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Introduzione di Boris Marjanovic al
Gītārtha-saṃgraha - Il commento di Abhinavagupta alla Bhagavad Gita
(trad. di Purnananda Zanoni)
Lo studio del Sanscrito e della filosofia Indiana è stato da sempre la mia
aspirazione. Fin dall’inizio ho cercato di dare la stessa importanza sia alla
comprensione intellettuale che all’esperienza come risultato della pratica.
Da quando come dottorando della Iowa University ho “scoperto” Abhinavagupta, ho
sentito l’urgenza di capire, comprendere e interiorizzare i suoi insegnamenti.
Ero attratto dalla lucidità e raffinatezza del suo pensiero. La sua chiara
esposizione nel puntualizzare con poche parole tutta la profondità
dell’esperienza spirituale è tuttora insuperata. Le sue parole mi indussero a
tentare di conoscerlo a livello del nucleo più profondo del mio essere.
Tuttavia, fin dall’inizio mi sono scontrato con le difficoltà insite nello
studio di Abhinavagupta e della filosofia dello Śivaismo del Kashmir nel suo
complesso.
Intanto diciamo che la maggior parte delle opere di Abhinavagupta non sono
ancora state tradotte, e per leggere i testi originali è necessario essere in
possesso di ben più di una buona conoscenza della lingua sanscrita. È richiesta
come minimo la conoscenza dei sei sistemi della filosofia indiana, del
buddhismo, del Tantra ecc. Inoltre, gli scritti di Abhinavagupta sono
innumerevoli e straordinariamente complessi; pertanto la sua comprensione non
dipende solo dall’apprendimento intellettuale del sistema filosofico [lo
Śivaismo del Kashmir], ma anche dall’esperienza che si acquisisce per mezzo
della pratica dello Yoga Śivaita. Abhinavagupta chiarisce questo aspetto in più
d’uno dei sui testi. Qui nel Gītārtha-saṃgraha [compendio
a proposito della Gītā] egli scrive:
“Questi due percorsi possono essere acquisiti con la pratica dello yoga interiore.
Questo non è il contesto, tuttavia, per spiegare questo aspetto in
dettaglio, in quanto ingrosserebbe troppo il volume di questo libro. È
sufficiente sapere che ogni percezione esterna del tempo frammentato appartiene
alla sfera del tempo interiore (ābhyantara
kāla).
Per capire meglio questo concetto è necessario praticare lo yoga.
(8.27)"
Ero arrivato a Benares (Varanasi) per la prima volta nel 1996, cercando ben
presto di familiarizzare con la città e iniziando lo studio del Sanscrito con
docenti che seguivano il metodo d’insegnamento tradizionale. È allora che ho
intuito le molteplici opportunità offerte da questa città per chiunque
interessato allo studio della filosofia indiana e del Sanscrito. Dopo questa
prima esperienza mi sono trasferito a Banaras e mi sono immerso nello studio
degli śāstra con
importanti pandit di questa città di antichi insegnamenti. Questo libro è il
prodotto di quegli studi ed è pensato sia per gli studiosi che per i ricercatori
spirituali. Il mio sincero auspicio è che questa traduzione sarà d’aiuto per
coloro che, interessati a questo argomento, desiderano fare maggiore chiarezza
nella comprensione della Gitā come lo ha fatto lo studioso e yogin Abhinavagupta.
Il Gītārtha-saṁgraha
Prima di tutto vorrei segnalare che questa traduzione della Gītā in alcuni punti
è diversa dalle altre traduzioni [in inglese]. La ragione di ciò è che la
Bhagavad Gītā kashmira utilizzata da Abhinavagupta per il suo commentario è
diversa dalle altre versioni. Intanto perché contiene quindici versetti in più,
alcuni tra i più interessanti di questi si trovano nel Capitolo 2, versi 11 e
50, e nel Capitolo 3, versi 38-42. In aggiunta a questo, una buona parte di
versi della versione kashmira risultano differenti sia dall’edizione vulgata che
da quella critica. Il lettore è pregato di prestare attenzione a queste
differenze in quanto in certi casi apportano significative alterazioni di senso
all’intero versetto. Inoltre, nella mia traduzione ho seguito fedelmente il
commento di Abhinavagupta e il significato che egli ha dato alle parole e alle
varie espressioni. Per questo motivo la mia traduzione risulterà diversa dalle
altre versioni a fronte dello stesso verso nell’originale Sanscrito.
Nella sua opera Abhinavagupta (p.
60), K.C. Pandey sottolinea giustamente che il lettore di questo commentario
dovrebbe familiarizzare almeno con alcuni principi della filosofia dello
Śivaismo del Kashmir per meglio apprezzare il pensiero di Abhinavagupta. Qui di
seguito si è pensato di facilitare la comprensione di questo misconosciuto
sistema filosofico.
PRINCIPI FONDAMENTALI DELLO ŚIVAISMO DEL KASHMIR PRESENTI NEL COMMENTO ALLA
BHAGAVAD GĪTĀ DI ABHINAVAGUPTA.
La natura della
realtà ultima nello Śivaismo del Kashmir
Secondo lo Śivaismo del Kashmir la realtà suprema è prakāśavimarśamaya [composto
coordinativo (dvanva) suffissato dalla derivazione secondaria maya (lett.
“fatta di”): la natura ultima è fatta di prakāśa e vimarśa].
L’aspetto dell’illuminazione (prakāśa)
riguardo alla realtà ultima è la pura luce della coscienza, che è oltre la
creazione. Tuttavia, al tempo stesso, prakāśa è
presente ad ogni livello della creazione manifesta. Vimarśa è
la presa di coscienza, l’auto-consapevolezza [riflessa] di questa illuminazione,
per merito della quale si ha la consapevolezza di se stessi ad ogni livello
della creazione. Per la sua esistenza, vimarśa non
è dipendente da alcunché al di fuori di se stesso. Come tale gode di assoluta
libertà e vi si può anche riferire come svātantrya.
Nel processo di espansione della coscienza śivaica, la creazione, vimarśa dà
luogo alle śakti: icchā, jñāna e kriyā,
che a loro volta portano ad esistenza la creazione. Pertanto, secondo lo
Śivaismo del Kashmir questo universo è reale e non un’illusione come afferma l’Advaita
Vedānta. Questa è una delle maggiori differenze tra lo Śivaismo del Kashmir e l’Advaita
Vedānta. Swami Lakshmanjoo spiega così la differenza tra i due sistemi:
"Il Vedānta sostiene che questo universo non è vero, è non reale. In realtà non
esiste. È solo la creazione di un’illusione (māyā).
Riguardo a questo punto lo Śivaismo del Kashmir oppone che se il Signore Śiva è
reale allora come potrebbe una sostanza priva di realtà venir fuori da qualcosa
che è reale. Se si ammette che il Signore Śiva è reale la Sua creazione è pure
reale. Perché si dovrebbe dire che il Signore Śiva è reale e la Sua creazione è
un’illusione (māyā)?
Lo Śivaismo del Kashmir spiega che l’esistenza di questo universo è altrettanto
reale quanto l’esistenza del Signore Śiva. Come tale è vero, reale, puro, e
sostanziale. Non c’è nient’altro oltre a Lui che sia non reale. (Kashmir
Śaivism: The Secret Supreme,
p. 106)"
Il processo della
creazione
Secondo lo Śivaismo del Kashmir, la creazione dell’universo è il riflesso
apparente di qualcosa che già esiste nella coscienza di Śiva. Swami Lakshmanjoo
descrive così questo processo:
"Nel mondo ordinario il suono all’esterno si diffonde nell’etere e all’interno
nell’orecchio. Il tatto all’esterno si manifesta nell’aria e all’interno nella
pelle. La forma al di fuori si riflette come fuoco nello specchio e all’interno
negli occhi. L’odore all’esterno è riflesso nella terra e all’interno attraverso
il naso. Tuttavia, questi sono come riflessi in uno specchio e sono sempre
percepiti separatamente. Tutti i cinque riflessi non sono riducibili tutti
insieme a un unico riflesso complessivo, ma solo uno alla volta. Nello specchio
si riflette una forma. Il tocco non può essere riflesso in uno specchio né lo
può il gusto, l’odore o il suono. Lo specchio può riflettere solo la forma. È
solo nella Coscienza Suprema di Dio che si riscontrano tutti e cinque i riflessi
in uno. Infatti, per quanto questi riflessi siano percepiti separatamente
dall’organo apposito, la vista dall’occhio, il suono nell’orecchio, ecc. questi
riflessi non potrebbero essere osservati se non ci fosse la coscienza. La
consapevolezza è necessaria e ciò si trova nella coscienza, non negli organi.
L’universo, pertanto, è riflesso nello specchio della coscienza e non negli
organi o nei cinque elementi grossolani, che sono solamente dei tattva e
non possono riflettere alcunché. Quello che è il riflesso (bimba)
di fatto è lo svātantrya.
L’intero universo è il riflesso dello svātantrya all’interno
della Coscienza divina. Non esiste alcuna classe di oggetti al di fuori di
questo mondo che Egli rifletta nella Sua natura. L’elemento esterno che viene
riflesso non è nient’altro che svātantrya.
L’indefinita molteplicità della creazione non è che l’espansione di svātantrya.
(Kashmir
Śaivism: The Secret Supreme,
p. 29-30)"
La teoria della
causalità (kāryakāraṇabhāva)
Nell’ambito della filosofia indiana ci sono due principali teorie della
causalità, il sadkāryavāda sostenuto
dai seguaci del Sāṁkhya e
l’asadkāryavāda sostenuto
dai seguaci del Nyāya.
Il nucleo delle tesi sostenute dalle due scuole è se l’emanazione prima della
sua creazione ha la natura dell’esistenza o della non-esistenza. In altri
termini, se l’effetto esiste intrinsecamente nella sua causa (sadkāryavāda)
oppure emerge dalla non-esistenza (asadkāryavāda).
In senso lato, la posizione dello Śivaismo del Kashmir su questa particolare
questione apparentemente coincide con la posizione del Sāṁkhya.
Questo perché secondo lo Śivaismo del Kashmir l’effetto, cioè l’intero universo,
anche prima della creazione esiste già in forma immanifesta nella coscienza del
creatore. Tuttavia, ci sono delle importanti differenze tra le due scuole. Gli
śivaiti ravvisano due evidenti errori nella visione del Sāṁkhya. Il primo è che
causa ed effetto, che secondo il Sāṁkhya esistono in un rapporto di identità
nella differenza (tadātmya),
non trovano una giustificazione logica, in quanto la causa e l’effetto, cioè il
seme e un albero, non possono esistere contemporaneamente.
Il secondo errore è che il Sāṁkhya non
può spiegare come l’effetto viene prodotto dalla Prakṛti,
che secondo questa filosofia è insenziente (jaḍa).
E allora i pensatori śaiva propongono la loro teoria sostenendo che l’intera
creazione è la manifestazione della coscienza assoluta messa in movimento dalla icchāśakti,
la divina volontà del creatore. Dunque, quando un vasaio crea una pentola, si
tratta di quella stessa icchāśakti,
che è la stessa coscienza agente attraverso il vasaio, il quale è egli stesso
parte della stessa coscienza. Inoltre, è quella stessa coscienza che è
considerata la sorgente ultima dei mezzi impiegati nella produzione della
pentola: il materiale della pentola e il vasaio che l’ha creata. Pertanto,
secondo questo sistema, sia la causa che l’effetto sono gli effetti finali della
coscienza suprema, che ne è la causa ultima.
Jñāna-karma-sammuccayavāda
Secondo l’Advaita Vedānta, l’azione (kriyā)
è un segno di imperfezione e quindi non può appartenere alla realtà suprema. Gli
esseri viventi, privi di perfezione, compiono l’azione solo quando hanno bisogno
di adempiere o guadagnare qualcosa. Tuttavia, in nessun caso la mancanza di
qualcosa può essere presente nella realtà suprema. Perciò gli advaitini
attribuiscono un ruolo dominante alla conoscenza rispetto all’azione. D’altra
parte i filosofi dello Śivaismo del Kashmir sostengono che l’attività (kriyā)
di Śiva è la sua vera natura e concerne la sua assoluta libertà (svātantryaśakti).
Questo è perché l’azione da parte di Śiva non è diretta verso qualcosa o
qualcuno, in quanto non è funzione del risultato dell’azione (5:14). Pertanto,
seguendo i suoi predecessori, Abhinavagupta nel suo commentario sottolinea come
la Gītā insegna lo jñāna-karma-sammuccaya [la
liberazione per mezzo della conoscenza e dell’azione].
Pandit Chakravarti nella sua prefazione a questo libro, ha già affermato che
Abhinavagupta attribuisce all’azione e alla conoscenza la medesima importanza.
Questo si spiega in quanto sia l’azione che la conoscenza sono aspetti diversi
della stessa coscienza e non possono mai, a qualsiasi livello della creazione,
essere separati l’uno dall’altro. Per supportare questo punto di vista, Pandit
Chakravarti cita il passo del commento di Abhinavagupta al verso 14 del capitolo
5.
Tuttavia, nell’introduzione a questa traduzione del commentario di Abhinavagupta,
A. Sharma dice che Abhinavagupta critica la teoria dello jñāna-karma-sammuccaya facendo
riferimento al commento di Abhinavagupta al primo versetto del primo capitolo.
Questo passo, nella sua traduzione suona così:
"Quando viene affermato che la conoscenza è prioritaria e le azioni che
dovrebbero essere smesse o relegate in subordine alla conoscenza non sono un
ostacolo al mokśa,
si vuole dire che la conoscenza è predominante non essendo le azioni d’ostacolo,
e non che la conoscenza e le azioni possono essere posizionate su uno stesso
piano."
Tuttavia, a me sembra che se questo passo fosse letto attentamente, il suo scopo
non sarebbe di denigrare la teoria dello jñāna-karma-sammuccaya,
ma di enfatizzare che si dovrebbe compiere l’azione mentre si è fondati
stabilmente nella conoscenza. Questo in quanto solo l’azione compiuta da uno
yogin fondato nella conoscenza non determina un legame. Abhinavagupta ancora una
volta chiarisce questo aspetto in 2:52 e 3:2.
“L’attimo finale”
quando si lascia il corpo
In diversi punti del suo commentario (8:5,6,7 e 8:14,26,27) Abhinavagupta dà una
lunga esposizione sulle particolarità del “momento ultimo” quando l’anima lascia
il corpo.
All’inizio, Abhinavagupta sottolinea che qualunque fosse l’oggetto di
meditazione (durante tutta la propria vita) quello stesso oggetto si consegue al
momento di lasciare il corpo. Tuttavia, una presa di distanza dalla maggior
parte dei commentatori è che, secondo Abhinavagupta, non è necessario tenere
presente questo pensiero nell’ultimo istante in cui si lascia il corpo. Ad
esempio, uno yogin che ha meditato su Dio lungo tutta la sua vita raggiunge la
realtà suprema sia che egli nell’ultimo istante abbia in mente Dio oppure no. La
ragione di ciò è che la meditazione su Dio, ecc. (lungo tutta la vita) determina
una profonda impronta, che nell’ultima fase blocca l’interferenza di altre
impressioni mentali meno potenti che gli impedirebbero di realizzare Dio. Ciò
accade a chi muore prematuramente ad esempio a causa di un incidente. Anche una
persona così raggiunge l’obiettivo agognato per tutta la vita. Abhinavagupta
descrive l’ultimo istante in questo modo:
“Il vero momento in cui si lascia il corpo, che non è percepibile da nessun
altro nemmeno dai parenti, e avviene subito dopo un respiro pesante, un colpo di
tosse o la perdita di forza degli arti, è vuoto di esperienze quali felicità,
tristezza o delusione tipiche del corpo.”
A questo punto Abhinavagupta ribadisce rispondendo egli stesso alla seguente
domanda: cosa accade se al momento della morte uno si ricorda di suo figlio,
della moglie, o altro parente oppure della bibita fresca che gli piaceva tanto?
Questo significa che il morente si identificherà con la moglie ecc.? la risposta
che Abhinavagupta dà è che se uno è ancora in grado di ricordarsi di sua moglie,
del figlio ecc. allora è sicuramente ancora presente nel suo corpo. E quindi
cosa succede nel vero e proprio ultimo istante di vita?. Abhinavagupta spiega:
“Nell’ultimo vero momento (la persona che è stata sempre immersa in Dio) avrà in
mente Dio come conseguenza delle impressioni mentali createsi meditando
assiduamente e diventerà unito con Parameśvara [Śiva],
in quanto diventa libero da ogni legame e coinvolgimento nel tempo. (8:5,6,7)”
Alcune importanti
caratteristiche proprie dello yogin descritte nella Gītā e commentate da
Abhinavagupta.
Uno yogin che non ha ancora raggiunto la perfezione ed è ancora impegnato nella
pratica yogica è chiamatotapasvin.
Sebbene un tapasvin sia
libero dall’attaccamento agli oggetti esterni, egli è ancora mentalmente
attaccato ad essi (2:61). In altri termini, la sua mente, preda dei desideri, è
sopraffatta dalle esperienze degli oggetti stessi e quindi il suo obiettivo è
conquistare la sua mente. (2:62)
Il consiglio di Abhinavagupta al tapasvin è
di non ritirarsi dal mondo ma di godere degli oggetti dei sensi mentre nello
stesso tempo continua a rimanere nella sua pratica di meditazione profonda. I
sensi in questo contesto rappresentano gli dei che hanno bisogno di essere
soddisfatti e che quando vengono purificati portano alla liberazione (4:34).
Abhinavagupta scrive:
“Dunque, lo scambio continuato delle due esperienze antinomiche, cioè la
gratificazione dei sensi, che dà soddisfazione, e il samadhi,
nel quale gli organi di senso sono risolti nel proprio ātman,
conduce rapidamente al più alto bene in quanto queste due esperienze si
sostengono reciprocamente. (3:11)"
Inoltre, uno yogin non è impegnato nell’azione mondana per ottenere un profitto
ma offre i frutti delle sue azioni a Dio e rimane implicato nel mondo essendo
questa la natura dei sensi. Tuttavia, uno yogin è consapevole che i sensi non
sono la sua reale natura e pertanto non gli creano ondate di rabbia (2:72). Un
tale yogin realizza:
"Come posso (io che sono identico all’ātman)
essere coinvolto dagli organi di senso, anche nel momento in cui sono impegnati
nella sperimentazione dei loro rispettivi oggetti? Come può l’azione compiuta
dagli organi di senso, che sono del tutto differenti dal mio sé, coinvolgere me
che sono uno con l’ātman?
Questo stato di realizzazione tecnicamente è definito: resa delle proprie azioni
al Brahman (5:19)."
Tuttavia, Abhinavagupta chiarisce che la resa di tutto a Dio è possibile solo
quando si perviene all’identità con Dio mediante la meditazione. Altrimenti,
“Come è possibile offrire i frutti delle azioni a Dio, se la natura di Dio
rimane nascosta? (12:12)"
Come risultato della pratica continuata uno yogin è in grado di bloccare le
impressioni mentali ordinarie ottenute dal contatto con il mondo esterno (5:27).
Alla fine, egli diventa così perfezionato nella sua pratica che gli è possibile
eliminare quelle impressioni nello stesso momento in cui è impegnato nello
sperimentare gli oggetti (11:18).
Uno yogin pienamente realizzato è libero da attaccamenti grazie all’esperienza
della realtà suprema (5:19). Inoltre, per questo yogin la distinzione delle
persone in amici, nemici ecc. appare solo esternamente, mentre interiormente è
permanentemente stabile nel Brahman (5:20). Da ultimo non vede differenze tra se
stesso e gli altri esseri viventi (6:7). Nella sua attività giornaliera le
azioni di uno yogin realizzato sono apparentemente uguali alle azioni di una
persona normale. Tuttavia ci sono importanti differenze. Abhinavagupta scrive:
“Uno yogin pienamente realizzato non pensa in cuor suo: “Otterrò meriti servendo
un brāhmaṇa. Non crede che una mucca sia pura né si sofferma sul pensiero che
possedendo un elefante gli porterà abbondanza. Lo yogin non crede che un cane è
impuro e gli potrebbe nuocere. Nella mente di un simile yogin anche un
intoccabile non è impuro e peccatore. Egli guarda a tutti gli esseri viventi
come esseri identici. Tuttavia, egli non sarà obbligato ad agire in questo modo.
(5:19)”
Lo yogin non deve agire solo in base al suo intuito ma deve seguire le regole
della società in cui vive.
Secondo Abhinavagupta, l’unico motivo per questo yogin di rimanere impegnato
nell’attività è di istruire la gente. Inoltre, “Se colui che avesse già
raggiunta la perfezione non compiesse alcuna azione, allora potrebbe prevalere
il caos nella società. La ragione è che la gente non seguendo saldamente il
percorso e non essendo ferma nella fede (in questo percorso) ne viene travolta.
(6:5)”
[per
gentile concessione dell'autore che qui si ringrazia]
Da:
http://www.purnanandazanoni.com/g299t257rtha-sa7747graha.html
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