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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Ananda K. Coomaraswamy, Tempo ed Eternità

Luni, Milano, 1996, pp. 124, L. 28.000

di Giovanni Monastra

 

 

Fa parte del comune modo di esprimersi, riferendosi a un momento molto difficile, l'affermare: "Ho trascorso un istante che è durato un'eternità", abbinando così il concetto di durata con quello di eternità. D'altra parte, normalmente si definisce l'eternità come un continuum, ossia lo scorrere perpetuo del tempo senza inizio né fine, una successione indefinita di "momenti". Ma ciò risulta errato anche sotto il semplice profilo logico, in quanto tale definizione risente di una mentalità strutturalmente e intrinsecamente legata al fattore "tempo", da cui non si riesce a prescindere, essendone prigionieri. La nostra civilizzazione ha assolutizzato il divenire, lo ha reso il suo orizzonte "naturale": si pensi all'enfasi posta sulla "storia" come luogo di realizzazione totale dell'uomo, secondo le linee di un umanismo patologico e unidimensionale.
Così intere correnti filosofiche hanno ritenuto che anche lo Spirito si evolva nel tempo, senza rendersi conto della stessa assurdità terminologica, dato che "Spirito" è sinonimo di "Essere". Tale "incomprensione" non deve stupire, se si considera, ricordando anche quanto scritto da Evola ne L'arco e la clava (Mediterranee, Roma 1995), il grado di degenerazione e di sfaldamento raggiunto dalle parole nell'occidente moderno. Tutti questi fenomeni non sono privi di rapporto con l'avversione o l'indifferenza verso ogni verticalità, intesa come trascendenza, che caratterizzano la cultura antimetafisica e storicista, egemone nella nostra epoca.
Giunge quindi a proposito, per la meritoria opera della edizioni Luni, la traduzione del testo del tradizionalista anglo-indiano Ananda Coomaraswamy dedicato allo studio del significato reale di tempo (divenire) ed eternità (essere). Questa densa analisi, ricchissima di citazioni, apparve nel 1947, l'anno della morte dell'autore e venne subito recensita con favore da Guénon (ora in Studi sull'Induismo, Luni 1996, pp. 205-6). Come tutti gli altri suoi libri della fase più matura, è stato rivisto e corretto da Coomaraswamy nonostante sia vissuto ancora pochi mesi dalla prima pubblicazione. La versione adottata per la ottima traduzione italiana, ad opera di Robert Rajko, ha il pregio di essere la più "aggiornata", essendo stata fornita dallo stesso figlio dell'Autore, Rama Coomaraswamy; non così è avvenuto per altre edizioni inglesi, apparse in India, come ho potuto verificare in un confronto con l'edizione della Munshiram Manoharlal del 1987.

Lipsey, nel suo Coomaraswamy: his life and work (Princeton University Press, 1977), lo ha definito un "libro molto difficile" che può essere assimilato solo molto lentamente da un lettore privo di una speciale preparazione nel campo metafisico. Il giudizio ci sembra un pò eccessivo, in quanto, chi già conosce gli altri testi di Coomaraswamy scritti durante il periodo tradizionalista, cioè dagli Anni Trenta in poi, sa che per comprenderne bene il pensiero non bisogna avere fretta, in quanto è necessario seguirlo con pazienza lungo le vie maestre (il testo) e i sentieri locali (le note) da lui tracciati, rifacendoci a una metafora di Grazia Marchianò. "Quanto più arduo e intricato è il tema, tanto più si sottrae a una presa facile. Occorrono allora manovre avvolgenti, battere piste secondarie, 'locali'. Nel testo questa rete di viottoli sono le note, un meandro in cui il lettore si sperde facilmente. Ma è uno smarrimento a buon fine, perché se persevera fino in fondo, la via maestra è riguadagnata col vantaggio di essere rimasti meno estranei a un'impresa che ha mobilitato le conoscenze, la memoria, l'attenzione e il cuore dello scrittore" (G. Marchianò, introduzione a Aforismi di A. K. Coomaraswamy, Stile Regina Editrice, 1988).
Certe ripetizioni di idee e concezioni, riprese via via da ambiti sapienziali differenti, di cui l'Autore dimostra di possedere una perfetta padronanza, non devono indurre a un facile e superficiale giudizio volto ad assimilare questo volumetto a un compendio di citazioni sommate l'una all'altra: invece esiste un stringente logica di tipo espositivo, che si basa sulla continua comparazione, sull'analogia, sulla stessa, voluta, ripetizione di termini-chiave, indispensabili per farci "capire" e "assimilare", considerando in particolare, i limiti intellettuali e culturali dell'uomo moderno, prima evidenziati. Quindi bisogna, anche nel caso del presente libro, meditare le parole dell'Autore lasciandosi condurre dai suoi pensieri, la cui chiarezza, coerenza e unitarietà appariranno poi, all'improvviso, in modo netto ed evidente.

Tempo ed Eternità è frutto di lunghe ricerche comparatistiche sul tema in oggetto condotte analizzando il pensiero metafisico indù, buddista, greco, islamico e cristiano, ossia alcune tra le varie e differenti espressioni storiche della Tradizione Primordiale, dialetti diversi di un'Unica Lingua. Il giudaismo e, ancor di più, il taoismo vengono appena citati (di quest'ultimo l'Autore riconosce di possedere una ridotta conoscenza), ma l'opera non ne soffre certo quanto a completezza, dato che già i numerosissimi passi ripresi da Coomarsawamy dai testi sacri e dalle opere metafisiche di autori come Aristotele, Rumi, Dionigi l'Areopagita, Cakrapani, Sant'Agostino, Meister Eckhart, Buddhaghosa, Plotino, al-Hujwiri, risultano più che sufficienti per fornirci una visione chiara dei vari aspetti inerenti al tempo e all'eternità.
Nella sua analisi Coomaraswamy si dimostra lontano da ogni scolasticismo dogmatico, così non trascura di evidenziare certi errori di autori quali Aristotele ad esempio, ricordando la sua incomprensione nei confronti dei presocratici, da lui creduti a torto degli ingenui materialisti. A questo proposito andrebbero ricordati i pionieristici studi della italiana Ada Somigliana, che negli Anni Cinquanta e Sessanta dimostrò come sapienti del rango di Eraclito espressero un purissimo pensiero metafisico nell'ambito della Grecia arcaica, in sintonia con le Upanishad indù, sfatando così, per prima in Italia, il mito del "naturalismo" di quegli autori.

La sintetica introduzione di Grazia Marchianò offre ulteriori spunti di riflessione, con acuti riferimenti alla speculazione filosofica dello studioso ebreo-catalano Hasdai Crescas, anche se alcuni aspetti del suo pensiero, solo accennati dalla Marchianò, non ci sembrano in accordo con la concezione tradizionale delineata dal Coomaraswamy e, quindi, avrebbero richiesto, quanto meno, maggiori chiarimenti.
Dalla analisi comparativa esposta nel libro emergono alcune idee essenziali, fondamentali, ricche di riferimenti incrociati e implicazioni a vari livelli. In definitiva l'Autore ci offre un gioiello meritevole di un attento studio, un piccolo trattato di metafisica, dove veniamo affascinati da continui vortici di simboli reciprocamente collegati dal linguaggio universale e perenne del Sacro. Coomaraswamy, con numerose citazioni puntuali, dimostra che, in pieno accordo, spesso anche terminologico, tutte le tradizioni definiscono il tempo come una successione continua (e non discontinua), suddivisibile in modo illimitato, al pari dello spazio, mentre l'eternità viene assimilata a un presente senza durata: è l'istante al di fuori del fluire del tempo. In essa tutto si ha in modo simultaneo, cosicchè Dio vede, e non prevede, il futuro, in quanto questo si dispiega ai suo occhi come attuale.
L'istante ha il suo omologo in geometria nel punto: sia l'uno che l'altro sono senza estensione, costituiscono, rispettivamente, il presupposto del tempo e dello spazio, ma non appartengono a tali dimensioni. In molti casi troviamo un doppio significato del termine "tempo": quando viene assimilato al lampo si vuole intendere il Tempo acronico (in illo tempore, come osservava Eliade), origine e radice del tempo quale lo percepiamo nel suo scorrere senza sosta dal passato verso il futuro. Il primo viene anche simbolizzato con l'atomo, termine che però non ha alcun riferimento col cosiddetto atomismo proprio al Vaishêshika indù, un "punto di vista" o darshana, talora erroneamente chiamato "sistema filosofico". Il termine "atomo" riveste quindi un duplice significato: per i testi sacri (le stesse Upanishad lo citano spesso) è privo di estensione, al pari del punto, invece secondo il Vaishêshika gli atomi sono realtà fisiche, quindi estese, ciascuna dotata di una "particolare qualità o sostanza eterna".
 

A differenza di Guénon (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, ed. Studi Tradizionali, 1965), che evidenzia in questo darshana un certo potenziale di eterodossia, poi manifestatosi in alcune correnti da lui definite "naturaliste", Coomaraswamy esprime un giudizio più cauto e meno negativo, anche se, come abbiamo detto, mette in risalto le profonde differenze tra il concetto spirituale e quello materiale di "atomo". Con tale termine, nei testi sapienziali, si intende simbolizzare anche l'aspetto immanente del divino, che, manifestandosi nella dimensione del "microscopico", permea tutta la realtà cosmica, cioè il mondo della molteplicità. E infatti la creazione, o meglio, passando dal linguaggio religioso a quello metafisico, la manifestazione avviene con l'atto sacrificale: lo smembramento di un corpo in varie parti, simbolo del passaggio dall'Uno alla pluralità delle forme, dall'illimitato al limitato.

Il cosmo, a cui sono inerenti lo spazio e il tempo e che è soggetto alla catena della causalità, al continuo nascere e morire di tutte le cose, può essere raffigurato dalla circonferenza il cui punto centrale, senza dimensione, rappresenta l'Uno, meta di chi aspira alla Liberazione, percorso simbolizzato dal raggio. Così alla separazione, che dà luogo al mondo fenomenico secondo un processo centrifugo ed evolutivo, l'asceta, seguendo una direzione centripeta ed involutiva, contrappone l'unione con il supremo Sé, la cui realizzazione effettiva si ha con un atto fulmineo, fuori dal tempo, che costituisce l'Illuminazione. È il passaggio attraverso due porte che si aprono e chiudono in un istante, due porte che sono il passato e il futuro, e l'istante è appunto la negazione delle divisioni del tempo. Non a caso il sufi viene definito nell'Islam come il "figlio dell'istante". In tal modo viene abbandonato per sempre il divenire, in direzione dell'essere, ma anche di qualcosa che sta al di là dello stesso essere, il Brahman indù, nella sua non-Dualità, o il Vuoto buddhista (vuoto, cioè libero, delle cose che mutano senza sosta, ma metafisicamente "pieno").
E così, Coomarsawamy nota che l'eternità ci è accanto, anche se noi quasi sempre non la vediamo, o non vogliamo vederla: essa è assai più vicina del tempo, caratterizzato da una smisurata estensione indefinita. Sta alla nostra libera scelta decidere quale itinerario spirituale seguire: possiamo perderci nell'infinito o nell'indefinito, identificarci con l'Assoluto o con il divenire. La differenza è radicale.
Il mondo, per altro, è pregno di simboli: esso ci offre molti momenti in cui esperire il senso dell'eternità e quindi seguirne la via di fronte alla limitatezza della vita terrena. Tutto è anagogico per chi sa vedere. Scrive l'Autore: "Il tempo... è un'imitazione dell'eternità, come il divenire lo è dell'essere, e il pensiero del conoscere". Chiusa l'ultima pagina di questo libro, anche ciò che prima sembrava consueto e scontato può apparirci in una nuova veste, lo stesso fluire del tempo può rivelarsi diverso, inquietante.

 

 

Da: http://www.estovest.net/letture/coomartempoeternita.html

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