La grazia (Eric Baret)

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La grazia (Eric Baret)


 

3ème Millénarie n.59
 

 

D: Dopo aver fatto l’esperienza di un certo silenzio, l’essere umano vorrebbe rimanere stabile nello stato di lucidità, ma osserva che non è possibile. Per questo si mette a leggere le scritture, a incontrare i saggi. Forse studia per anni, con un grande guru, medita, pratica il pranayama, yoga, modifica l’alimentazione, le sue abitudini, in breve, comincia quella che si chiama sadhana

Ma la mia esperienza e quella dei miei amici dimostrano chiaramente, che malgrado tutto, si arriva presto ad uno stato di saturazione e sembra che si ristagni per degli anni, o dei decenni. Come se la sete non fosse estinta. Forse si è trascurato qualcosa di essenziale? Potrebbe essere la cosiddetta “grazia”? E cosa è la grazia? Da dove viene? Come si muove? Ciò di cui possiamo parlare, ciò che possiamo capire, che proviene da qualche parte, non possiamo chiamarla grazia.

La grazia, secondo la Tradizione, non si basa su nessuna situazione oggettiva. Viene da sola, attraverso lei stessa. Non può venire da nessuna parte, salvo dal cuore. Non viene da nessuna attività, non può essere compresa dalla mente umana limitata. Non si può allora dire niente, tranne questo.

R: Per tornare all’inizio della domanda, avete fatto osservare giustamente che si ha dapprima l’intuizione e poi la sadhana.

L’intuizione non consiste nel vedere la nostra vera natura, che è impossibile, perché non si tratta di qualcosa di cui si possa mai fare l’esperienza: si tratta dell’intuizione di ciò che noi siamo. Vediamo molto chiaramente i nostri meccanismi, la nostra arroganza, le nostre paure, le nostre limitazioni, senza nessun dinamismo, per non cambiare nulla. Si affronta questo fatto: è un atto d’umiltà. Constatare il fatto, ciò che non siamo, è ciò che in Oriente si chiama l’intuizione di ciò che siamo.

Questo deve essere visto chiaramente, perché la maggioranza ha la fantasia di voler pensare o visualizzare l’intuizione di ciò che non siamo.

La sadhana non c’è mai stata, per il fatto che, almeno nella tradizione scivaita del Kashmir, non vi porta da nessuna parte, perché ciò che è apparso senza nessuna causa, senza nessuna sadhana non può venire da una causa. La prima intuizione è apparsa senza essere sollecitata, niente può farla tornare. E’ la vita che decide ogni processo. La tradizione del Kashmir vede nella sadhana una espressione di questa intuizione. Altrimenti è lo yoga in senso dinamico che è nel fondo di questo pensiero stupido, di questa fantasia democratica, secondo la quale il meno può raggiungere il più.

La sadhana è l’arte di esprimere il più nel meno, sul piano del corpo e della mente.

Ecco perché l’Oriente considera tutte le arti come una sadhana: la danza, la poesia, l’arte della guerra, l’arte dell’amore. In India, la musica è una sadhana per un musicista. Per un servitore, è l’attività, per una vedova, è la vita solitaria. Tutte le modalità della vita possono essere unasadhana, come una convinzione che la vita non consiste nel fare, conquistare, o ottenere nulla.

Ciò che è arrivato attraverso la grazia, non può ritornare che attraverso di lei. C’è stato un momento di disponibilità, l’evidenza è apparsa. Ma lo yoga sadhana non può mai ricondurvi ad essa. Il risveglio dell’energia e tutti questi piccoli fenomeni sono delle espressioni della coscienza a livello del corpo e della mente. Il piano dei fenomeni non può raggiungere la coscienza, ma può essere illuminato attraverso di lei: voi realizzate che il vostro corpo e la vostra mente non vivono all’altezza della vostra comprensione e delle vostre convinzioni. Realizzate a qual punto l’aggressività, la paura e il desiderio riempiono di strategie tutta la struttura del corpo e della mente. Allora, permettete consciamente al vostro corpo mentale di riflettere questa intuizione, e ciò vuol dire apertura, scoperta dello spazio interno. Ancora una volta, l’aspetto tecnico non è lì per creare questa apertura, è impossibile; questo fa parte della via progressiva. Si tratta di realizzare che non siamo aperti. Sentite fino a che punto il vostro corpo è teso e tacete. In questo silenzio, le tensioni corporee si svelano e si riferiscono al silenzio.

Vi rendete conto di quanto la vostra mente viva in un atteggiamento volitivo, di quanto viva nelle paure e nelle strategie. Senza giudicare, senza commentare, tacete. Nessuno richiede di amare o no questo, né di pensare che dovreste essere diverso. Vivete con il fatto. Vivo nell’arroganza, nella pretesa, tutto ha il suo posto in me, chiaramente. Non provo ad essere diverso domani. Vivo con le mie limitazioni. In questo stesso momento, quando si è chiaramente aperti al fatto, la limitazione si va lentamente dissolvendo nella apertura.

Non ci si può dirigere deliberatamente verso uno stato di apertura; non si può che constatare che questo stato è bloccato. Permettere dunque al vostro corpo mentale di diventare più aperto a questa convinzione, che non potete raggiungere niente e che state per morire completamente stupidi. Forse morirete tra un istante, allora non avete il tempo di raggiungere o di compiere una qualunque cosa. Nella sadhana vivete con la sensazione che morirete tra un minuto.  Non c’è perciò nessuna strategia; l’attività è compiuta per la stessa gioia di compierla.

Se vi si dice che morirete tra due minuti, che fate? Non fate niente. Non chiamate nessuno, non pensate a niente, non fate che gioire completamente della vista, della sensazione, dell’odorato, dell’udito. E’ l’ultimo secondo della vostra vita; siete in questa bellezza.

E’ in questo spirito che si compie la sadhana. Vi sedete con la gioia di sedervi, praticate lo yoga per la gioia dello yoga, cantate per la gioia di cantare. Non c’è tempo, la vita è troppo bella e passa troppo in fretta, per aver il tempo di compiere qualsiasi cosa. La più piccola intenzione (come fareyoga perché domani starete meglio) non funzionerà, morirete prima che vada meglio. Non si può fare che adesso. Andate al satsang perché attira ora. Vi date allo yoga perché la grazia vi tocca. Praticate il tiro con l’arco, cantate, ma mai con l’intenzione di arrivare a qualcosa. Tutto si compie per la sua propria bellezza. La vostra vita diventa la vostra sadhana. Non c’è niente nelle situazioni; esse hanno la loro propria bellezza, quando non domandiamo loro altro che quello che sono. Vivete in modo funzionale, senza scopo, senza intenzione. E’ il messaggio della Gita, quando Krishnadomanda a Arjuna di fare il suo dovere e di non ascoltare le sue pretese e le sue avversioni. Combattere i suoi parenti e i suoi maestri sul campo di battaglia di Kurukshetra non ha nessun significato particolare. Allora Arjuna lo fa perché deve essere fatto. Non c’è alcun futuro, alcuna intenzione; agisce in modo funzionale, molto semplicemente. Ecco cos’è la sadhana dal punto di vista della Tradizione.

 

D: Sembra che una tale grazia cada spesso su persone che non l’hanno mai cercata attivamente. Ci sono persone più qualificate di altre per ricevere la grazia o cade a caso sulle povere persone che non sono diffidenti?

R: Se sembra cadere a caso sulle persone, è perché non osserviamo bene. Le persone che vivono nella grazia, quelli che si chiamano maestri (poco importa quello che si vuol dire come questa parola) può sembrare che abbiano vissuto una vita molto semplice, ma penso che sia la loro umiltà, o la nostra mancanza di chiarezza che ce li fa vedere così. E’ anche la nostra mancanza di chiarezza che ce li fa vedere così.  E’ anche la nostra mancanza di chiarezza che fa si che non vediamo la leggerezza delle persone che, secondo le nostre fantasie, sembrano qualificate per la grazia.

Quelli che fanno grossi sforzi nella loro sadhana non vivono che in un divenire. Non fanno che vivere nella tensione, nella sete di divenire qualcosa, di diventare liberi. Nel desiderio, non c’è posto per altro. Desiderare di essere libero, essere ricco, essere bello, possedere un’auto rossa, è esattamente la stessa cosa. Le poche persone che hanno avuto l’audacia di descrivere la discesa della grazia hanno tutte detto che in quel momento erano semplicemente silenziose e tranquille. Jean Klein guardava degli uccelli sulla Marina Drive, a Bombay. Virgil s’è reso conto che non aveva nessuna urgenza di fare qualunque cosa. La grazia tocca unicamente nei momenti di non-sapere, di non-pretesa. Non può mai toccare in un momento d’aspettativa, d’attesa, in un momento dinamico. Chiunque avanzi verso la grazia, non può che incontrare i suoi propri limiti.

Per quelli che hanno l’umiltà di sentire quanto sono indegni di ricevere la grazia (perché vivono solo nella pretesa) e che realizzano la loro incapacità di fermare il dinamismo, questa visione chiara è in sé la grazia.

Non arriva niente.

Quando credo che, perché praticolo yoga, perché medito, perché faccio questo o quello, dovrei ricevere la grazia, non faccio che vivere nella mia pretesa. Certo, in un senso molto profondo, tutto è la grazia: cercare la grazia e cercare il denaro sono sottesi dalla grazia. Non dobbiamo cambiare le nostre vite: se si desidera praticare lo yoga; se si desidera guadagnare del denaro, si dovrà andare avanti. Osserviamo semplicemente che le nostre motivazioni derivano dalla nostra propria mancanza di chiarezza.

A un certo momento, non si domanda più niente all’attività. Si compie da sola. La grazia non è altro che questa evidenza. Non consiste nel vedere un elefante bianco o nel contemplare la figura diVishnu; consiste nel vedere le nostre pretese. Non si può essere altro che questo. E’ la visione ultima. Voler vedere Dio è un fantasia.

 

D: Ma allora qual è il valore degli sforzi? C’è una differenza tra passare il tempo con gli amici e guardare la televisione ed essere sattvici, vivere in un contesto molto puro e leggere le scritture? Questo fa una differenza in più dei conti?

R: Solo per chi proietta. Tutti i valori sono i nostro valori. Maharaj viveva in un contesto moltotamasico, mangiava carne  e beveva in libertà. Certi vivono negli ashram e sono molto puri, ma vivono nella paura e nell’attesa. Allora, le cose non hanno alcun valore. Per il vicino di un musicista, suonare il piano cinque ore al giorno è uno sforzo, ma per il musicista non lo è affatto. Se lo è, non è un musicista.

Chi pratica lo yoga e sa di praticare lo yoga, non fa yoga. Lo yoga non lascia nessun posto al sapere, non è che un sentire. Se vedete che fate uno sforzo per meditare, allora questo non ha senso. A un certo momento, lo sforzo è guardare la televisione, non meditare.

Le cose vengono naturalmente. Certi cibi vi attirano più di altri, certi amici vi attirano più di altri, certe musiche più di altre, certi spazi più che altri.

Tutto questo è del tutto funzionale e nessuna preferenza è superiore ad un’altra.

Per tante persone, il campo di battaglia è il luogo della grazia; è la che realizziamo la loro paura e di quale stoffa sono davvero fatti.

Per altri, è quello dove meditano. Ma il luogo della grazia è quello della non-volizione, della non-pretesa. Quando pretendiamo di fare degli sforzi, quando pretendiamo di essere gli autori dell’azione, non c’è posto alcuno per la grazia. Convinto che non c’è autore dell’azione, mi ricordo di praticare lo yoga o no. Mi accontento di assistere a quello. Se faccio yoga faccio yoga; se non lo faccio, non lo faccio. Come posso cambiare la mia vita? Non posso cambiare nulla. Osservo che sono chiamato  vivere sull’Himalaya, a vivere in un albergo, in un dancing. Pensare che è meglio l’uno piuttosto che l’altro, non ha assolutamente alcun senso. Non sono che stili di vita diversi. Abbiamo bisogno tutti di incontri differenti per arrivare alla maturità. Per questo, certi hanno bisogno di meditare, mentre altri hanno bisogno di darsi alla droga o di andare in guerra. Le nostre pretese di essere gli autori delle azioni, ci chiudono ad ogni grazia.

Non c’è nessun autore dell’azione tranne il Signore stesso. Quando vedo questo, io non sono niente; non c’è che il Signore. Allora si può dire che c’è l’intuizione della grazia. Pretendere che dovrei essere altrove che in un campo di concentramento, mostra un commento, un giudizio. Per Jaques Lusseyrand, Buchenwald fu la grazia.

 

D: Vedo che tutte le domande che si possono fare si possono ridurre a una sola. In tutte le domande, l’idea del desiderio di fare qualcosa, ritorna;cosa ne pensate?

R: Certamente! Sono passato di lì con il mio insegnante; aveva risposto a tutte le mie domande. Non c’erano più domande, ma questo movimento di energia sorgeva ancora per farmi domandare, anche se sapevo che non potevano esserci risposte. Infatti, gli domandavo di farmi tacere, era chiarissimo. La sola risposta era tacere. Ma questo non può succedere con la volontà, solo con la maturità. Vedo chiaramente che non posso comprendere al di là del mio livello di comprensione, che pensare viene solo dalla pretesa d’essere capace di pensare e d’essere capace di comprendere con il pensiero.

Quando si vive costantemente con la comprensione che il pensiero non può condurre a ciò che è al di là del pensiero, che il sentire non può condurre al di là del sentire, rimane ciò che Maitre Eckart ha descritto come l’umiltà.

E’ lo spazio in cui lo stesso Dio deve essere il luogo e l’agente di ciò che è. Ma finché lo voglio, non lo posso avere… perché pretendo di non averlo. Quando domando a un maestro che fare, pretendo che questo non sia fatto.

Questa pretesa mi tiene lontano dalla mia autenticità, dalla mia risonanza, che è ciò che sono.

Si dovrebbe vivere ancora e ancora in questa risonanza, si dovrebbe sentirla e formularla in modi diversi, finché essa                sia evidente come tale e cessi il desiderio di domandare. Perché non c’è niente da domandare. Quando non domandate, l’energia non si disperde verso fuori e essa si può svegliare in un silenzio.

Ma è importante realizzare che ogni domanda ritorna in fondo a una: “cosa posso fare?” e la risposta e che non c’è niente che si possa fare.

Si deve vivere dunque in questa evidenza,  la chiarezza verrà sotto forma di umiltà. Io non posso vincere, allora smetto di lottare.

Fintanto che ho la più piccola idea che se facessi questo potrei vincere, se andassi laggiù succederebbe questo, se non vivessi così, se non facessi così ecc., succederebbe questo, nego la mia autenticità, nego ciò che è adesso. Vivo secondo questa autenticità. L’impulso di domandare, che è alla radice di ogni attività nella vita, può solo essere quello che è: un riflesso della verità. Ecco perché la domanda è una espressione della risposta: essa viene dalla sua origine.

 

 

Da: http://www.revue3emillenaire.com/it/?p=155

 

 

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