Ananda Kentish
Coomaraswamy
ORIENTE E OCCIDENTE
( tratto da "Sapienza orientale e
cultura occidentale", Rusconi, Milano 1975, pp. 93-106 )
"Oriente e Occidente" implica
un'antitesi culturale più che geografica: è un'opposizione tra il modo di vivere
misurato o tradizionale che sopravvive in Oriente e il modo di vivere moderno e
disordinato che attualmente prevale in Occidente. Un'opposizione come questa non
poteva essere avvertita prima del Rinascimento, e perciò possiamo dire che
questo problema si presenta solo accidentalmente in termini geografici, perché è
un problema di tempi più che di luoghi. Se infatti si escludono le filosofie
"modernistiche" e individualistiche di oggi e consideriamo soltanto la grande
tradizione costituita dai più eletti spiriti filosofici, la cui filosofia,
essendo pure una religione, doveva essere vissuta per venire compresa, si
constata subito che le distinzioni tra cultura d'Oriente e cultura d'Occidente,
oppure tra Nord e Sud, sono paragonabili alle distinzioni tra i dialetti: tutti
parliamo un unico linguaggio spirituale, il quale pur utilizzando parole
differenti esprime le stesse idee, e molto spesso per mezzo di espressioni
identiche. Detto diversamente: esiste la lingua universalmente intelligibile -
non solamente verbale ma anche visiva - delle idee basilari su cui si sono
costruite le diverse civiltà.
Esiste perciò, in questa assiologia o corpo di principi fondamentali comunemente
accettati, un complesso comune di linguaggio; e questo ci fornisce la necessaria
base per comunicare, per intendere per accordarci, cioè per applicare insieme i
valori spirituali comuni alla soluzione dei problemi contingenti
dell'organizzazione e del costume. È chiaro tuttavia che questa comprensione e
questo accordo possono essere scoperti e verificati soltanto da filosofi o
studiosi - se ve ne sono - che siano più che filologi e per i quali la
conoscenza della grande tradizione sia stata un'esperienza vitale e
trasformatrice; questi filosofi o studiosi formeranno il lievito, il fermento
che potrà "rinnovare nella conoscenza" le civiltà imitatrici di oggi. Nel
prendere da san Paolo questa espressione non intendo riferirmi a una conoscenza
"scientifica" o a un potere tecnologico sulla natura, ma alla conoscenza del
proprio Sé, che i veri filosofi dell'Oriente come dell'Occidente hanno sempre
considerata come la conditio sine qua non della sapienza; perché qui
non contano la "mancanza di istruzione" o l'ignoranza dei "fatti", ma importa
ridare significato o valore a un mondo dalla "realtà impoverita". Oriente e
Occidente si trovano in disaccordo sulle finalità solamente perché l'Occidente è
determinato, cioè deciso ed economicamente "risoluto" ad avanzare verso
una meta indefinita, e chiama "progresso" questo viaggio alla deriva.
Molto più di ogni forma di partecipazione attiva e diretta alla politica o
all'economia conta ciò che i nostri filosofi o studiosi potrebbero essere con la
loro opera di mediazione, conta molto più la loro semplice presenza
catalizzatrice; non avendo diritto di voto e di "rappresentanza" a Ginevra, e
rimanendo nell'ombra, non susciterebbero neppure opposizioni. Pensando a queste
persone ideali, mi vengono alla mente oggi soltanto due o tre nomi: René Guénon,
Frithjof Schuon, Marcos Pallis; escludo, da questo punto di vista, coloro che
conoscono, anche se a fondo, o soltanto l'Occidente o soltanto l'Oriente.
D'altra, parte, la semplice buona volontà o la filantropia non sono sufficienti;
e mentre è vero che le soluzioni giuste sono necessariamente buone, non ne
consegue che sia giusto quello che all'altruista pare buono. Non c'è posto, in
questa dimensione, per la "furia di proselitismo" degli "idealisti". Ciò cui
mira effettivamente il "secolo dell'uomo comune" e l'uomo economico, l'uomo
predeterminato economicamente, per il quale il meglio e il peggio non hanno una
motivazione morale. (Un uomo siffatto, per i nostri fini è di gran lunga troppo
"comune".) Ma quanti dei nostri "comunisti", mi domando, sanno che,
originariamente "uomo comune" (communis homo) significava non uomo
della strada ma la deità immanente, l'Uomo autentico che è insito in ogni uomo?
E che cosa significa "libera iniziativa"? Questo: "la sua mano [quella dell'uomo
"comune" nel significato attuale] contro le mani di tutti, e le mani di tutti
contro di lui": abbiamo qui i semi fertili delle guerre del futuro. Ciò che noi
esigiamo è qualcosa di diverso da un livello di vita quantitativo: chiediamo una
forma di società nella quale, come dice sant'Agostino, "ognuno ha il suo posto
preordinato da Dio, dove trova la sua sicurezza, l'onore, la soddisfazione,
senza provare invidia per l'altrui superiorità e felicità, e per il rispetto di
cui altri godono; una società nella quale Dio è cercato e trovato, e viene
esaltato in ogni cosa"; una società nella quale, secondo le parole di Pio XII,
"ogni attività ha una sua dignità intrinseca e allo stesso tempo uno stretto
rapporto con il perfezionamento della persona umana". (E questo non è che un
sommario quasi letterale della vera filosofia del lavoro proposta da Platone e
dalla Bhagavad Gita).
Per quanto io conosca, nessuna forma di società si è avvicinata a questo ideale
quanto la società indiana, della quale sir George Birdwood, un cristiano
convinto ed esemplare, affermava: "Questo ordine ideale ci sembrava
irrealizzabile, eppure esso continua a esistere [benché ormai in modo precario]
e ci offre, nei suoi risultati quotidiani tuttora esistenti in India, una prova
di quanto la civiltà ieratica dell'antichità sia superiore, in così numerose e
imprevedibili maniere, alla civiltà profana, triste, vuota e suicida
dell'Occidente".
Domandiamoci perché quasi tutte le nazioni occidentali sono guardate con paura,
odio o diffidenza dalla maggior parte dei popoli dell'Oriente, e domandiamoci se
gli occidentali meritano irrimediabilmente la fama di distruttori, gente che
dove passa lascia il deserto e lo chiama pace. Già nel 1761 William Law chiedeva
di "osservare come tutta la cristianità europea naviga tutt'intorno al globo
portando fuoco e spada e tutte le omicide arti della guerra, per impadronirsi
delle terre e uccidere gli abitanti delle due Indie. Quale diritto naturale
dell'uomo, quale virtù soprannaturale, quale Cristo disceso dal Cielo non è
stato calpestato sotto i piedi? Tutto ciò che si è letto o udito sulla barbarie
dei pagani è stato superato dai conquistatori cristiani. E a tutt'oggi, quali
guerre di cristiani contro cristiani..., per la misera divisione del bottino di
un mondo pagano saccheggiato!". Scritte dopo appena un anno di trionfi militari
inglesi "in ognuna delle, quattro parti del mondo", queste parole, come quelle
dei capitoli conclusivi dei Viaggi di Gulliver, potrebbero essere state
pubblicate vent'anni fa, quando si sparse la notizia dei massacri di Amritsar, o
addirittura ai giorni nostri, in cui si è ammesso ufficialmente che fin
dall'inizio della guerra attuale i soldati inglesi hanno più volte sparato su
folle inermi; quando il fustigare è punizione comune per i reati politici e
migliaia di deputati regolarmente eletti o di esponenti di gruppi politici (per
la maggior parte impegnati nell'uso dei soli mezzi "non violenti") sono stati a
lungo incarcerati senza accuse specifiche o processi; quando ognuno può temere
di essere un giorno o l'altro arrestato e trattenuto in cella di isolamento.
Tutto questo perché "la perdita dell'India sarebbe la rovina completa
dell'impero britannico", e il governo britannico - questo "Uncino" ("Namuci", il
Fafnir degli indiani o il "faraone" descritto da Ezechiele 29, 3)
dell'epoca attuale - intende tenersi le proprie illecite conquiste in nome di
una "responsabilità morale" verso popoli che possono, sì, essere stati divisi
contro se stessi (divide et impera), ma che sicuramente divisi non sono
nella volontà di essere liberi di risolvere le proprie difficoltà. Nessuna
meraviglia allora che i pagani si scatenino, non già colpendo "alla cieca", ma
perché vedono fin troppo chiaramente che l'impero è una istituzione commerciale
e finanziaria che ha per scopo finale il furto [1].
Ma la politica e l'economia, sebbene non possano essere ignorate, costituiscono
soltanto l'aspetto più esteriore e secondario del nostro problema: non sarà
attraverso la politica e l'economia che si potrà, raggiungere la comprensione e
l'accordo, bensì, all'opposto, sarà la comprensione ad avviare a soluzione i
problemi economici e politici. Il primo problema spirituale da risolvere in
comune (onde evitare la pura e semplice imposizione dei propri costumi agli
altri popoli) è l'esclusione del movente del profitto, dal quale invece oggi
sono in egual misura dominati e inibiti sia il lavoro sia il capitale. (Su
questo problema sta formandosi un consenso di principio.) In altre parole, il
problema di restaurare il concetto di vocazione, non concepita come una scelta
arbitraria o come una determinazione passiva imposta da necessità finanziarie o
dall'ambizione sociale, bensì intesa come attività alla quale si viene spinti
dalla propria natura e nella quale, di conseguenza, la perfezione del prodotto è
insieme espressione completa delle possibilità interiori (entelechia) dell'uomo.
È innegabile che in questo modo, come dice Platone, "sarà fatto di più, e
meglio, e più facilmente che in qualsiasi altro modo", una frase che sembra
trovare la sua parafrasi quasi letterale nel precetto: "Cercate prima di tutto
il Regno di Dio e la sua giustizia" (dikaiosune = dharma) e nella
promessa: "Tutte queste cose vi saranno date in soprappiù".
In un ordine basato sulla "vocazione" si presuppone che ogni professione (ogni
"strada" della vita) sia appropriata a chi la esercita e conforme alla dignità
umana; questo significa, in ultima analisi, che se esistono occupazioni che
non sono consone alla dignità umana e cose che sono intrinsecamente turpi,
simili occupazioni e prodotti debbono essere rifiutati da una società che abbia
a cuore la dignità di tutti i suoi membri. Qui tocchiamo il problema dell'uso o
abuso della macchina: si ha uso quando l'utensile dà al lavoratore la
possibilità di compiere bene ciò che deve compiere, provando soddisfazione in
ciò che compie; si ha abuso quando qualcuno diverso dal lavoratore collega allo
strumento un interesse che è opposto a quelli del lavoratore, sicché lo
strumento diventa giudice e controllore della qualità e del genere dei prodotti
del lavoro. La distinzione tra l'utensile e la macchina; l'utensile, complicato
quanto si voglia, aiuta l'uomo a realizzare l'oggetto che egli ha in mente,
mentre la macchina, semplice quanto si voglia, rende suo servo l'uomo e di fatto
lo controlla. Questo è il problema da risolvere se si vuole "preservare il mondo
per la democrazia" e salvarlo dallo sfruttamento; ed è un problema che può
essere risolto soltanto di comune accordo, quando siano compresi gli ideali
dei sistemi tradizionali di "casta" e ci si renda pienamente conto che questi
ideali potranno trovare realizzazione non entro le strutture di un
industrialismo capitalistico, per quanto "democratico", ma solamente nell'ambito
di una struttura nella quale la produzione abbia come scopo primario il "buon
uso". Né questo problema va considerato esclusivamente dal punto di vista del
produttore; ci sono valori anche nel punto di vista del consumatore: d'altronde,
chi non è consumatore? Bisogna riconoscere (le prove sono a portata di mano in
ogni buon museo) che la macchina - così come l'abbiamo definita sopra - non è
l'equivalente dell'utensile ma un surrogato, e che tutto quanto è prodotto dalla
macchina direttamente a uso dell'uomo è qualitativamente inferiore a ciò che è
prodotto con l'aiuto degli utensili. Ho notato una volta la pubblicità di un
commerciante di tappeti usati, il quale era disposto a pagare cinquanta dollari
quelli "americani" e cinquecento dollari quelli "orientali". In definitiva tocca
al consumatore decidere se vuole vivere a livello dei cinquanta o del
cinquecento dollari; ma nessuna società organizzata sulla base della "legge dei
pescicani" può accettare la seconda ipotesi. La combinazione della qualità con
la quantità è chimera, come il voler servire contemporaneamente Dio e Mammona,
ed egualmente irrealizzabile. Non riusciremo mai ad ammettere che la
"ricchezza" o gli "alti livelli di vita" possano essere misurati in termini di
quantità e di prezzi concorrenziali.
Mancando la conoscenza e l'accordo sui più alti livelli cui fare riferimento,
esiste il pericolo imminente che tutto quanto si fa con coraggio per l'avvento
di un mondo nuovo di generale fraternità si riduca, nella migliore delle
ipotesi, alla pura possibilità di mangiare, bere e stare allegri insieme in
quegli intervalli di cosiddetta "pace" che di quando in quando interrompono le
guerre di conquista o di pacificazione o di educazione. L'opera dei "missionari"
- si tratti di religione, di umanitarismo scientifico, di industrializzazione -
è più una forza di livellamento che di innalzamento; anzi, fondamentalmente essa
altro non è che una riduzione delle culture del mondo al loro più basso comune
denominatore ("Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno!"). Per dare
la felicità non è sufficiente trapiantare su altri lidi riproduzioni esatte
delle moderne istituzioni e sistemi di vita nei quali l'Occidente in massima
parte ancora crede, anche se sono stati proprio essi a causare le sue disgrazie;
e neppure è sufficiente sognare di mescolare l'olio della "giustizia economica"
con l'aceto di un "commercio mondiale" concorrenziale; l'Oriente arretrato,
proprio in quanto ancora "arretrato", ha molta più felicità e tranquillità, e
molto meno timore di fronte alla vita e alla morte di quanto ne abbia mai avuto
o ne possa avere l'Occidente "progredito". Il darsi da fare per "conquistare" la
natura, il considerare "divina" l'insoddisfazione, il tributare onori a quanti
lavorano alla ricerca di "nuovi bisogni" [2], il sacrificare la spontaneità
all'idea di un "progresso inevitabile", [3] sono tutti dogmi del "vangelo
sociale" che l'Oriente non ha mai considerato capaci di procurare la felicità.
Da ciò che abbiamo detto appare chiaro che il movimento di "avvicinamento" tra
Oriente e Occidente dovrà nascere in Occidente, anche perché è stato l'Occidente
moderno a rinunciare per primo a quelle che una volta erano le norme comuni,
mentre queste sono tuttora seguite da quanto sopravvive dell'Oriente - ed è
ancora la massima parte -, benché abbiano perso e stiano ancora perdendo
terreno. Vero è che esiste un altro Oriente, modernizzato, strappato alle sue
radici, con il quale l'Occidente può entrare in concorrenza, ma una cooperazione
sarà possibile solamente con l'Oriente che sopravvive, l'Oriente "superstizioso"
(nel senso originario di superstare, "stare sopra": l'Oriente di Gandhi, l'unico
che non abbia tentato di vivere di solo pane). Chi conosce questo Oriente? Dai
nostri filosofi, dai nostri studiosi e teologi, noi abbiamo il diritto di
aspettarci questa conoscenza; in effetti, la responsabilità delle future
relazioni internazionali ricade in primo luogo sulle nostre università e Chiese
occidentali, sui nostri "educatori", anche se oggi essi sono poco in grado di
cooperare a "dissipare le nebbie dell'ignoranza che nascondono l'Oriente
all'Occidente". Abbiamo bisogno di studiosi (sui pulpiti come nelle aule
scolastiche e alla radio) per i quali non solamente il latino e il greco ma
anche l'arabo e il persiano, il sanscrito o il tamil, il cinese o il tibetano
siano ancora lingue vive in cui sappiano dare una formulazione a principi validi
per la vita di tutti gli uomini; abbiamo bisogno di traduttori i quali abbiano
bene in mente il principio che per tradurre senza tradire bisogna aver
sperimentato in se stessi il contenuto di quanto si deve "trasbordare sull'altra
sponda". Abbiamo bisogno di teologi i quali non pensino o pensino meno in
termini di teologia cristiana e più in termini di teologia islamica o indù o
taoista; teologi i quali abbiano verificato di persona che, come ha detto
Filone, tutti gli uomini, "siano essi greci o barbari", in realtà riconoscono e
servono l'unico e identico Dio sotto qualsiasi nome, o, se si preferisce,
riconoscono e servono l'unico e immanente "Figlio dell'Uomo", il Figlio di cui
parlava Meister Eckhart quando diceva: "Chi vede me vede mio figlio". Abbiamo
bisogno di antropologi della levatura di Richard St. Barbe Baker, Karl von
Spiess, padre W. Schmidt e Nora K. Chadwick; occorrono studiosi del folclore,
quali J. F. Campbell e Alexander Carmichael. (Per gli "esperti in materia", il
professor A. A. Macdonell e sir J. G. Frazer sono paragonabili ai taglialegna o
portatori d'acqua.)
Abbiamo bisogno di mediatori per i quali il terreno comune del colloquio sia
ancora una realtà, uomini che purtroppo raramente vengono dalle scuole pubbliche
o dalle università moderne. E questo significa che il problema principale sta
nella rieducazione dei literati occidentali. [4] Più di uno di questi
literati mi ha confidato come gli siano occorsi dieci anni per liberarsi di
una formazione "alla Harvard"; non ho idea di quanti anni siano necessari per
superare una formazione ricevuta in un collegio missionario o per guarire da un
corso di conferenze sulla religione comparata tenuto da un calvinista. Abbiamo
bisogno di "reazionari" capaci di ricominciare da zero, cioè da un in
principio in senso più logico che temporale, sicuramente non nel senso
riduttivo di ante quo bellum, che il punto dal quale comincia la
formazione dell'immemore "uomo comune" di oggi. Per "reazionari" intendo uomini
che, quando le cose sono arrivate a un punto morto, non temono di sentirsi dire
che "non si possono spostare all'indietro le lancette dell'orologio" o che "la
macchina si è inceppata". Ciò che effettivamente vogliono i miei reazionari -
per i quali non esiste il cosiddetto "passato morto" - non è già spostare
all'indietro le lancette degli orologi ma spostarle piuttosto in avanti, verso
un nuovo meriggio. Abbiamo bisogno di uomini che non temano di sentirsi dire che
"la natura umana non si può cambiare"; il che è vero nel suo significato
autentico, ma non più se pensiamo, erroneamente, che la natura umana è
esclusivamente economica. Che cosa si può pensare di un uomo che avendo perso la
strada, arrivato all'orlo di un precipizio - e non è forse verso una "balza
scoscesa sul mare" che sta scivolando oggi la civiltà europea con tutte le sue
possibili buone intenzioni? -, fosse così pazzo o così orgoglioso da non voler
tornare sui propri passi? Chi in questa circostanza non tornerebbe sui propri
passi, se almeno sapesse come fare? La dimostrazione di ciò l'abbiamo nella
molteplicità dei "progetti" per un mondo migliore che l'uomo persegue,
dimenticando che "una sola cosa è necessaria". L'Occidente moderno deve essere
"rinnovato... nella conoscenza".
Anche qui, però, dobbiamo fare attenzione, perché due conseguenze, molto
diverse, possono derivare dal contatto culturale tra Oriente e Occidente. Si può
- secondo l'esperienza di Jawaharlal Nehru, e lo diciamo con le sue stesse
parole - "diventare un miscuglio bizzarro di Oriente e di Occidente, fuori posto
dappertutto e a casa in nessun luogo"; oppure si può, sempre restando se stessi,
imparare a sentirsi "a posto" in qualsiasi luogo e "a casa" dappertutto:
cittadini del mondo, nel senso più profondo dell'espressione.
Il problema è di "educazione" o, in altre parole, di "reminiscenza"; quando sarà
stato risolto, quando cioè l'Occidente avrà ritrovato se stesso - cioè l'Io di
tutti gli altri uomini - sarà risolto anche il problema del capire il
"misterioso" Oriente, e non resterà che trasferire nella pratica ciò che è stato
richiamato alla memoria; altrimenti, il mondo intero si ridurrà allo stato in
cui si trova attualmente l'Europa. La scelta è in definitiva tra un movimento
diretto deliberatamente verso un traguardo previsto ("destino") e la
sottomissione passiva a un progredire inesorabile ("fato"); tra un modo di
vivere carico di valori e di significati e un modo di vivere vuoto e senza
senso.
1- "È del tutto conveniente che
in Inghilterra una buona percentuale dei prodotti della terra sia destinata a
sostenere il benessere di alcune famiglie, a produrre senatori, saggi ed eroi al
servizio e in difesa dello Stato..., ma in India quello spirito
arrogante, quella indipendenza e profondità di pensiero che
derivano talvolta dal possesso di una grande ricchezza dovrebbero essere
soppressi, perché direttamente contrari al nostro potere politico"
(relazione della commissione Skeen, H. M. Stationery Office, Londra, e sul
"Time" di Londra, agosto 1927, p. 9). (Corsivo mio). Un simile scoperto cinismo
è infinitamente preferibile al sentimentalismo di coloro che si meravigliano che
gli indiani non si dimostrino "riconoscenti" per tutti i benefici che il regime
inglese ha portato con sé. L'impiegato statale inglese, pagato con denaro
indiano, non ha il diritto di dedicarsi ad altro se non al bene dell'India;
personalmente egli può essere più o meno simpatico, però il suo lavoro è
semplicemente il suo dovere, il quale, se compiuto bene, merita rispetto ma
difficilmente procura gratitudine. "Il regime straniero è una terribile
maledizione e i vantaggi di secondaria importanza che esso può arrecare non
potranno mai compensare la degradazione spirituale che esso porta con sé" ("Hindustan
Times", 25 novembre 1945).
2- "L'elemento comune dell'intera situazione sta in questi semplici fatti: in
ogni periodo storico i bisogni materiali dell'individuo sono limitati in maniera
definitiva; ogni tentativo di allargare artificialmente questi bisogni materiali
interferisce con la chiara tendenza dell'evoluzione, che porta a subordinare ciò
che è materia alle esigenze spirituali e psicologiche dell'individuo; la spinta
che sta alle spalle dell'industrializzazione sfrenata non è progressiva ma
reazionaria" (DOUGLAS, Economic Democracy, 1918, cit. da L. BIRCH in
The Waggoner on the Footplate, 1933, p. 130). "Generalmente le migliori
qualità di un popolo si offuscano quando gli impegni reciproci vengono
sostituiti da valori monetari; così si perde il senso della collaborazione e
dell'impegno, che viene sostituito da un confuso contratto meramente legale e
non morale. Si può giustamente affermare che il servo del Medioevo feudale era
più libero e aveva più sicurezza e dignità che non il moderno stipendiato,
schiavo del proprio stipendio. Questo aspetto è stato trascurato e negato dagli
storiografi liberali, sinceramente fiduciosi nelle glorie del laissez-faire
e nelle bellezze del "si salvi chi può"" (CONTE DI PORTSMOUTH, Alternative
to death, 1944, p. 87).
3- "In India ogni occupazione è un sacerdozio... Mestieri e riti religiosi non
possono essere distinti con precisione: agli uni e agli altri si applica lo
stesso termine sanscrito karma, che significa "azione", "opera"... Si
può cacciare un mercenario, non un servo ereditario. Tranquillità e buon
servizio, quindi, si otterranno soltanto usando tatto e belle maniere. La
servitù ereditaria è del tutto incompatibile con l'industrializzazione attuale,
ed è per questo che essa è dipinta a tinte più fosche" (A. M. HOCART, Les
castes, 1938, pp. 27, 28, 238). "L'elemento più importante [della illusione
chiamata Progresso] è stato il trionfo di Mammona nella rivoluzione industriale,
che ha disorganizzato la Chiesa, ha creato un nuovo feudalesimo, riducendo
nuovamente il figlio dell'uomo a schiavo questa volta di una macchina e di una
legge dettata dalla macchina. Effetto di quest'ultima fase è l'importanza che il
secolo decimonono ha dato alla puntualità considerata come una virtù; e ciò non
già per motivi di riguardo nei confronti degli altri ma unicamente perché non si
può pretendere che un padrone lasci la macchina inattiva in attesa dell'uomo,
del "figlio dell'uomo". Questi è diventato un ingranaggio della grande macchina,
mentre, per l'industriale, il vapore è lo Spirito Santo, di cui riconosce la
divinità... La Chiesa, attraverso le sue vicissitudini, ha forse salvaguardato a
sufficienza l'insegnamento e i trionfi di Nostro Signore ricollocando il "figlio
dell'uomo" al suo debito posto, cioè assiso alla destra del potere?" (F. W.
BUCKLER, The Epiphany of the Cross, cit., pp. 64, 69).
4- "I nostri inconsci pregiudizi nazionalistici hanno già ostacolato qualsiasi
significativa cooperazione filosofica in quest'area limitata che è l'Europa, ma
ancor più radicalmente il nostro complesso di superiorità occidentale (che
domina manifestamente filosofi e altra gente) ha impedito ogni autentica
cooperazione tra i pensatori dell'Occidente e quelli dell'Oriente. Noi diamo per
scontato, che tutte le soluzioni accettabili per ogni vero problema possono
essere o saranno trovate nella tradizione occidentale. Questa presuntuosa e
farisaica autocompiacenza è una delle cause delle guerre, ed entra come
coefficiente in altre cause ancora. È questa la causa che i filosofi sono tenuti
a rimuovere per prima. E lo potranno soltanto acquistando un interesse profondo
e costante verso prospettive filosofiche diverse dalla loro, quelle, in
particolare, dell'America Latina, della Russia, della Cina e dell'India. Perché
tale interesse si concreti sarà necessario lo sviluppo delle sezioni
filosofiche, che dovranno comprendere insegnanti di queste materie; più
frequenti viaggi di filosofi, aiutati in questo dai nuovi metodi di visite di
studio e di scambio di professori; una più generalizzata padronanza degli
strumenti linguistici indispensabili" (E. A. BURTT, in "The Journal of
Philosophy", 42, 1945, p. 490).
Da:
http://members.xoom.virgilio.it/_XOOM/alchemica/orienteoccidente.html
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