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[FONTE: Il
testo dal titolo "The
Vedanta and Western Tradition" di
Ananda K. Coomaraswamy costituisce
il primo saggio del Volume
2: Selected Papers METAPHYSICS,
una raccolta di scritti di argomento metafisico e tradizionale dello
studioso indiano, curata da Roger Lipsey per le edizioni Bollingen Series/Princeton.Proponiamo
qui di seguito la nostra traduzione in italiano della prima parte di questo
testo (pp. 3-10)].
«Questi sono davvero i pensieri
degli uomini di ogni epoca e paese,
non sono miei originali»
Walt Whitman
I
Vi sono stati maestri
come Orfeo, Ermete, Buddha, Lao-tzu e Cristo, la cui esistenza umana è di
storicità dubbia e ai quali può essere accordata la dignità più elevata di
realtà mitiche. Shankara, come Plotino, Agostino o Eckhart, fu certamente un
uomo tra gli uomini, anche se in confronto ad essi sappiamo ben poco della
sua vita. Era originario del sud dell’India e brahmano di nascita, visse
nella prima metà del IX secolo d.C. e fondò un ordine monastico che ancor
oggi sopravvive. Divenne un samnyasin,
o «uomo veramente povero», all’età di otto anni, come discepolo di un certo
Govinda e del maestro di questi, Gaudapada,
autore di un trattato sulle Upanisad in cui vi è esposta la loro dottrina
essenziale sulla non-dualità dell’Essere divino. Shankara viaggiò a Benares
e lì, a dodici anni di età, scrisse il famoso commentario ai Brahma Sutra; i
commentari alle Upanisad e alla Bhagavad
Gita furono scritti invece
più tardi. La maggior parte della vita di questo grande saggio fu passata
errando per l’India, insegnando e prendendo parte alle controversie. Si
suppone che morì tra i trenta e i quaranta anni di età. Peregrinazioni e
dispute come le sue sono state sempre istituzioni tipicamente indiane; ai
suoi giorni, come ora, il sanscrito era la lingua franca degli uomini
istruiti, così come il latino lo è stato per secoli nei paesi occidentali, e
il libero dibattito pubblico era una pratica tanto ampiamente riconosciuta
che in quasi tutte le corti si adibivano sale espressamente per la
sistemazione dei maestri e polemisti peripatetici.
La metafisica
tradizionale alla quale si ricollega il nome di Shankara è conosciuta come
il Vedanta, parola che compare nelle Upanisad e che significa «compimento
del Veda» sia nel senso di «parte finale» sia di «significato ultimo» dei
Veda; è conosciuta anche come Atmavidya, la
dottrina della conoscenza del vero «sé» o «essenza spirituale», o come
Advaita, «Nondualità», un termine che, mentre nega la dualità, non afferma
alcunché sulla natura dell’unità né deve implicare niente di simile ai
nostri monismi o panteismi. In questa metafisica si insegna una gnosi (jna).
Shankara non fu in
nessun modo il fondatore, lo scopritore, o promulgatore di una nuova
religione o filosofia; la sua grande opera di commentatore tradizionale
consistette nel mostrare chiaramente l’unità e coerenza di fondo della
dottrina vedica risolvendo le apparenti contraddizioni dei testi con una
correlazione appropriata tra differenti formulazioni e loro impliciti punti
di vista. In particolare, ed esattamente come si verificò nella scolastica
europea, egli distinse tra due approcci complementari a Dio: la teologia
affermativa e negativa. Nella via che procede per affermazione, o conoscenza
relativa, si predicano qualità inerenti all’Identità Suprema per modo di
eccellenza, mentre nella via della negazione si astraggono tutte queste
qualità. Il famoso «No, no» delle Upanisad, che forma la base del metodo di
Shankara, come lo fu pure per il Buddha, dipende dal riconoscimento della
verità secondo cui –verità espressa da Dante tra molti altri– esistono
realtà che si trovano al di là della portata del pensiero discorsivo e che
non possono essere comprese se non negando loro aspetti particolari.
Lo stile di Shankara è
di grande originalità, forza e sottigliezza. Vorrei citare un passaggio del
suo commentario alla Bhagavad Gita che
ha il vantaggio ulteriore di introdurci immediatamente nel problema centrale
del Vedanta, vale a dire il discernimento di ciò che è realmente, e non
meramente secondo il nostro modo individuale di pensare, il vero «me
stesso». «Come è possibile», dice Shankara, «che vi siano maestri che
mantengono, come uomini ordinari, l’illusione “io sono tal-dei-tali” e
“Questo è mio”? Ascolta: ciò si deve al fatto che la loro cosiddetta
erudizione consiste in fondo nel pensare al corpo come al loro proprio
“sé”». Nel Commentario ai Brahma Sutra, Shankara
formula in sole quattro parole sanscrite ciò che percorre dal principio alla
fine tutta la metafisica indiana, vale a dire la dottrina pienamente
coerente dello Spirito immanente entro ciascuno di voi quale unico
conoscitore, agente e trasmigrante.
La letteratura
metafisica che soggiace nelle esposizioni di êaökara è costituita
essenzialmente dai Quattro Veda, insieme ai Brahmana e
alle loro Upanisad, considerati tutti come rivelati ed eterni, databili
(quanto alla loro redazione, in ogni caso) anteriormente al 500 a. C. e ai
quali bisogna aggiungere la Bhagavad Gita e
i Brahma Sutra (databili
prima dell’inizio dell’era cristiana). Di questi libri, i Veda sono testi
liturgici, i Brahmana consistono
in spiegazioni del rituale e le Upanisad sono dedicate alla dottrina di
Brahma o Theologia Mystica,
che si dà per scontata nella liturgia e nel rituale. I Brahma Sutra sono
un compendio molto condensato della dottrina delle Upanisad, e la Bhagavad
Gita è un’esposizione adattata
alla comprensione di coloro la cui occupazione primaria ha più relazione con
la vita attiva che con la contemplativa.
Per numerose ragioni,
che tenterò di spiegare, sarà molto più arduo cercare di esporre il Vedanta di
quanto lo potrebbe essere per le opinioni personali di un «pensatore»
moderno, o anche di pensatori come Platone o Aristotele. Né l’inglese
vernacolo moderno né il gergo filosofico o psicologico attuale ci forniscono
un vocabolario adeguato, né l’educazione moderna ci provvede di una base
ideologica che sarebbe essenziale per intraprendere una facile
comunicazione. Dovrò far uso di un linguaggio puramente simbolico, astratto
e tecnico, come se si stesse trattando in termini di alta matematica; ci si
può ricordare che Emile Mâle parla del simbolismo cristiano come di un
«calcolo». Tuttavia vi è questo di vantaggio: la materia che stiamo per
esporre e i simboli impiegati non sono più peculiarmente indiani di quanto
siano specificamente greci o islamici, egizi o cristiani.
La metafisica ricorre,
in generale, a simboli visivi (croci e cerchi, per esempio) e, soprattutto,
al simbolismo della luce e del sole, poiché, come dice Dante, «nessun
oggetto dei sensi nel mondo intero è più degno di essere fatto un tipo di
Dio». Dovrò impiegare anche termini tecnici come essenza e sostanza, potenza
e atto, inspirazione ed espirazione, somiglianza esemplare, eviternità,
forma e accidente. La metempsicosi andrà distinta dalla trasmigrazione, ed
entrambe dalla «reincarnazione». Cercheremo di distinguere anima da spirito.
Prima infatti di poter sapere quando eventualmente è opportuno tradurre una
data parola sanscrita con il nostro termine «anima» (anima, psyche),
dovremo conoscere in quali molteplici sensi la parola «anima» è stata
impiegata nella tradizione europea; inoltre, che genere di anima può essere
«salvata», quale anima richiede Cristo di «odiare» se vogliamo essere suoi
discepoli; ovvero a quale si riferisce Meister Eckhart quando afferma che
l’anima deve «mettersi a morte». Dovremo conoscere ciò che intende dire
Filone con l’espressione «anima dell’anima» e pure chiederci per quale
motivo pensiamo gli animali come esseri «senza anima» quando la parola
«animale» significa letteralmente «dotato di anima [ensouled, n.d.t.]».
Bisognerà distinguere essenza da esistenza. E io stesso potrò essere
obbligato a coniare un termine come «orasempre» per esprimere il senso
originale e pieno di espressioni come «subitamente», «immediatamente» e
«istantaneamente».
La letteratura sacra
dell’India è accessibile alla maggior parte di noi occidentali unicamente
nelle traduzioni fatte da studiosi esperti in linguistica piuttosto che in
metafisica; ed è stata principalmente esposta e spiegata –o per essere più
esatti, spiegata “dal di fuori”– da eruditi condizionati dagli stessi
pregiudizi dei naturalisti e degli antropologi, eruditi le cui capacità
intellettuali si sono tanto inibite a causa delle loro stesse facoltà di
osservazione che non possono più distinguere la realtà dall’apparenza, il
Sole Celestiale o Supremo della metafisica dal sole fisico della loro
propria esperienza. Oltre a questi, la letteratura indiana è stata studiata
e spiegata anche da propagandisti cristiani il cui interesse principale era
dimostrare la falsità ed assurdità delle dottrine in questione, o anche dai
teosofisti che hanno deformato a caricature le dottrine tradizionali con le
migliori intenzioni e forse anche con i risultati peggiori.
D’altra parte, l’uomo
istruito di oggigiorno ha perso completamente ogni contatto con quei modi
europei di pensiero e con quegli aspetti intellettuali della dottrina
cristiana che più si avvicinano a quelli delle tradizioni vediche. Una
conoscenza del cristianesimo moderno sarà di scarsa utilità, poiché il
sentimentalismo di fondo della nostra epoca ha ridotto ciò che una volta era
una dottrina intellettuale a mera moralità che appena può distinguersi da un
umanesimo pragmatico. Difficilmente si può dire che un europeo è
adeguatamente preparato per lo studio del Vedanta se
non abbia almeno acquisito qualche conoscenza e comprensione di Platone,
Filone, Ermete, Plotino, dei Vangeli (specialmente quello di San Giovanni),
San Dionisio e, infine, di Meister Eckhart che, con la possibile eccezione
di Dante, può essere considerato da un punto di vista indiano come il più
grande tra tutti gli [scrittori di tradizione] europei.
Il Vedanta non
è una «filosofia» nel senso corrente della parola, ma solamente nel senso
che il termine possiede nell’espressione «Philosophia Perennis», e a
condizione di avere a mente la «filosofia» ermetica o quella «Saggezza»
dalla quale Boezio fu consolato. Le filosofie moderne sono sistemi chiusi,
che impiegano il metodo dialettico e danno per stabilito che gli opposti
possono solo escludersi a vicenda. Nella filosofia moderna, le cose sono o
non sono così; nella filosofia eterna, questo dipende dalla nostra
prospettiva. La metafisica non è un sistema, ma una dottrina coerente; non è
interessata meramente alla esperienza condizionata e quantitativa, ma alla
possibilità universale. Considera pertanto possibilità che possono non
essere possibilità di manifestazione né possibilità in alcun modo formali,
così come insiemi di possibilità che possono essere realizzati in un dato
mondo. La realtà ultima della metafisica è una Identità Suprema nella quale
si risolve l’opposizione di tutti i contrari, inclusa l’opposizione di
essere e non-essere; i suoi «mondi» e «dèi» sono livelli di riferimento ed
entità simboliche, non luoghi né individui ma stati dell’essere realizzabili
entro ciascuno di voi.
I filosofi hanno teorie
personali sulla natura del mondo; la nostra «disciplina filosofica» è
primariamente uno studio della storia di queste opinioni e delle loro
connessioni storiche. Noi incoraggiamo il filosofo in erba ad avere opinioni
sue proprie con l’aspettativa che queste possano rappresentare una miglioria
o progresso rispetto alle teorie precedenti. Non consideriamo invece, come è
il caso della Philosophia Perennis, la possibilità di conoscere la Verità
una volta per tutte; e ancora meno ci proponiamo, come nostra meta, di
divenire questa stessa verità.
Le «filosofia»
metafisica è chiamata «perenne» in ragione della sua eternità, universalità
ed immutabilità; è la «Saggezza increata, la stessa ora come sempre fu e
sempre sarà» di Sant’Agostino; la religione che, come egli pure dice, venne
chiamata «cristianesimo» solamente dopo la venuta di Cristo. Ciò che fu
rivelato al principio contiene implicitamente la verità intera; e fino a
quando la tradizione si trasmetterà senza deviazioni, in altre parole,
fintantoché la catena di maestri e discepoli permarrà intatta, né
l’incoerenza né l’errore saranno possibili. D’altra parte, la comprensione
della dottrina deve rinnovarsi perpetuamente e ciò non è solo una questione
di parole. Che la dottrina non sia soggetta alla storia non esclude in
alcuna maniera la possibilità, o persino la necessità, di uno svolgimento
perpetuo delle sue formule, di un adattamento tradizionale dei riti
praticati in origine, e dell’applicazione dei suoi principi alle arti e alle
scienze. Quanto più declina l’umanità dalla sua pienezza originale, tanto
più necessaria risulterà una tale applicazione. Di questi svolgimenti e
adattamenti è possibile stilare una storia. Si stabilisce così una
distinzione tra ciò che al principio fu «udito» e ciò che è stato
«ricordato» in seguito.
Una deviazione o eresia
è possibile solo quando l’insegnamento essenziale è stato frainteso o
pervertito in alcuno dei suoi aspetti. Dire, per esempio, che «io sono un
panteista» significa semplicemente confessare che «io non sono un
metafisico», così come dire che «due più due fanno cinque» equivale a
riconoscere che «non sono un matematico». All’interno della tradizione
stessa non vi possono essere teorie o dogmi contraddittori o che si
escludono a vicenda. Per esempio, quelli che vengono denominati i «sei
sistemi della filosofia indiana» (una frase nella quale solamente le parole
«sei» e «indiana» sono giustificate) non sono teorie mutuamente
contraddittorie ed esclusive. I cosiddetti «sistemi» non sono né più né meno
ortodossi di quanto lo siano le matematiche, la chimica e la botanica, le
quali, sebbene discipline scientifiche più o meno separate tra loro, non
sono altro che branche di una «scienza» unica. In India infatti si fa uso
del termine «branche» per denotare ciò che gli indologi male interpretano
come «sette». Si deve invece precisamente al fatto che non esistano «sette»
entro l’ambito dell’ortodossia brahmanica che un fenomeno come quello
dell’intolleranza, nel senso europeo del termine, sia stato pressoché
sconosciuto nella storia indiana, e per questa stessa ragione può risultare
dunque ugualmente facile a me pensare nei termini della filosofia ermetica
così come in termini propri al Vedanta. Vi devono essere «branche» perché
nulla può essere conosciuto se non nel modo proprio al conoscitore; per
quanto fermamente convinti che tutte le vie conducano all’unico Sole, è
ugualmente evidente che ciascun uomo deve eleggere quel particolare cammino
che principia là dove egli si trova al momento di intraprendere il viaggio.
Per le stesse ragioni, l’induismo non è stato mai una fede missionaria. Può
essere vero che la tradizione metafisica è stata meglio e più compiutamente
preservata in India che in Europa. Se è così, ciò significa solo che il
cristiano può apprendere dal Vedanta come
intendere meglio la sua propria «via».
Il filosofo sa di dover
provare i suoi assunti. Per il metafisico è sufficiente mostrare che una
dottrina che si suppone falsa implica una contraddizione con i princìpi
primi. Per esempio, il filosofo che sostiene l’immortalità dell’anima si
sforza di scoprire le prove della sopravvivenza della personalità; al
metafisico basta ricordare che «l’inizio deve essere lo stesso della fine» –
dalla qual cosa segue che l’anima, in quanto la si considera creata nel
tempo, non può non avere la propria fine che nel tempo. Il metafisico non
può essere convinto [dell’immortalità del «Sé»] da nessuna cosiddetta «prova
della sopravvivenza della personalità», più di quanto possa essere convinto
un fisico da una qualche supposta prova circa la possibilità del moto
perpetuo di un meccanismo. Inoltre, la metafisica tratta in maggior parte di
argomenti che non possono essere provati in modo aperto, ma possono solo
essere dimostrati, cioè, fatti intelligibili mediante analogia e che, anche
quando verificati nell’esperienza personale, possono solo essere espressi
nei termini del simbolo e del mito. Allo stesso tempo, la fede si fa
relativamente facile per la logica infallibile dei testi stessi, cosa che
costituisce la loro bellezza e il loro potere attrattivo. Ricordiamo la
definizione cristiana di fede come «assentimento a una proposizione
credibile». Si deve credere al fine di comprendere, e comprendere per
credere. Tuttavia, questi non sono atti successivi della mente, bensì
simultanei. In altre parole, non vi può essere conoscenza di qualcosa alla
quale la volontà neghi il suo consenso, né amore di ciò che non è stato
conosciuto.
La metafisica differisce
ancora più dalla filosofia in quanto il suo proposito è eminentemente
pratico. Non è una ricerca [astratta] della verità per la verità come
neppure le arti ad essa correlate sono una ricerca dell’arte per l’arte né
la condotta corrispondente una ricerca della moralità per la moralità. Vi è
certamente una ricerca, ma il cercatore già conosce, nella misura in cui ci
si può esprimere in parole, che cos’è ciò che sta cercando e la sua ricerca
è terminata solamente quando egli stesso è divenuto l’oggetto del suo
cercare. Né la conoscenza verbale, né un assenso meramente formale, né una
condotta impeccabile sono nient’altro di più che valori preliminari
indispensabili, mezzi in vista di un fine.
Presi nella loro
materialità, come semplice «letteratura», i testi e i simboli sono
inevitabilmente incompresi da coloro che non partecipano essi stessi a
questa ricerca. Senza eccezione, i termini e i simboli metafisici sono i
termini tecnici ai quali dare la caccia. Non si tratta mai di meri ornamenti
letterari, e come disse così bene Malinowski in altro contesto, «Il
linguaggio tecnico, in materia di ricerca pratica, acquisisce tutto il suo
significato solamente mediante la partecipazione diretta personale di chi è
impegnato in questo tipo di ricerca». Per questa ragione, chi è indiano si
rende conto che i testi vedantici sono stati compresi dagli eruditi europei,
i cui metodi di studio sono per loro stessa confessione limitati all’oggetto
o fenomeno e neutri [objective and noncommittal, n.d.t.],
unicamente da un punto di vista verbale e grammaticale, ma mai compresi
realmente. Il Vedanta può essere
conosciuto solo nella misura in cui è stato vissuto. Di conseguenza,
l’indiano non può confidare in un maestro la cui dottrina non trova diretto
riflesso nel suo proprio essere. Qui vi è davvero qualcosa di molto distante
dal moderno concetto europeo di erudizione.
Dobbiamo aggiungere, per
coloro che si dilettano con idee romantiche sull’«Oriente misterioso», che
il Vedanta non ha nulla a che
vedere con la magia né con la pratica di poteri occulti. È certo che in
India si dà per assodata l’efficacia dei procedimenti magici e la realtà dei
poteri occulti. Ma la magia è considerata una scienza applicata dell’ordine
più basso; e sebbene nel corso della pratica contemplativa si acquisiscano
incidentalmente poteri occulti, come quello dell’azione «a distanza», il
loro uso –a meno che non sia in circostanze assolutamente eccezionali– è
considerato piuttosto una pericolosa deviazione dal cammino spirituale.
Il Vedanta non
è un tipo di psicologia né lo Yoga una sorta di pratica terapeutica, se non
molto accidentalmente. La salute fisica e morale è un prerequisito per il
progresso spirituale. L’analisi psicologica è impiegata esclusivamente per
sgretolare la nostra amata credenza nell’unità ed immaterialità
dell’«anima», e con in vista di distinguere meglio lo spirito da ciò che non
è spirito ma solo una manifestazione psicofisica temporanea di una delle sue
più limitate modalità. Chiunque insista, come fa Jung, nel tradurre i
concetti essenziali della metafisica indiana o cinese in termini di
psicologia sta semplicemente distorcendo il significato dei testi. Da un
punto di vista indiano, la psicologia moderna ha lo stesso valore di quello
attribuito allo spiritismo, alla magia e ad altre «superstizioni». Infine,
devo segnalare che la metafisica, il Vedanta, non è una forma di misticismo,
se non nel senso in cui possiamo parlare con Dionisio di una Theologia
Mystica. Ciò che abitualmente si intende con «misticismo» implica una
ricettività passiva –«noi dobbiamo permettere che le cose si presentino
spontaneamente nella psiche» è il modo di Jung di definire il concetto (e in
questa affermazione si proclama egli stesso «mistico»). Ma la metafisica
ripudia completamente la psiche. Le parole di Cristo, «Nessun uomo può
essere mio discepolo se non odia la propria anima», sono state espresse più
e più volte da ogni guru indiano; e così, lungi da implicare passività, la
pratica contemplativa suppone un’attività che si compara frequentemente
all’ardore di un fuoco a temperatura tanto alta da non mostrare né tremolio
né fumo. Il pellegrino lo si chiama allora «affaticato» e il ritornello
caratteristico della canzone del pellegrino è «andare avanti, andare
avanti». La «Via» di colui che segue il Vedantaè più di ogni altra cosa
attività.
[...]
* [In origine, una
conferenza tenuta davanti al Radcliffe College chapter of the Phi Beta Kappa
Society, il testo invece nella sua presente forma fu pubblicato su The
American Scholar, VIII (1939).–ED.]
Da: arka-traditioperennis.blogspot.it
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