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Frithjof Schuon, Norme e paradossi dell'alchimia spirituale
Il presupposto essenziale del pensiero metafisico è
l’intellezione, o, diciamo, l’intuizione intellettuale[1]. Quest’ultima non
è certo una questione di sentimento, si tratta bensì di intelligenza pura.
Senza questa intuizione, la speculazione metafisica non è che un opaco
dogmatismo, un impreciso raziocinio. E’ ovvio che un pensiero speculativo
privo delle sue basi intuitive non sarebbe in grado di preparare il terreno
alla Gnosi: la Conoscenza diretta, concreta e assoluta. Bisogna precisare
che le eventuali lacune della mente umana non sono dovute a cause fortuite,
bensì al kali-yuga[2], l’epoca oscura che, oltre ad altre forme di
decadenza, provoca l’indebolimento progressivo dell’intellezione pura e
delle propensioni ascensionali dell’anima. È da qui che origina il bisogno
delle Rivelazioni religiose, ed è da qui che nasce anche il problematico
fenomeno delle filosofie infondate e divergenti. Ma l’uomo rimane sempre
uomo, “a immagine e somiglianza di Dio”: niente può impedire, neanche in
questi millenni di oscurità, il fiorire della saggezza propria della Sophia
Perennis[3], come le Upanishad, i Brahma-Sûtras e l’Advaita-Vedânta.
Il contenuto della Dottrina universale e primordiale,
espresso in termini vedantici, è il seguente: “Brahma è Realtà; il mondo è
apparenza; l’anima non è altro che Brahma”[4]. Queste sono le tre grandi
tesi della metafisica integrale: una positiva, una negativa, una unificante.
In riferimento alla seconda affermazione, è importante capire che la
“apparenza” dà luogo a due interpretazioni complementari: in base alla prima
di queste, il mondo è illusione, è il nulla; in base alla seconda, è
Manifestazione Divina. Vi sono compensazioni in ambedue gli ambiti, ma, a
grandi linee, il primo di questi punti di vista è sostenuto da Shankara e
Shivaismo, il secondo da Ramanuja e Vishnuismo. La terza affermazione
fondamentale sotto un certo aspetto segna il passaggio da “Verità” a
“Sentiero”, o, diciamo, da Dottrina a Metodo: dal momento che l’anima non è
“altro che Brahama”, la sua vocazione è quella di trascendere il mondo. In
altre parole, dato che l’intelletto umano ha, per definizione, la capacità
di concepire e realizzare l’Assoluto, questa possibilità è la sua Legge: la
concentrazione attiva e unificante è generata dal discernimento speculativo.
Alla teologia si congiunge l’orazione: “Prega senza posa”.
Ma vi è ancora un’altra dimensione da considerare, si tratta del clima morale, sotto certi aspetti “estetico”, della spiritualità alchemica. Questo clima costituisce fondamentalmente ciò che viene chiamato la “qualificazione iniziatica”[5]. La Verità e il Sentiero devono essere accompagnate dalle Virtù, ovvero le qualità umane di umiltà, carità, giustizia e dignità: conoscenza rigorosa di se stessi, comprensione benevola degli altri, percezione imparziale della natura delle cose, partecipazione interiore ed esteriore nel “Motore Immobile” - nell’immutabile Archetipo o nell’Essere Supremo. Non vi è sâdhana senza dharma[6], non vi è alchimia spirituale senza nobiltà di carattere: “La bellezza è lo splendore del Vero”. Il punto di partenza del Sentiero è la Dottrina, la cui origine è la Rivelazione. L’uomo accetta la Rivelazione per mezzo dell’intuizione intellettiva, o per mezzo di quel certo senso di Verità, o Realtà, che chiamiamo fede. È poco probabile che un uomo nasca con la conoscenza della Dottrina integrale, ma in casi molto eccezionali è possibile che possegga dalla nascita la certezza dell’Essenziale. L’intelligenza attraverso cui comprendiamo la Dottrina, è l’intelletto, o la ragione. La ragione è lo strumento dell’intelletto. E’ con la ragione che l’uomo comprende i fenomeni naturali fuori e dentro di sé e, parallelamente ai mezzi di espressione offerti dal simbolismo con cui si traspone la conoscenza intuitiva nell’ordine del linguaggio, è con essa che può descrivere il soprannaturale. La funzione della facoltà razionale può essere quella di causare un’intuizione spirituale attraverso un concetto; la ragione è allora la pietra focaia che accende la scintilla. Il limite dell’Inesprimibile varia a seconda della struttura mentale: ciò che è al di là di ogni espressione per alcuni può essere facilmente esprimibile per altri. Si è fin troppo pronti a credere che un testo metafisico[7] sia una creazione della ragione solo perché ha la forma di una dimostrazione logica, mentre la ragione in questo caso non è che il metodo di trasmissione. Ci sono mistici che si disinteressano di un dato testo perché è logico, cioè perché credono che sia necessario trascendere questo piano, come se la logica fosse un segno di ignoranza o illusione quando si tratta piuttosto di un riflesso della Causalità universale nella nostra mente. Secondo alcuni indirizzi di pensiero ostili all’espressione discorsiva, il desiderio di trascendere il piano della logica è associato al desiderio di trascendere la “scissione” tra il soggetto e l’oggetto. Questa opposizione complementare non impedisce al conosciuto - qualunque sia la situazione del conoscitore - di essere del tipo più elevato. Il soggetto e l’oggetto non sono avversari, essi si uniscono in una fusione che, a seconda del contenuto della percezione, può avere una virtù interiorizzante e liberatoria, i cui esempi principali sono il piacere estetico e l’unione d’amore. Nell’Atmâ, la triade Sat, Chit, Ananda, “Essere, Coscienza, Beatitudine”, non sono un fattore di scissione. Analogamente, sulla Terra le dimensioni di spazio fisico non impediscono allo spazio di essere uno, così che non percepiamo in esso alcuna spaccatura. Ciò che noi rimproveriamo a coloro che disdegnano il “raziocinio metafisico” e “l’opposizione soggetto-oggetto” non è tanto una certa posizione, bensì l’esagerazione che ne risulta o che di essa si nutre. L’eccesso è nella natura umana, la devota esagerazione è inevitabile nel complesso, come lo è una mentalità faziosa. Non ricordiamo chi abbia detto “tutto ciò che è eccessivo è insignificante”. Questo è alquanto vero, ma non perdiamo di vista il fatto che, sul piano religioso, l’iperbole vela un’intenzione infine misericordiosa. È quindi una questione di upâya[8], di uno “stratagemma di salvezza”. Senza dubbio, le voci di saggezza che esotericamente condannano o giustificano le “sacre assurdità” possono sembrare “eretiche” dal punto di vista di un’ortodossia letterale, ma “Dio conosce i Suoi”; l’Intelletto Divino non è limitato da una certa teologia o una certa morale. Secondo la regola, ciò che è verità salva; secondo la Grazia, ciò che salva è verità. Senza dubbio, i sostenitori di un intuizionismo simbolista[9] e anti-intellettuale commettono un errore nel rimproverare l’intelligenza speculativa di non essere vera Conoscenza - cosa che non sostiene di essere - e nel concludere che sia un ostacolo al Sentiero. È evidente che la conoscenza teorica[10] è uno stadio indispensabile del pellegrinaggio verso la Conoscenza totale. L’uomo è un essere pensante, non può eludere il pensiero: “In principio era il Verbo”. Vi è una prospettiva di Trascendenza e vi è una prospettiva di Immanenza. L’una deve essere trovata nell’altra, come a modo suo è dimostrato dallo Yin-Yang taoista[11]. Vi è una Trascendenza soggettiva come vi è una Immanenza oggettiva: l’intelletto è trascendente in relazione all’individuo, come il Creatore è immanente in ciò che ha creato. Ma anche qui - a dispetto di questi due Misteri - vi sono le divergenze di coloro che fanno di ogni complemento un’alternativa: alcuni credono che tutto debba cadere dal Cielo; altri credono che tutto può e deve venir fuori dai nostri stessi sforzi. Ora, la mente umana, essendo teomorfica, possiede di norma un potere sovrannaturale, ma qualsiasi siano le prerogative della nostra natura, non possiamo fare nulla senza l’aiuto di Dio, poiché è Lui che causa la nostra partecipazione nella Conoscenza che Lui ha di Se Stesso. Nel buddismo giapponese, si distingue tra il “proprio potere”, jiriki, e il “potere degli altri”, tariki. Il primo si riferisce all’Immanenza e il secondo alla Trascendenza. Il primo significa che tutto, nel Sentiero, dipende dalla nostra forza e dalle nostre iniziative. Il secondo significa che tutto dipende dalla Grazia celeste. In realtà, anche qualora predomini uno dei due punti di vista, essi devono essere amalgamati, poiché da una parte non possiamo salvare noi stessi facendo affidamento interamente sulla nostra forza, e dall’altra il Cielo non ci aiuterà se noi, che siamo stati creati intelligenti e liberi, non collaboriamo alla nostra stessa salvezza. * * * Abbiamo visto come la pratica della concentrazione unificante proviene da un discernimento speculativo che la giustifica e addirittura la richiede. Ora, i supporti di questa concentrazione sono infinitamente vari a causa della complessità dell’uomo, distante riflesso dell’Infinità di Dio. I metodi non sono sempre intelligibili a prima vista. Ad esempio, ci si può chiedere quale sia la rilevanza di una disciplina come la Cerimonia del Tè, che associa l’ascesi all’arte pur essendo materialmente basata su manipolazioni che appaiono a priori insignificanti, ma che sono nobilitate dalla loro sacralizzazione. Prima di tutto, bisogna considerare il fatto che nell’estremo oriente l’intuizione sensoriale è più sviluppata del dono speculativo, e poi anche che il senso pratico e il senso estetico, così come la propensione al simbolismo, sono alla base del suo temperamento spirituale. Nella Cerimonia del Tè, l’atto simbolico e moralmente corretto - l’atto “profondo”, se vogliamo - dovrebbe suscitare una sorta di anamnesi platonica, o coscienza unificante, mentre nell’uomo bianco orientale e occidentale è l’Idea che dovrebbe portare all’atto corretto e virtuoso. Per grandi linee, l’uomo di razza gialla va dall’esperienza sensoriale a quella intellettiva, mentre con l’uomo bianco ha luogo il contrario: iniziando da concetti o da immagini mentali abituali, capisce e classifica i fenomeni senza, tuttavia, sentire la necessità di integrarli consciamente nella sua vita spirituale, eccetto per caso o quando si tratti di simboli tradizionalmente accettati. Gli uomini sono diversi, ad alcuni piace esprimersi con sottili allusioni per timore di limitare il reale, mentre altri preferiscono l’espressione diretta e analitica per timore di essere imprecisi. Il mondo è bello perché è vario, ma le possibilità possono combinarsi, in quanto l’uomo non è un sistema chiuso. Oltretutto, non si può fare a meno di definire le cose, ma bisogna aver cura di non limitarle troppo nel definirle; e se l’espressione discorsiva è un’arma a doppio taglio è perché la realtà presenta mille sfaccettature. La Cerimonia del Tè dimostra che dovremmo svolgere tutte le attività e le mansioni della vita quotidiana secondo una perfezione primordiale che è puro simbolismo, coscienza pura dell’Essenziale, bellezza perfetta e padronanza di sé. L’intenzione è essenzialmente la stessa nelle iniziazioni artigianali[12] occidentali, incluso l’Islam, ma in questo caso le loro basi formali sono la produzione di oggetti utili e non il simbolismo dei gesti; così, parallelamente al suo lavoro, il marmista mira a formare la sua anima in vista dell’unione con Dio. In questo modo si può trovare un modello spirituale in tutti i mestieri e in tutte le arti, come ad esempio nel mondo musulmano, dove ogni attività professionale o casalinga è un tipo di rivelazione associata a uno dei profeti del Corano. Per ciò che riguarda gli aderenti allo Zen, non è vanamente che essi cercano con zelo la loro ispirazione nella “vita ordinaria”, poiché, in quanto intessuta di simbolismo, racchiude misteriosamente in sé la “natura del Buddha”. Tutto ciò suscita dei quesiti sul Simbolo[13] e sul simbolismo: qual è il ruolo del Simbolo nell’economia della vita spirituale? Abbiamo appena mostrato che l’oggetto di concentrazione non è necessariamente un’idea, ma può essere anche un segno simbolico, un suono, un’immagine o un’attività. Il monosillabo Om[14], i diagrammi mistici, i mandala e le immagini delle Divinità sono, a modo loro, veicoli di consapevolezza dell’Assoluto privi di elementi dottrinali: la “contemplazione della Signora Nuda”, in certi circoli di Troubadour o di Fedeli d’Amore, suggerisce una visione dell’Infinito e dell’Essere Puro - ovvero non una seduzione, ma una catarsi. La preminenza dell’Idea o del Simbolo è una questione di opportunità piuttosto che di principio; secondo la natura delle cose, le modalità del Sentiero sono diversificate come lo sono gli uomini, e complesse come l’anima umana. Ma qualunque sia il nostro punto di partenza – idea, simbolo o la loro combinazione - vi è anche, essenzialmente, la concentrazione sul Vuoto, la concentrazione fatta di certezza e serenità. Come disse Shankara: “Ciò che è cessazione di agitazione mentale, la Pace suprema che è il vero Benares, questo è ciò che sono”. Per un certo misticismo[15] riscontrabile in tutti gli ambienti tradizionali, soltanto il sentimento, e non l’intelligenza, offre la soluzione ai problemi principali della nostra esistenza, al significato della vita. L’escatologia[16] assume quindi la funzione della metafisica. In questa promozione del sentimento, la parola “verità” viene comunque usata, ma indica ciò che ci libera e ci garantisce una felicità che sentiamo come fondamentale e duratura: la verità non è più quindi un principio che racchiude i contenuti più diversi, è semplicemente un contenuto dogmatizzato; ci si dimentica che la verità è la natura delle cose, e che niente può avere precedenza su questo nella visione del reale. Sempre in questo clima mentale e morale, l’intelligenza, prospettata come “analitica” e “separatista” è opposta al sentimento, che viene considerato secondo il suo aspetto sintetico e unificante. Pertanto, ciò che viene costruito è un’immagine deformata dell’uomo, come se fosse la vittima di un’intelligenza ingannevole, poi liberato da qualche soluzione sentimentale. Questo non vuol dire che il sentimento non potrebbe, a sua volta, essere un metodo di conoscenza, dato che amare qualcosa che merita di essere amato significa “conoscerlo” in qualche modo, ma questo non è un motivo per credere che il sentimento, a causa del suo carattere spontaneo, inarticolato e semi-magico, sia l’unico modo possibile di arrivare alla conoscenza, o quello più elevato. Un fatto che sembra giustificare gli intuizionisti sentimentalisti in questione, ma la cui portata difficilmente sospettano, è il seguente ed è incontestabile: un fenomeno di bellezza può essere più improvvisamente e più profondamente convincente di una spiegazione logica. Da qui proviene la massima: “I Buddha non salvano soltanto con le loro prediche, ma anche con la loro bellezza sovrannaturale”. Anche l’opinione platonica che “il bello è lo splendore del vero” esprime senza equivoci la profonda, intima, ontologica relazione tra il reale e il bello, o tra essere e armonia - una relazione che implica, come abbiamo appena detto, che la bellezza è talvolta un argomento più impressionante e in grado di trasformare di quanto lo sia una dimostrazione verbale: un argomento non logicamente più adeguato, ma umanamente più miracoloso. Dire bellezza è dire amore, e si sa quanto importante sia questa idea di amore in tutte le religioni e in tutte le alchimie spirituali. Il motivo di questo è che l’amore è propensione verso l’unione; questa propensione può essere un movimento verso l’Immutabile, l’Assoluto, o verso l’Illimitato, l’Infinito. Sul piano delle relazioni umane, un particolare tipo di amore è il sostegno dell’Amore stesso; l’amore dell’uomo per la donna può essere paragonato alla tendenza liberatoria verso l’Infinito Divino - dove la donna personifica la Somma Possibilità; mentre l’amore per la donna verso l’uomo è paragonabile alla stabilizzante tendenza verso il Centro Divino, che offre certezza assoluta e assoluta sicurezza. Tuttavia, ciascun compagno partecipa nella posizione dell’altro, dato che ognuno è un essere umano e che, in questo rispetto, la scissione sessuale è secondaria. Per quanto riguarda la sessualità in sé, il Sufi Ibn Arabi ritiene che l’unione sessuale, nell’ordine naturale, sia l’immagine più adeguata della Conoscenza Suprema: dell’Estinzione in Allah, del “Conoscitore attraverso Allah”. Il viaggio iniziatico[17] racchiude un’Illuminazione. Essa è generata gradualmente, oppure in un tempo unico, o ancora al momento della morte, quando il dramma psicosomatico favorisce questa irruzione di Luce. È, per un grado o per un altro, Moksha, Bodhi, Satori[18]. L’estasi è una circostanza analoga, ma di ordine differente, poiché non produce in sé uno stadio duraturo. L’Illuminazione, che per di più presuppone sforzi persistenti e spesso prove severe, è stata spesso prospettata come un mistero d’Amore proprio perché si tratta di una realtà integrale e quasi esistenziale che trascende il gioco mentale di congetture e conclusioni: l'Amore che muove il sole e l'altre stelle. Il viaggio iniziatico prospetta due dimensioni morali di primaria importanza, una esclusiva e ascetica e l’altra inclusiva e simbolica - o estetica, se così si può dire. Tra gli aspiranti alla Liberazione, vi sono innanzitutto coloro i quali, nel nome della Verità, si ritirano dal mondo, come i frati o sannyâsîs; poi ci sono coloro che, nel nome della stessa Verità, rimangono nel mondo e cercano di trasmutare in oro il piombo che a priori il mondo offre, come gli adepti delle iniziazioni cavalleresche e artigianali. Se Shankara[19] raccomandava il sentiero ascetico, è perché è il più sicuro, data la debolezza umana, ma specificava in uno dei suoi scritti che “colui che è liberato in questa vita”, il jivan-mukta, può armoniosamente e vittoriosamente adattarsi a qualsiasi situazione sociale si conformi al Dharma universale, come è mostrato al livello più elevato dall’esempio di Krishna[20]. Per un verso, bisogna vedere Dio in Sé, al di là del mondo, nel Vuoto della Trascendenza. Per un altro e ipso facto, bisogna vedere Dio ovunque, prima nell’esistenza miracolosa delle cose e poi nelle loro qualità teomorfiche e positive. Una volta capita la Trascendenza, l’Immanenza si rivela in sé e per sé. Nel clima buddista, come in quello indù, si incontra un altruismo mistico che protesta contro “la ricerca di una salvezza egoista”: sembra che non si debba sperare di salvare se stessi, ma bisogni allo stesso tempo desiderare di salvare gli altri, proprio tutti, almeno secondo le proprie intenzioni. Ora, una salvezza egoista è una contraddizione in termini: un egoista non ottiene la salvezza, non c’è posto in Paradiso per un taccagno. Gli altruisti non vedono che nel Sentiero, la distinzione tra “io” e “altri” scompare: ogni realizzazione di salvezza è, per così dire, realizzazione in sé, ed essendo così, una realizzazione ottenuta da una persona ha sempre una radiosità invisibile che benedice l’ambiente. Non c’è bisogno di un sentimentalismo che salvi la Verità, perché con la Verità, l’amore è un dato già esistente. Il cerchio si chiude con una Beatitudine transpersonale e infinitamente generosa. L’Amore per il Creatore implica l’Amore per le creature, e la vera carità implica l’Amore di Dio, della Realtà Divina - o qualunque sia il suo Nome. *** La Dottrina Advaitica[21] racchiude in sé l’idea fondamentale della Verità gerarchica: innanzitutto vi è la Verità una ed assoluta, ma questa non esclude le verità diversificate e relative. Al contrario, le appoggia, poiché esse offrono ai comuni mortali tutto ciò che sono in grado di capire e tutto ciò che può salvarli. Da un lato, ciò che è vero salva ipso facto, dall’altro, ciò che è vero possiede un potere di salvezza. Questo è ciò che non deve esser perso di vista quando si considerano le sconcertanti diversità dei Sentieri liberatori, e non solo delle sette, ma anche dei Sentieri intrinsecamente ortodossi, qualunque siano i demeriti degli uomini che li rappresentano. Senza dubbio esistono dottrine impegnative che non possono soddisfare tutte le richieste di spiegazioni causali, ma vi sono verità di cui tutti gli uomini devono prendere atto, azioni che tutti devono eseguire, bellezze che tutti devono realizzare. In altre parole, vi è un messaggio per l’ultimo dei mortali. Verità, Preghiera, Virtù - è tutto lì.
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