremmo il pensiero dell’estetica
indiana o lo avremmo in maniera molto ridotta e imperfetta quindi anche il
commentatore tantrico è nutrito di tutta una serie di elementi culturali primi
tra i quali è la consapevolezza del pensiero linguistico e grammaticale quello
che dicevamo ieri questo povero americano Nemec che si fa questo libro… che
traduce la Śivadṛṣṭi di
Somānanda con il commento di Utpaladeva testo culturalmente molto ricco avendo
un tipo di preparazione di competenza molto unilaterale non in grado di muoversi
tra epistemologia retorica linguistica ecc. ecc. che emergono continuamente in
questi testi e con cantonate pazzesche insomma ora i commentatori indiani più
d’uno si dicono ma se io uso il perfetto per dire devi
uvācanon
è strano? Il perfetto nella speculazione linguistica indiana a partire da Pāṇini
ma già prima di Pāṇini ha due caratteristiche precise è un passato ormai
concluso un passato irrecuperabile confinato in un tempo ormai esaurito ed è
qualcosa al di là della mia diretta esperienza ora posso io dire che la dea che
è la mia stessa anima che è il cuore della realtà che pulsa intorno a me sia
presentata come qualcosa che appartenga ad un passato irrecuperabile e al di
fuori della mia diretta esperienza se è lei il cuore della mia esperienza da
questo tipo di speculazione che è consapevole di tutte le applicazioni di uso
grammaticale che c’è sul concetto di perfetto se ne parte una speculazione di
tipo filosofico religioso che semplicemente cambia i termini del pensiero
linguistico in pensiero religioso come spesso succede nel mondo indiano quindi
in questo caso abbiamo un altro caso della presenza continua all’interno che non
può essere provata perché è la nostra stessa carne e sangue come se dovessimo
provare noi stessi questo testo e diciamo queste scuole a partire appunto dal Mālinīvijayottaratantradistingue
dei mezzi, ora il momento in cui uno parla di un mezzo vuol dire che sta
evocando un upeya ovvero
la parola per mezzo in sanscrito è upāya che
è un avvicinamento verso un andare verso se tu dici andare verso immediatamente
hai stabilito una distanza una distanza tra te che vai e ciò che devi
raggiungere invalidando in qualche modo questa coincidenza di fondo che c’è tra
te e l’Assoluto tu sei il punto di partenza sei il punto d’arrivo nel momento in
cui parli di mezzo hai creato una indebita divaricazione diciamo, questi tre upāya sonoupāya via
via più sottili quello che dicevi tu del secondo capitolo… quindi lo yoga viene
subito liquidato e il momento rituale viene subito liquidato nel primo upāya,
diversamente da quello che si crede normalmente da quello che si può leggere in
manuali in cui si parla di queste scuole non è che ogni upāya sia
autonomo come si dice normalmente cioè un adepto di scarse capacità diciamo deve
praticare lo yoga deve praticare il rito perché poveraccio più di tanto non può
fare quindi in questo modo lui arriverà alla liberazione no secondo queste
scuole, e i testi sono chiarissimi in questo, arrivato al momento più alto del
mezzo più basso l’adepto deve scavalcare questo mezzo e penetrare nel successivo
quindi non deve fare per la gerarchia come a dire tu sei un povero disgraziato
devi fare i gradi, sei un povero disgraziato d’accordo allora devi partire dal
basso ti devi progressivamente avverare ma alla fine di questo training che va
bene per i poveri disgraziati insomma tu devi saltare nel mezzo della potenza
dello śaktopāya in
cui abbiamo un gioco molto più sofisticato in cui l’elemento fisico ha
pochissima importanza ormai e si gioca sulle emozioni si gioca sulle passioni si
gioca su un raffinamento interno sottilissimo sostanzialmente questo anādara
virakti questo
distacco praticato in elegante souplesse dopodiché si arriva al culmine di
questo secondo upāya si switcha nel
mezzo divino il mezzo divino è quello che è rappresentato dall’udyama
upāya quindi
questa specie di slancio che ti mette in sintonia con l’Assoluto in maniera
molto naturale (prof. Rigopoulos: è quello del camatkāra vismaya quello
che ti esita… prof. Torella: infatti è questo) poi c’è una possibilità che il
mondo indiano contempla sempre io credo in maniera un po’ ipocrita alla fine
ovvero di un mezzo che non sia ovvero un non-mezzo io ho avuto una piccola
disputa con Alexis Sanderson sulla traduzione di anupāya che
secondo Alexis anupāya vuol
dire una compenetrazione priva di mezzo è sempre così ma in realtà anupāya è
usato nei testi, e io ho fatto tutta una serie di dimostrazioni, proprio comekarmadhāraya è
un non-mezzo quindi un mezzo che è un non-mezzo anche qui la tradizione
linguistica ci soccorre e se uno legge Jayaratha il commentatore di
Abhinavagupta si accorge che Jayaratha ha in mente Pāṇini un certo modo in cui
Pāṇini commenta l’uso della negativa (prof. Rigopoulos: naṃtatpuruṣa in
cui la negazione non vuol dire un pratiṣedhya o
una negazione che intervenga sul verbo o che intervenga sul nome capovolgendogli
il significato ma significa anche dire tu sei un non-brahmino non vuol dire tu
sei un kṣatriya tu
sei uno śūdra ma
può voler dire qualcos’altro cioè tu sei un brahmino che però non raggiunge
quegli standard che possono permetterti di chiamarti a pieno titolo brahmino
quindi l’anupāya secondo
Abhinavagupta è un mezzo che pur in qualche modo restando un mezzo perché alla
fine esseri umani siamo e abbiamo bisogno di leve pur restando un mezzo è un
mezzo talmente sottile impalpabile che praticamente non raggiunge quel livello
di coagulazione che ce lo possa far chiamare tranquillamente un mezzo quindi è
talmente sottile come mezzo che possiamo chiamarlo un non-mezzo però tenendo
presente il significato di an nella
speculazione linguistica questo non-mezzo è espresso in poche opere indiane e
pure in queste che vengono citate da Abhinavagupta è laŚivadṛṣṭi questo
testo che è caduto nelle mani inesperte di questo americano e poi un altro testo
importante che è l’Ūrmimahāśastra il
grande trattato dell’onda pervenuto in uno solo manoscritto di cui ne ho una
copia sono stati manoscritti in nepalese ed è uno dei pochi trattati pochissimi
credo perché non ne vengono citati altri e fanno capo alla scuola più
trasgressiva che noi troviamo in queste scuole śivaite ovvero il krama di
cui non abbiamo ancora parlato e di cui ci sono sicuramente echi negli Śivasūtra il krama contempla
nel livello più alto della realizzazione spirituale una cosa che si chiama pura
e semplice saṃpratti che
vuol dire trasmissione noi abbiamo una liberazione che prevede una coltivazione
interiore nel riquadro nello stesso tempo delle śakti dellekālī cioè
tutte le dee kālī che
formano le ruote vengono percorse in maniera proprio a spirale dall’adepto fino
ad arrivare al mulinello parossistico anche accompagnato da pratiche
trasgressive soprattutto sessuali abbiamo un livello secondo che viene chiamato
livello ātaṇa in
cui non abbiamo nessuna pratica neanche di tipo sofisticato sottile ecc. ma
abbiamo una pura e semplice informazione racconto da parte del maestro il
maestro ti racconta la tua liberazione e tu sei liberato dalle parole del
maestro abbiamo un terzo livello che è poi quello che coincide con l’anupāya ed
è un livello in cui il maestro non ti dice neanche niente tu camminando per
strada in una calle di Venezia incontri uno di questi maestri incroci lo sguardo
per un secondo e sei istantaneamente liberato questo è il vero e proprio
non-mezzo che però è presente soltanto in alcune scuole trasgressive come la
scuolakrama di
cui si sa relativamente poco anche se un certo numero di testi è pervenuto
soprattutto in Nepal e ********. Qui c’è un po’ di tutto tutti e tre mescolati
variamente sono pervenuti in questi aforismi il fatto che siano stati messi così
sistemati in queste tre vie eccetera questa è chiaramente una forzatura *******
ma questa forzatura fa parte del testo se noi vogliamo un testo preciso quello
non è lo Śivasūtra che
è un testo che invita qualcuno nel futuro a forzarlo.
DOMANDE DEL PUBBLICO
D. Può dire qualcosa sullo Śivaśastranamasahasraṃ?
R. Questo non ha una dimensione propriamente tantrica fa parte della dimensione
più ampia dello śivaismo purāṇico *** all’interno di tutte le tradizioni
tantriche e non medioevali noi abbiamo dei *** che sono delle litanie con mille
nomi che qualificano un dio una dea ecc. se uno legge i mille nomi di Viṣṇu e i
mille nomi di Śiva ce ne saranno ottocento che sono gli stessi per cui tutto
dipende da come sono commentati se diventano… da una parte sono un elemento
della dimensione religiosa individuale per cui alla mattina uno si legge questi…
dall’altra parte possono essere elaborati da un commentatore ****** ci sono
testi inaspettati profondi sottili per cui alla fine sbagliando certamente
questa dimensione più essoterica rappresentata dalla tradizione dei purāṇa ecc.
mi lasciano un po’ indifferente, sono viziato dalle altezze… questi vanno bene
per una dimensione medio popolare ma non me lo vedo un Abhinavagupta che legge
il Namasahasraṃ
D. Partendo dal presupposto che ci sia un passaggio dall’anuttara all’ānanda dal
punto di vista fonematico ciò che è scritto riguardo alla ruota delle potenze,
la conoscenza e l’azione ha un collegamento una parte in questo movimento di
energie?
R. Beh il collegamento è totale nel senso che in ogni principio noi abbiamo
tutti gli altri quindi non c’è una divisione un’etichettatura alla fine dal
punto di vista così provvisorio noi possiamo identificare i vari principi ma noi
sappiamo che all’interno di ogni principio noi vediamo un radicamento profondo
che lo implica con tutti quanti gli altri quindi una delle dottrine di base di
questa scuola è proprio quella che è stata formulata molto prima che si chiama sarvam
sarvātmatam tutto
ha come essenza di tutto per cui nella potenza di volontà c’è la potenza di
ideazione c’è addirittura il desiderio c’è la terra e così via quindi qui nell’anuttara che
sarebbe la potenza suprema Śiva c’è già in
nuce tutto
quello che sarà lo svolgimento futuro in forza proprio della libertà che
caratterizza la… la parola chiave di queste scuole se proprio dobbiamo cercarne
una è proprio quella menzionata dal prof. Rigopoulos la parola è svātantrya libertà
un giapponese una volta mi scriveva per chiedermi sostanzialmente una specie di
catechismo dello Śivaismo del Kaśmīr voleva che gli indicassi le dottrine più
importanti alla fine gli ho risposto guarda questa cosa non si può fare per lo
śivaismo perché lo śivaismo kashmiro Abhinavagupta in particolare hanno anche un
grande senso dell’humor credono
non vogliono che tu li stia troppo a sentire quando cominciano a fare queste
descrizioni delle quali i buddhisti si compiacciono moltissimo tutti ‘stidharma 120
130 ecc. Abhinavagupta le fa la pagina dopo li cambia la pagina dopo ancora
quindi non vi state a rompere le scatole con queste… quello che ci interessa non
è tanto questo catechismo ma quanto la libertà di muoverci tra le cose non la
catalogazione delle cose ma… quando anche questo evocato e citato prima dal
prof. Rigopoulos si parla di un trascendimento del reale ma nello stesso tempo
un recupero di quello che tu hai trasceso questa è una delle grandi chiavi
interpretative mentre nel mondo brahmanico noi assistiamo ad un percorso
verticale per cui tu passi dai vari stati veglia sonno sonno profondo arrivi al
quarto stadio che è quello della liberazione dopo che sei arrivato immaginate
uno che sale in cima su una scala arriva all’ultimo gradino oh a che bello sono
all’ultimo gradino e mo’ che faccio? Sta lì appollaiato come un fesso
sull’ultimo gradino… questo è il modo in cui uno śivaita vede.. e alla fine
all’adepto śivaita non gli si chiede di percorrere un cammino ascensionale
trascendendo e quindi negando via via i gradini che sta percorrendo stabilendone
la provvisorietà oppure un basso livello un inferiore livello ontologico l’unica
realtà è quella che ti permette di passare da un gradino all’altro il gradino è
meno importante del tuo passo in avanti e indietro quindi nel momento in cui tu
sei arrivato al quarto stadio per lo śivaita non è il momento finale spesso
viene evocato anche in termini di paura come se fosse un momento in cui uno
sfondo di grande vuoto si apre davanti a te ed è quella che viene chiamata nello Svacchandatantra ātmavyakti pervasione
dell’ātman alla
quale deve far seguito la śivavyakti ovvero
la capacità una volta arrivati a quel gradino alto di scendere in basso e di
recuperare in basso tutto quello che hai provvisoriamente lasciato non c’è
niente da lasciare e non c’è niente a cui aspirare c’è da muoversi come una
spirale (prof. Rigopoulos: mi veniva in mente mentre spiegavi questo alla
categoria dei sahaja questa
naturalezza o naturalità che in qualche modo richiama a questa condizione per
cui mutatis mutandis mi
verrebbe da dire tutto è santo cioè tutto è trasfigurato in qualche modo…) sì in
questo convegno a Roma che c’è stato recentemente su Uomo e Natura sui rapporti
tra l’elemento naturale e l’elemento umano nel mondo indiano nella prolusione
datta all’inizio c’era questa messa in evidenza visto che l’India come abbiamo
detto e come sappiamo tutti è uno dei mondi culturali più complessi più pieni di
contraddizioni di cose molto feconde insomma e punti di vista molto diversi
prima in India si è pensato tutto si è detto tutto e il contrario di tutto anche
l’opposizione tra ciò che è naturale e ciò che è non naturale in India prende
come al solito dimensioni inattese perché da una parte noi abbiamo una
tradizione prakṛta sanscrita
ovvero ciò che è artefatto raffinato perfezionato che viene sentito nel mondo
indiano molto superiore a ciò che è naturale ciò che è naturale la parola per
naturale è prakṛtanel
mondo indiano visto come dravya ecc.
molto spesso ha un connotato di rozzo di banale di volgare ecc. contrapposto a
quello alto spirituale eccetera però l’India conosce anche un’altra opposizione
tra ciò che èsatyaka e
ciò che è kṛtārtha che
è nato ciò che è profondamente vero contrapposto a tutto ciò che è costruito
quindi anche qua abbiamo due opposizioni diverse polarizzate in modo molto
diverso a seconda delle scuole nel nostro caso della scuola śivaita la bilancia
pesa dalla parte del satyaka rispetto
a ciò che è costruito.
D. Scuole tradizionali misteriche, verità storica annullamento della storia o
riconoscimento della storia, cita Guénon e Eliade, la forma o la sostanza della
storia, cita il Mahanirvāṇatantra il
tantra della grande liberazione, il dispiegarsi delle varie ere, i vari yuga l’uomo
del kaliyuga non
può conoscere la verità come quello delle altre ere, quindi la verità va appresa
in un’altra forma ma è la forma che cambia o l’essenza?
R. Intanto tutti sappiamo che il Mahānirvāṇatantra è
un tantra per modo di dire un’opera tardissima forse del XIX secolo io non la
metterei neanche tra le opere tantriche comunque quello che dice è una cosa che
viene ripetuta in tanti testi per cui anche se lo dice un testo squalificato
come il Mahānirvāṇatantra uno
lo può prendere in considerazione, quindi d’accordo nelle varie ere noi abbiamo
varie possibilità dell’essere umano e questo lo dicono anche i nostri autori per
cui quello che nel kṛtayuga tu
potevi chiedere a un uomo tu non lo puoi chiedere adesso devi individuare altri
mezzi altre strade, mi chiarisca se lei faceva riferimento allo stato delle cose
indiane o al modo in cui Guénon Eliade ecc. hanno interpretato le cose indiane.
D. volevo spezzare una lancia a favore di questi autori invece di ritenere come
in genere si ritiene che questi autori vogliono annullare la storia dando una
priorità assoluta a questa verità metafisica. R. annullare la storia è un fatto
storico quindi io essere storico ho anch’io un desiderio di annullare la storia
però devo rendere conto che anche questo mio artificio è un fatto storico per
cui io annullo la storia e in un certo senso posso salvare anche Guénon e anche
Eliade con un certo disagio posso salvarli nel senso che li considero
manifestazioni storiche quindi il loro leggere in questo modo scorretto io direi
la storia dell’India o del pensiero religioso indiano è esso stesso un fatto
storico che io rispetto c’è un momento in cui il mondo occidentale ha guardato
al mondo indiano cercando certe cose facendosele dare facendosi rassicurare
costruendo una propria identità utilizzando il materiale indiano preso e usato
ai propri fini quello che non mi sta bene di Eliade, io tanti anni fa ho scritto
un saggio su Eliade un breve saggio che magari sta anche qui in biblioteca, in
un convegno fatto a Roma su Eliade mi è stato chiesto di esaminare appunto il
contenuto di Eliade sul tantrismo che apparentemente è una delle autorità
conosciute, io in quell’occasione mi sono letto non soltanto i contributi di
Eliade ma mi sono letto anche i diari di Eliade e altre cose di carattere
metodologico eccetera il giudizio mio di studioso del tantrismo sul contributo
di Eliade è molto severo, in questo articolo c’è una specie di dialogo ideale
tra me ed Eliade ovvero io che gli faccio certe rimostranze e lui che mi
risponde e io mi faccio rispondere con le parole che lui ha usato nell’uno o
nell’altro testo **** e quello che salta fuori intanto quello che rimprovero a
Eliade questo c’entra poco con la sua domanda però in questo campo tu devi
accedere alle fonti e questo va bene per tutti i campi io parlo da filologo
intendendo la filologia come si diceva ieri nel senso più ampio quindi la
filologia è quella scienza che ti permette di occuparti di testi utilizzando una
serie di strumenti i quali non sono solo strumenti di tipo estrinseco come fa il
filologo che si mette lì con tutto il suo apparato che poi alla fine non ci
capisce niente non è in grado di elaborare filosoficamente il testo che lui ha
stabilito poi ci si chiede anche se tu il testo non lo capisci profondamente
come fai a stabilirlo e questo si vede tornando all’americano di prima lui ha
stabilito un testo che non ha capito per cui l’ha stabilito malissimo perché gli
mancava quella elaborazione filosofica e quella consapevolezza filosofica che ti
permette di entrare nel testo, Eliade ha rinunciato a conoscere il sanscrito
anche se lui fa finta nelle sue opere di conoscere il sanscrito ma fa solo finta
lui non ha mai citato un’opera che non sia stata tradotta da qualcuno, nel
diario lo dice espressamente tra le righe ma non nelle opere scientifiche nel
diario dice io ero andato in India per conoscere il sanscrito apprendere le
scritture poi ha detto c’est
un ocean è
un oceano io non ce la faccio non ce la faccio lui si ritrae e dice preferisco
leggere i testi interpretare i miti allora uno si chiede bello mio tu vuoi
leggere i testi ma per uno che non sa il sanscrito leggere i testi interpretare
i miti che cosa vuol dire occuparsi di quello usare il materiale predigerito da
altri ma uno studioso può fare una cosa del genere? Altra domanda lui ha una
intolleranza quasi di tipo fisico nei confronti della filologia quello che gli
offre le sponde a Eliade è che il filologo per lui è una specie di ape operaia,
ape operaia la quale prepara del materiale che gli ****** elaborano ecc. ecc.
quello che rispondevo è che lui faceva un esempio con una ******** una cosa
molto carina, che fa tutti gialli ambientati in una Oxford molto rassicurante
ecc. e c’è una frase di ****** che parla dell’ape che prepara il miele affinché
qualcun altro lo mangi capito e quello che io rispondevo a Eliade in questo
dialogo ideale caro Eliade tu sei un studioso della storia delle religioni non
ti chiedo di padroneggiare tutte le filologie dato che tu ti occupi di questo di
quest’altro ma almeno una perché padroneggiare una filologia ti permette di
avere la sensazione della densità del messaggio scritto alla fine noi ci
occupiamo di testi scritti diciamo di testi scritti o non scritti la filologia
anche una sola filologia ti permette proprio di percepire una volta per tutte la
densità dei testi e la delicatezza con la quale vengono usati, il modo in cui ci
puoi entrare dentro non come un elefante in un negozio di cristalli come fa
spesso lui terza e questa è più vicino alla risposta alla sua domanda che cosa
vuol dire capire che cosa vuol dire capire un fenomeno religioso che cosa vuol
dire capire in generale io me lo sono tante volte chiesto che cosa vuol dire
capire ad esempio capire vuol dire ridurre un qualcosa di individuale a qualcosa
di generale? Questa è un’ipotesi possibile o è soltanto un momento io alla fine
per capire ho dato una risposta mia dopo essermi quasi arreso davanti a che cosa
voglia dire capire poi ho pensato che forse per la mia storia personale capire
vuol dire esaminare una serie di fatti questi fatti sono apparentemente irrelati
una specie di caos che tu hai davanti capire vuol dire ricostruire la struttura
nascosta di cui questi fatti partecipano vedere come quel giochetto vi ricordate
da bambini c’era Pinocchio, tu spingevi da sotto e Pinocchio s’afflosciava se
lasciavi Pinocchio saliva su quindi capire per me come risposta provvisoria è
individuare una struttura che dia un significato a fatti apparentemente irrelati
quindi quando io scrivo qualcosa miro a questo presento tutta una serie di fatti
li interpreto li descrivo poi nella fase finale presento al mio lettore il modo
in cui questi fatti possono animarsi vivere all’interno di una struttura
comunicante quello che rimprovero a Eliade non è tanto il fatto di individuare
sempre strutture comuni archetipi quanto a non considerarli come un vero
strumento di interpretazione dell’unico reale che è il reale storico cioè il
momento in cui tu davanti a una molteplicità del reale hai messo in evidenza
questi modelli archetipi come li vogliamo chiamare questo dovrebbe essere il
momento penultimo non l’ultimo lui alla fine sta sempre a crogiolarsi nella
contemplazione di questi archetipi che ha tirato fuori la realtà non è fatta di
archetipi è fatta di dimensioni individuali dei quali partecipano gli archetipi
il momento successivo dev’essere quello una volta che tu hai individuato la
dimensione condivisa il modello la dimensione archetipica ritornare alla realtà
storica individuale animarla della consapevolezza di questa realtà condivisa che
ha con tante altre cose ma assaporarla in quella che è la sua dimensione quello
che lui non fa è proprio darti il senso dell’assaporamento delle infinite
risposte che l’essere umano ha dato a problemi che hanno sicuramente una
dimensione condivisa ma hanno anche tutta la serie di soluzioni personali
individuali storicamente individuate, per fare questo però tu hai bisogno anche
nel caso dell’India del tantrismo di accedere ai testi se tu continui a leggere
quello che t’ha detto ******* quello che t’ha detto… come fai, al tempo in cui
Eliade ha scritto Yoga.
Essai ecc. e
testi successivi negli anni ’30 ’40 ecc. i testi della kashmir series [K.S.T.S.
Kashmir Series Text and Studies] sullo śivaismo kashmiro erano belli che letti
erano uscite già monografie importanti è vero che lui a Calcutta ha preferito
insidiare la figlia sedicenne dell’ācarya di
Dasgupta piuttosto che imparare il sanscrito non dico che abbia fatto male
insomma no ma poteva fare l’uno e l’altro e invece lui si è buttato sulla povera
figlia di… e Dasgupta giustamente l’ha preso a calci nel sedere però non c’era
mica solo Dasgupta il sanscrito lo poteva imparare in qualche un altro modo
c’aveva una borsa due anni è andato lì invece poverino si è spaventato davanti
all’oceano del sanscrito si è spaventato ma cambia mestiere…
D. Su un testo di Abhinavagupta se viene commentato
R. Non viene commentato nel senso che è presente un commento il commento si
chiama ****vārtika alMālinīvijayottaratantra questo
è uno dei testi più importanti di queste scuole, Abinavagupta lo tiene in gran
conto e gli dedica un commento molto difficile un commento in versi che è una
delle opere più interessanti e anche meno note di Abhinavagupta *********** usa
queste espressioni e nell’usare queste espressioni lui fa riferimento a come ci
ha insegnato il maestro il problema è chi sia questo maestro quindi lui mette in
relazione questa pratica della anādara
virakti all’insegnamento
di un certo maestro e io ho un forte sospetto che questo maestro sia Vāmanadatta
il quale è l’autore di una operetta veramente inusuale nel panorama anche del
tantrismo che io ho edito e tradotto un’opera kashmira del X secolo precedente
ad Abhinavagupta questa opera si chiama Svabodhodayamañjari che
trovate anche tradotta in italiano però anche prima della mia edizione nella
traduzione di Raniero Gnoli come appendice al Vijñānabhairava e
questo Svabodhodayamañjari che
vuol dire io mi sono preso il gusto di tradurre i titoli dei testi sanscriti
leggere il testo senza conoscerne il titolo non c’è gusto in questo caso è “Il
mazzolino di fiori del sorgere della propria intima coscienza” è un gruppetto di
versi un’opera breve e che presenta che cosa dice all’inizio si attacca contro nirodha e virakti io
voglio presentare un altro modo di fare distacco eccetera e si mette a
descrivere delle cose stranissime in cui noi vediamo che i sensi le facoltà
sensoriali vengono arruolati contro la mente quindi tutto ciò che è emozione
sensazione e passione viene utilizzato per creare una sorta di spazio
all’interno della mente che induca la mente o a cancellarsi o a ritirarsi dietro
le quinte e quindi la scena viene occupata interamente da fattori emozionali
dilatati è un ribaltamento che può portare anche a una vera e propria
cancellazione anche se... io ho fatto un corso a Roma dedicato ai maestri yoga
una serie di lezioni sulle parole chiave dello yoga perché chi pratica lo yoga
ha sempre a che fare con citta
vṛtti nirodha samādhi ecc.
che sono tradotte nei modi più vari uno di quelli come potete immaginare mi stia
proprio sulle scatole è la traduzione che ha coniato Eliade, pure Eliade il
sanscrito non lo sai che ti inizi a fare…, traduzioni creative enstasi una
traduzione più cretina (D. però Raniero Gnoli la riconosce) fa malissimo, e
anche Corrado Pensa in una sua traduzione dove ci sono tra l’altro anche diversi
errori, io ho tradotto tutte queste parole chiave, tradurre estasi vuol dire non
aver capito niente della dinamica della parolasamādhi proprio
all’interno della… come ci siamo regolati con le parole chiave all’interno degli Yogasūtra…
primo le parole non esistono da sole le parole esistono all’interno di un
discorso di un contesto che è il contesto degliYogasūtra il
contesto di Yogasūtra è
un contesto più ampio che è formato da Yogasūtra più
il bhāṣya i
quali vivono in simbiosi allora tutte queste parole all’interno del complesso Yogasūtra e Bhāṣya i
quali non vivono nelvacuum ma
vivono all’interno del lessico più esotico e religioso dell’India e allora
bisogna esaminare queste parole all’interno del generale lessico filosofico
dell’India il quale a sua volta non vive nel vacuum ma
è circondato dall’uso letterario dall’uso verbale solo dopo che tu hai esaminato
tutti questi livelli questo sasso nello stagno man mano si amplia sei in grado
di ritornare e sentire tutti gli echi presenti all’interno della parola vi
assicuro che la coniazione di questo estasi io vi assicuro e ancora mi
meraviglio che venga coniato ripetuto e tornando al testo di cui si parlava
questo testo presenta un modo diverso di creare il nirodha che
viene tradotto generalmente come soppressione eliminazione ecc. non vuol dire
soppressione eliminazione perché se noi parliamo di soppressione e eliminazione
noi andiamo verso una dimensione molto specifica che è quella (cita un testo
medievale sullo yoga) della liquidazione della mente lo Yogasūtra non
vuole assolutamente liquidare la mente ma vuole creare un blocco nirodha inteso
come un blocco un blocco di qualcosa ma non cancellando le né le vṛtti,
le vṛtti rimangono
non vanno cancellate la mente non va eliminata nello yoga ci mancherebbe altro
quindi in questo caso sono operazioni non di soppressione della mente ma di
ampliare il palcoscenico della mente facendo uscire di scena quelli che sono gli
usuali fattori e mettendocene degli altri questi altri sono messi in maniera
estremamente sofisticata utilizzando i sensi i sensi che sono considerati nel
mondo indiano capito il senso oddio bisogna controllarli leggiamo la Kāthopaniṣad e
qui i sensi nel mondo śivaita non sono dei cani in chiesa i sensi sono
semplicemente la forma in cui la divinità la potenza si manifesta le kālī divine
sono potenze dei sensi quindi l’udito è una dea capito la dea si nutre si suoni
in questo caso la vista è un’altra dea ancora che si nutre di immagini quindi in
tutto questo noi non dobbiamo scartare un bel niente dobbiamo utilizzare il
materiale energetico immenso che noi abbiamo e non considerarlo una specie di
scarto da buttare nel cestino dell’esperienza quindi questo senso questo anādara è
utilizzare queste cose in maniera di lasciarle fluire non solamente in maniera
pragmatica ma proprio utilizzando del materiale che noi altrimenti sprechiamo
avendolo a disposizione.
D. Lei ha accennato al tema della parola anche dell’emanazione fonematica
dell’universo perché ci sia il suono ci vuole qualcuno che lo ode il suono non
esiste come oggetto di una percezione quando si parla della parola che viene
identificata con la divinità e con la realtà e con il cosmo stesso ma in quanto
suono questa parola è oggetto della percezione di chi di cosa?
R. La parola udibile come sai è soltanto l’ultimo livello del linguaggio quindi
noi tendiamo a considerare il linguaggio in ultima analisi come linguaggio
udibile ma l’India lo considera come ben sai in modo più ampio il linguaggio
udibile è l’ultima spiaggia. Nei Veda il famoso verso che ci dice che il
linguaggio è formato da tre dimensioni tre piani delimitati della parola i quali
sono nascosti nella caverna e non vibrano, non date retta alle traduzioni di engayanti che
è sbagliato perché engayanti è
intransitivo in quel contesto è naingayam e
soltanto il quarto è udibile voi immaginate questa parola e ci accorgiamo che
nell’universo della parola per tre quarti è inudibile e a noi ci tocca soltanto
nelle nostre umane transazioni il quarto livello tutto il resto rimane udibile
come struttura interiore ecc. per cui l’elemento suono viene indagato il
linguaggio poi alla fine la nostra comunicazione è fatta di suoni però viene
dato molto più rilievo alla dimensione pre-sonora del linguaggio che fa parte
del linguaggio che è antico così quanto ne fa parte la dimensione sonora una
delle cosa che ci ha insegnato già la speculazione linguistica indiana e la
riprende invece il tantrismo e l’articolazione sul mantra e sul cosiddetto prāṇuccāra e
che non esiste una differenza sostanziale ma questo lo sapevano già in tempi
remoti tra soffio vitale e suono quindi il momento in cui comincia a sorgere in
noi il desiderio di esprimere qualcosa della comunicazione quindi secondo gli
indiani la parola non nasce in bocca come sembra anche dalla terminologia
indiana e indo-europea per cui pro-nunciare ovvero pro in avanti le parole che
indicano in India pronunciare hanno tutte questo famoso ut davanti uccarana è
un andare verso l’alto non andare davanti che cosa vuol dire andare verso l’alto
vuol dire che il momento in cui nasce la parola è la pancia quindi la parola non
nasce in testa non nasce in bocca nasce molto prima nasce in una sorta di
rimescolamento interiore che coincide con un desiderio un desiderio di
comunicazione che ti nasce per l’appunto in pancia è in pancia che agisce vivakṣā il
desiderio di esprimersi che mette in movimento una colonna una colonna che è
fatta di prāṇa di
energia vitale è quella lì che si manifesterà poi nel soffio ecc. man mano che
il prāṇa sale uc in
alto dentro di noi questa energia vitale vira verso la sua dimensione di suono
quindi suono e energia vitale è la stessa cosa soffio e suono sono la stessa
cosa quindi quando si tratta di questo, di questo punto si indaga anche nella
dimensione sonora dopo però aver indagato la dimensione prāṇica la dimensione
proprio energetica fisica dei suoni soltanto a questo punto si può parlare di
suono udibile e una delle tante cose veramente incredibili che vengono fuori da
questi testi è come i fonemi… noi siamo abituati a sentire i fonemi come
fenomeno ultimo quindi il mattone del linguaggio ecc. ecc. vi andate a leggere
il Parātṛśikāvivaranaṃ vengono
fuori delle cose veramente dell’altro mondo in cui vabbè il discorso diventa
complicato troppo complicato per farlo in questo scampolo di tempo diciamo alla
fine che c’è un’espressione che si trova nel Tantrāloka che
si chiama varna
saṃvid come
tradurla? Coscienza fonematica che cavolo significa coscienza fonematica lo si
capisce dal Parātṛśikāvivaranaṃ vuol
dire in sostanza che il linguaggio a un livello ancora molto pre-suono che cos’è
in realtà è l’ossatura stessa della coscienza per cui la coscienza contiene al
suo interno una dimensione una struttura fonematica che ne costituisce che cosa,
ne costituisce il dinamismo quindi la coscienza è dinamica quindi non è una cosa
che sta lì a gambe spalancate con gli occhi spalancati immaginiamo un assoluto
che sta lì immobile eccetera la coscienza è come divorata dai fonemi che ha
dentro questo lo dice chiaramente Abhinavagupta per chi lo sa cogliere quindi i
fonemi il linguaggio nella sua dimensione non udibile sono una specie di bomba
ad orologeria buttata nella pancia della coscienza se la coscienza è attiva è
perché ha questa presenza indigesta in qualche modo dei fonemi al suo interno
che ne determina il continuo turbamento e la continua attività e in ultima
istanza rappresentano la sua dimensione energetica ecco questo l’ho analizzato
anni fa in un articolo sul giornale dei filosofi si vede che man mano che si
sale verso l’alto in queste scuole tutto quanto tende a unificarsi tutto si
unifica si arriva a principi sempre più ampi si vede che quando si arriva più in
alto il linguaggio non si comprime è l’unica cosa che rimane non compressa
tutt’al più viene ammassata in una di quelle divinità alfabetiche di cui vi
dicevo prima viene contratta gli spazi vengono eliminati in parte ma non ridotti
all’unità perché il linguaggio è intrinsecamente molteplicità è molteplicità
altrimenti non potremmo usarlo, il linguaggio è fatto di differenze e fatto di …
quindi il fatto che stia all’interno della coscienza è il motore che permette
alla coscienza di negare se stessa e di esprimersi dinamicamente, ecco il
linguaggio è analizzato anche in questi… avrei molte altre cose da dire su
questo….
Prof. RIGOPOULOS
Vorrei ringraziare moltissimo il prof. Torella che ci ha dato vismaya
camatkāra stupefatto
assaporamento di quasi tre ore, siamo stati sākṣin e
al tempo stesso all’interno delle sue parole immersi nella sua conversazione da
sentirci completamente partecipi di quello che ci veniva insegnato e di questo
gli sono e gli siamo tutti profondamente grati.
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registrazione e sbobinatura:
purnananda@virgilio.it
oṃ śrīgaṇeśāya namaḥ
Da:
http://www.purnanandazanoni.com/346ivas363tra.html
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