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Oltre Evola, oltre Guénon Metafisica e ontologia
1. Oltre Guénon Il punto di disaccordo tra Evola e Guénon si situa a un livello molto profondo e lo si può scoprire a partire dalla concezione evoliana della magia. La concezione che Evola ha della magia intorno al 1930 (cioè dopo la lettura di Guénon) è diversa da quella che ne ha nel 1924. Però l'interpretazione tradizionale della magia sviluppa germi presenti già nell'interpretazione idealistica, e li sviluppa in senso non guénoniano. Secondo Di Vona, il quale ricorda che l'intesa tra Evola e Guénon non fu mai completa, «tutto il sapere iniziatico e magico che Evola poté adunare prima del suo incontro con Guénon, solo dall'idea guénoniana di tradizione ricevette ordine» [DV, 15]. Ciò è condivisibile, nel senso che ricevette una giusta collocazione gerarchica. Però, dalla magia collocata al suo giusto posto, Evola trae una concezione dell'essere contrapposta a quella di Guénon, alla quale concezione era pervenuto già nel periodo idealista, anche se rimaneva difficile farla emergere dentro gli schemi e la terminologia di questa corrente filosofica. Le critiche severe di Guénon a L'uomo come potenza [cfr. DV, 210, nota 119] sono indicative del livello su cui si colloca il contrasto. La frattura è sulla concezione della potenza. Nella Teoria dell'individuo assoluto (stesura del 1924, per testimonianza di Evola) si parla già del Principio come potenza [p. 28] in termini irriducibili alla metafisica di Guénon. Nel rapporto tra il Principio e il mondo Evola distingue la forma della spontaneità (in cui il possibile si identifica col reale, e ciò che accade è solo ciò che poteva accadere) dalla forma della volontà, in cui il possibile eccede il reale. In questo secondo caso, il passaggio dal possibile al reale implica una decisione libera, un momento di dominio e di autarchia, un potere che domina, una potestas in cui risiede la ragione incondizionata dell'essere o del non essere dell'atto [Teoria, 250]. Nel caso della spontaneità, invece, la libertà risulta essere uno sviluppo privo di impedimenti esterni, ma condizionato internamente da un'intrinseca necessità. È quest'ultima la concezione di Guénon. Secondo Di Vona, la spontaneità per Guénon è un carattere della libertà umana, che in ciò non ha nulla di particolare: «La libertà umana è solo un caso specifico della spontaneità che spetta in proporzioni diverse a tutti gli esseri come tali» [DV, 138]. Il contrasto tra Evola e Guénon è quello tra una concezione statica dell'essere e una concezione dinamica, indicabile come non parmenidea. La concezione statica e immobilista causa la sorprendente cecità di Guénon per tutto ciò che «si muove», come ad esempio la grossolana inclusione della filosofia dei valori tra le «superstizioni moderne», il suo deliberato ignorare la filosofia tedesca del Novecento o quella spagnola, l'inconciliabilità del suo pensiero con le correnti personaliste, ecc. Per Guénon, ciò che è mutamento e instabilità ha sempre una connotazione negativa, e per lui non ne sono possibili altre: «Per gli orientali, il progresso occidentale non è che mutamento e instabilità, ed è il segno di una inferiorità manifesta» [DV, 69]. Questa entità che finisce col diventare astratta -gli orientali- ha deciso così. Per Guénon non ha importanza che certi altri orientali abbiano una concezione diversa del divenire. Né che in Occidente certe vedute culminanti in Talete, Ferecide o Eraclito fossero molto più antiche del fatidico VIII sec. a. C. Platone le rintraccia in Omero, e soprattutto le rintraccia nel linguaggio stesso, riportandole così a un'antichità abissale, e sottraendole ai confini di quella filosofia di cui Guénon non ha alcuna stima. Evola era già collocato ben oltre la concezione astratta e del tutto verbale della non-dualità, che per Guénon è il fondamento ultimo della tradizione. Il non-dualismo di Guénon conserva tutti i difetti del monismo vedantino e, pensato fino in fondo, comporta l'affermazione che il reale è illusorio. Al contrario, la concezione evoliana del Principio non implica mai l'illusorietà del mondo, anche se poi va a imbrigliarsi in altri problemi legati alla dottrina delle due nature. Per Guénon il Principio è inesprimibile in sé. Scrive Di Vona: «Riteniamo preminente la dottrina dell'inesprimibile nel pensiero di Guénon, e fondamentalmente islamica. A ben vedere, essa forma il fondamento stesso della sua idea di tradizione» [DV, 129]. Inoltre, il Principio viene caratterizzato come uno. Infine, tutta l'esistenza, tutto il reale è unità: «Presa in tutta la sua universalità, l'esistenza è unica e comprende la realizzazione effettiva di tutte le possibilità e di tutte le molteplicità della manifestazione. L'esistenza trae la sua unità dall'essere che abbraccia tutti gli stati di manifestazione e di non manifestazione» [DV, 131]. Se l'interpretazione di Di Vona è giusta (e io credo che lo sia) siamo in pieno clima parmenideo. Si può obiettare che Guénon concepisce un al di là dall'essere, inteso come stato incondizionato o possibilità universale, totale, infinita e assoluta; ma si tratta di un «al di là» del tutto illusorio. L'unità del reale si riferisce sia a ciò che è manifestato, sia a ciò che non è manifestato. Infatti il passaggio del non manifestato dalla possibilità all'atto è un'illusione relativa al punto di vista umano, interno alla manifestazione. Dal punto di vista del Principio, esso non esiste; tutto è simultaneo, il non manifestato è tanto in atto quanto il manifestato; per il Principio, la possibilità assoluta è tutta in atto, e dunque l'attualità del divino e la sua possibilità coincidono, non nel senso che la potenza è preminente sull'atto, ma nel senso che tutto è ridotto ad attualità che esclude il divenire (dal «punto di vista» del Principio). Dunque, l'al di là dell'essere è, per il Principio, attualità, e si può parlare di aldilà e di non manifestazione solo dal punto di vista illusorio dell'uomo. Checché ne dica Guénon, questa è filosofia, è Parmenide con tutti i suoi problemi, è filosofia che non sta in piedi. Le conferme si hanno nell'accettazione guénoniana dell'unicità dell'atto di essere; nel significato puramente analogico e simbolico di essere ed esistenza (intesa quest'ultima etimologicamente come dipendere e non come emergere ); nella concezione dell'intelletto divino come luogo dei possibili, che sono attuali in Dio. Per Guénon non può esistere niente di virtuale nel Principio, ma solo la permanente attualità di ogni cosa in un «eterno presente», ed è questa attualità che costituisce l'unico fondamento reale di ogni esistenza. Il fondamento del reale è l'attività della mente divina: attività in senso improprio, visto che il pensiero di Dio è la presenza contemporanea di tutti i pensieri possibili. Anche il termine pensiero è improprio, ma insostituibile. L'unico senso in cui si può parlare di trascendenza è che il mondo è il pensato e Dio il pensante. Dio pensante (ma non si abbia in vista il pensiero razionale, discorsivo) è il nucleo di ogni essere (essere = pensato da Dio). In questo senso il trascendente è anche immanente, pur non esaurendosi nell'immanenza. È il Sé (Soi ), assolutamente impersonale: l'essere umano, gli esseri particolari, sono contingenti modificazioni che non hanno alcuna influenza sul Principio. Il Sé non è mai individuato, né può esserlo, perché deve essere sempre considerato sotto l'aspetto dell'immutabilità e dell'eternità. È Dio in quanto pensante, necessariamente presente in me, in quanto pensato, ma presente come altro da me; immutabile lui, e immutabile alla fine anche io, perché il passaggio dalla possibilità all'atto è relativo. Fuori dalla manifestazione non può esserci successione, ma solo simultaneità: anche il virtuale è realizzato nell'eterno presente. Sotto il particolare punto di vista dell'eternità, la vita non si svolge, ma tutto è, ed è intelligibilità, intellezione. Ora, il punto di vista dell'eternità è vero, mentre quello umano è illusorio: la filosofia parmenidea subisce qui uno sviluppo in senso razionalista e idealista. La persona umana ne risulta negata:
Alla base di tutta la sua visione, e come una garanzia di autenticità, Guénon pone il fatto dell'iniziazione e della conseguente trasformazione della persona, che acquista la capacità di nuove evidenze. Tuttavia, ammessa la realtà dell'iniziazione, resta la possibilità di discutere l'elaborazione teorica che essa subisce. L'esperienza del sacro precede necessariamente la concettualizzazione del sacro, ma non garantisce che questa concettualizzazione sia ineccepibile. D'altro canto, tradizionalmente, l'iniziazione presenta almeno due interpretazioni (ve ne sono anche altre, ma sarebbero considerate poco ortodosse, in questo contesto, dagli scolastici guénoniani ed evoliani). Nel modo contemplativo alla Guénon, il punto che opera la trasformazione reale dell'uomo è l'intuizione intellettuale (buddhi ), cioè qualcosa che non è l'uomo, pur essendo dentro l'uomo. Nell'altra interpretazione, invece, la forza che produce la trasformazione si innesta nell'uomo, ma questo innesto avviene a seguito di un preciso comportamento umano, di una tecnica, persino di un modo che spesso viene simbolicamente descritto come violento. L'iniziazione sarebbe, in questo caso, la conseguenza di un'azione, che può essere la contemplazione (che è comunque un atto umano), ma può anche non esserlo. Nel primo caso si ha una preminenza del momento intellettivo sull'azione e sul fatto. L'agente della trasfigurazione non può che essere di natura intellettiva e non personale. L'uomo può disporsi a riceverne l'opera trasfigurante, accedendo al massimo grado possibile di astensione dall'agire: la contemplazione, appunto, l'estensione dell'intelletto oltre ogni misura. La metafisica che ne deriva è necessariamente intellettuale, e sfocia in idealismo per la necessità di tener fermo il principio di unità all'interno di una speculazione in cui la realtà metafisica viene differenziata completamente da ogni modo umano di vivere. Il problema è che, a seguito dell'iniziazione, l'uomo supera la condizione umana, non è più uomo. Però non cessa di essere persona. È proprio la persona che si perde dentro una concezione dell'essere come intelligibile. La comprensione concettuale della persona richiede una diversa concezione dell'essere, che non sia intellettuale e astratta da quel vivere che, altrimenti, si trasforma in illusione. L'iniziato non cessa mai di essere persona, non si confonde mai con Dio, in nessuna tradizione. Nella concezione magica di Evola, il ruolo assegnato all'uomo, che propizia l'innesto della forza trasfigurante, sfocia in una dottrina di potenza, le cui conseguenze a volte fanno inorridire i contemplativi: si finisce con l'accettare qualunque modo, purché sia efficace, per causare l'innesto. Si salva la realtà del mondo e della persona, ma si concepisce la realtà metafisica quasi nei termini di una forza meccanica. È il grosso pericolo del pensiero evoliano. Il limite maggiore della metafisica immobilista è che si tiene ferma l'idea dell'unità del reale, concettualizzandolo attraverso il principio d'identità, al quale viene riconosciuto un valore ontologico. Questo principio grossolano, affermabile solo sulla scorta di una concezione dell'essere che solo esso rende possibile (plateale petizione di principio) è responsabile della caratterizzazione della realtà metafisica come realtà immobile, nonché della sopravvalutazione dell'intelletto come unica facoltà che consenta la concettualizzazione del reale. Naturalmente, i concetti sono entità immobili, ma questo non basta per parlare di razionalismo. Il razionalismo si ha quando questa concezione viene considerata più reale della realtà sperimentata e vissuta, proprio per la sua immutabilità. È un pregiudizio che, una volta diventato operante, vanifica ogni distinzione tra la ragione umana (che produce ipotesi) e l'intelletto divino. L'intelletto divino è superiore a quello umano, e non possiamo affatto concepirlo; se lo caratterizziamo come ragione, la distinzione tra i due livelli scompare. Inoltre, per Guénon l'intelletto, inteso come organo della metafisica, è in realtà Dio che illumina l'uomo: non si tratta di una semplice facoltà umana, ma di un elemento trascendente e non umano. Come per Spinoza, l'intelletto umano, concepito da Guénon, è «parte» dell'intelletto superiore e infinito che procede immediatamente da Dio. Come si diceva, l'intelletto divino è puro atto: allora, se così stanno le cose, non riusciamo più a capire cosa sia l'ignoranza, come sia possibile nell'uomo. La contraddizione sorprendente di Guénon è che l'ignoranza (data l'unità tra intelletto umano e divino) è anch'essa illusoria. Illusorio è qualunque punto di vista interno alla manifestazione. La metafisica di Guénon equivale alla contemplazione del reale a partire da un punto di vista esterno alla manifestazione, però con il pregiudizio che fuori dalla manifestazione la realtà metafisica sia immobile e di natura intellettuale. Collateralmente, l'ignoranza metafisica si ritrova a essere inclusa nel principio stesso. Un altro gravissimo problema, che deriva dal pesante intellettualismo di Guénon, è la sua enorme svalutazione del fatto religioso, che si ritrova anche in Evola. Per Guénon la religione è una forma esteriore, un apparato, di cui un'élite si serve. L'espressione è forte, ma è deliberata. È molto interessante, al riguardo, la ricostruzione che Di Vona fa dell'interpretazione guénoniana del ruolo del cattolicesimo:
Di Vona sostiene che, almeno per un certo periodo, Guénon assegna un compito restauratore al cattolicesimo, e non alla massoneria, per puri motivi di praticità: perché ci si appoggiava a un'organizzazione effettivamente esistente e radicata. Questa interpretazione del ruolo del cattolicesimo, inteso come struttura istituzionale, prescinde completamente dal punto di vista religioso, che Guénon considera diverso da quello metafisico e di rango inferiore. Il cattolicesimo è un'organizzazione, e in più ha un apparato di simboli: naturalmente, l'interpretazione dei simboli è compito dell'élite. Ciò che i cattolici pensano, ad esempio dell'Incarnazione, non ha alcuna importanza, è exoterismo, fede grossolana: quel che conta è l'interpretazione metafisica, esoterica, dei significati occulti. Che Cristo sia Dio e si sia incarnato veramente è una fanfaluca per il popolo che in questo modo, credendo fandonie, entra a partecipare alla mistica gerarchia tradizionale. Di fronte a questo modo di considerare la religione, che viene condiviso anche da Evola, uno si può indignare per l'orgoglio intellettuale necessario a considerarsi pubblicamente come gli addetti stampa del Padreterno, ma si può anche riflettere pacatamente e chiedere: visto che stiamo parlando di dottrine tradizionali, e che ci si fa vanto di esporre la tradizione, non di inventarla o elaborarne una teoria personale, in quale mai tradizione reale si può rintracciare un punto di vista analogo a presto? A parte il bric-à-brac della massoneria e dei patetici gruppetti gnostici moderni. Quanto poi alla pretesa che la massoneria sia un'autentica organizzazione iniziatica, pretesa coltivata a tratti da Guénon, il sottoscritto preferisce stendere sulla cosa un pietoso velo di silenzio. Infine, veniamo al punto cruciale, che si ritrova anche in Evola. Per Guénon l'epoca attuale corrisponde alla negazione dei principi trascendenti, eterni e universali: il mondo moderno è intrinsecamente negativo. Nella concezione metafisica di Guénon, il mondo moderno è semplicemente un momento in un ordine più vasto, in un ciclo che, nella sua totalità, è ordine, è equilibrio di tendenze opposte. Lo sviluppo della manifestazione implica un allontanamento dal Principio e quindi un ritorno. Però si era detto che il Principio è sempre «vicino» a ogni punto della manifestazione, perché tutto è rigorosamente attuale nell'eterno presente di Dio: non c'è alcun allontanamento, non c'è alcuno sviluppo della manifestazione, dunque non si capisce quale ordine vi sarebbe nel momento di caos all'interno del ciclo. Rigorosamente parlando, non c'è alcun ciclo. Questa contraddizione è ancora nulla. Si ritiene infatti che la modernità sia lo sviluppo di possibilità inferiori incluse fin dall'inizio nel ciclo attuale della manifestazione, e chiamate a manifestarsi alla fine del ciclo stesso. Come può, però, Guénon abbandonare la sua prospettiva intellettuale, che considera tutto sub specie aeternitatis, e dichiarare inferiore la modernità, se questa stessa modernità, dal punto di vista dell'eterno, è necessaria e legittima, ed è attuale sempre, nell'eterno presente? E poi: inferiore in quale scala di misura? rispetto a cosa? con quale criterio di valutazione della superiorità? Che ha da opporre Guénon all'obiezione che accettare il caos è lecito e ha un significato metafisico, all'interno della sua stessa concezione della realtà? Il fatto è che in Guénon manca (semplicemente: manca) la morale. Chiuso nel suo monismo metafisico e statico, non riesce a concepire teoreticamente la libertà e l'assunzione di responsabilità che può produrre un atto illegittimo, arbitrario. Alla fine, la sola cosa che esiste è Dio, e Dio non pecca. Allora, che gliene viene all'uomo dalla rinuncia al divertimento e dall'impegno nella vita morale? Io credo che, da un punto di vista guénoniano, di fatto non gliene viene niente.
2. Oltre Evola Evola scopre Guénon nel 1928, secondo la sua stessa testimonianza, quando ha già interpretato l'idealismo nei termini della sua dottrina della potenza. Ha chiaro in mente che l'esperienza iniziatica è propiziata da un'azione diretta, principio che non è accettabile per Guénon. La concezione attiva di Evola è collegata alla dottrina delle due nature, l'essere e il divenire, che è prima di tutto una constatazione: l'analisi storica mostra infatti un dualismo di civiltà o di comportamento. Però Evola dà a questo dualismo una dimensione metafisica. La sua ricostruzione storiografica a posteriori della storia utilizza delle categorie molto rigide: «Mondo moderno e mondo tradizionale possono venir considerati come due tipi universali, come due categorie aprioriche della civiltà» [Rivolta, 10]. Qui scatta la stessa contraddizione presente in Guénon: se la modernità è una categoria metastorica, è negativa solo in senso relativo, non in senso assoluto, a meno che la negatività non caratterizzi in quanto tale la categoria metastorica stessa, cioè che sia intrinsecamente negativo un elemento metafisico. Il processo ciclico, che è una «legge generale oggettiva», è l'evoluzione da un archetipo metafisico a un altro: per inserire questi due archetipi in una gerarchia di valori, che considera l'uno positivo e l'altro negativo, occorre un criterio estrinseco e anch'esso metafisico; occorre una morale che definisca a priori il lecito e l'illecito, sulla scorta di un decreto divino. Il che, in Evola come in Guénon, manca. Evola si rende conto del problema e cerca una soluzione di tipo stoico: il vero è vero, il valore è valore, punto e basta. La cosa è nobile, ma non elimina l'obiezione teorica, né si tratta di una quisquilia. Ne derivano conseguenze gravi anche sul piano della vita quotidiana: sono molti che hanno tratto da Cavalcare la tigre una legittimazione dell'esistenza borghese, molti di più di quelli che hanno interpretato il libro in senso nichilista, facendo solo un maggiore scalpore. L'ultimo Evola, che lavorava a molte rettifiche, presenta spunti importanti e segni di recupero di un forte senso della storia e della persona umana concreta, spesso sacrificata nella sua speculazione precedente. Per esempio, in un articolo intitolato Il problema della decadenza, in Ricognizioni, dice che una gerarchia autenticamente tradizionale può essere rovesciata quando il singolo «usa della sua fondamentale libertà per privare la sua vita di ogni punto di riferimento e costituirsi a sé quasi come troncone» [Ricognizioni, 46]. Questa concezione della libertà, questo far dipendere la decadenza, l'allontanamento dalla tradizione, da una scelta illegittima del singolo, implica una serie di rettifiche sul piano metafisico. Precisa Evola:
Lasciamo stare il fatto che non è il cattolicesimo a «riportarsi» al principio esplicativo indicato da Evola, ma l'esatto contrario. Lasciamo anche stare il fatto che il libero arbitrio, essendo peraltro inserito in un quadro metafisico, rende la questione della decadenza tutto tranne che un «problema» o un «mistero». Sta di fatto che, per la prima volta, Evola radica la modernità in una decisione libera dell'uomo, subordinando le categorie metastoriche, di cui aveva sempre parlato, a un atto libero, a un atto storico. Questo significa rinunciare al determinismo del ciclo: tradizione e modernità sono ora schemi concettuali che indicano la condizione effettiva di una società: se gli uomini hanno deciso, storicamente, di rendersi autonomi, sfruttando la loro costitutiva libertà, allora si produce la modernità; se non lo decidono (e sono liberi di non deciderlo), allora la modernità non si produce; pertanto la decadenza non è un obbligo, non è una legge generale metafisica: l'uomo è liberato dalle leggi cicliche. Questo sviluppo ultimo di Evola rimane in sospeso, nella sua palese contraddizione col resto del suo pensiero: c'è un'interessante inserzione di idee cattoliche, nell'ultimo Evola, che squilibra il suo quadro teorico (e non mi si attribuisca niente di più di quanto sto dicendo). In un altro saggio, Il mito di Oriente e Occidente e l'incontro delle religioni, Evola afferma il valore ristretto del monismo orientale, soprattutto delle formulazioni estreme del Vedanta. L'immutabilità, l'immobilità, l'indeterminazione del Principio implicano che, rispetto ad esso, l'universo sia illusorio. Ma, commenta Evola, «tutto questo sistema presenta i caratteri di una "filosofia di Dio", ossia una visione sub specie aeternitatis, che sarebbe plausibile e senza difetto soltanto dal punto di vista dello stesso Principio, del Brahman, non già da quello dell'uomo nella misura in cui l'uomo non faccia senz'altro tutt'uno col Brahman. Altrimenti si affacciano subito gravi conseguenze» [Arco, 186]. Cioè: 1. Si parla dell'universo come passaggio all'atto, o sviluppo, di possibilità contenute nel Principio, ma contemporaneamente si dice che nel Principio tutte le possibilità sono in atto ab aeterno. 2. Attribuire una parvenza di realtà al processo della manifestazione, per l'uomo che c'è dentro, «non regge» a causa della premessa monistica, né si può affermare che l'uomo abbia un'esistenza propria, senza rompere il monismo. 3. L'affermazione dell'identità tra âtmâ e Brahman costringe a pensare che l'âtmâ nell'uomo soggiace all'illusione (mâyâ), con una reintroduzione della dualità nel principio. 4. Quando si afferma che tutto, tranne il Principio, è apparenza, risulta che chi fa una tale affermazione, non essendo egli stesso il Principio, è egli stesso apparenza, e illusoria sarà la sua dottrina (argomento famoso del tantrismo). 5. Il sistema filosofico monista è un'espressione concettuale di esperienza aventi un carattere sovrarazionale che viene presentato come assolutamente valido: questo è un arbitrio (ed è anche un siluro di Evola contro Guénon):
Si tratta di un assurdo, cui va opposta la concezione del principio come potestas, ossia
(Si noti, di passata, la sorprendente affermazione, contenuta nel saggio, dell'impersonalità del Principio, dopo che Evola stesso lo ha caratterizzato come volontà, potenza, libertà e coscienza! O vogliamo veramente credere che il Dio personale sia la raffigurazione del vecchio cucco con la barba?). È ovvio che questa posizione sia un addio a Guénon e all'idealismo, e un'affermazione (non nuova in Evola, anzi) della realtà del mondo. Resta però fermo il principio della non-dualità, nonostante l'idea dell'essere come potenza renda del tutto insignificante la polemica tra dualismo e monismo: entrambi i concetti perdono valore. Perché mai l'assoluto non dovrebbe porre in essere l'altro, inteso come un nucleo autonomo di potenza, le cui determinazioni sono, in positivo, un profilo che lo definisce, lo costituisce come reale e autonomo Se definiamo la struttura del divino come libertà-volontà-potenza-coscienza, non possiamo più sottomettere il termine atto ai limiti del principio di identità: il potere di Dio è in atto quanto la sua coscienza, ed è un potere che le cose siano. Se l'atto dell'universo è il risultato di un potere che esso sia, allora l'impostazione aristotelica non è più ammissibile: Dio non è atto puro, ma è potenza in atto appunto come potenza. La potenza acquista la priorità sull'atto. Questa stessa struttura la ritroviamo nell'uomo, con l'avvertenza di Zubiri che, mentre Dio è assolutamente assoluto, l'uomo è relativamente assoluto, e il limite che lo definisce come relativo è propriamente ciò grazie a cui è un uomo, e non un altro ente. Cioè l'uomo consiste in un nucleo personalizzato di libertà e potenza. Da qui certe possibilità inedite (inedite?) di interpretare simboli e immagini tradizionali in una direzione ben diversa da quella dei tradizionalisti idealisti o romantici. Per esempio, il concetto di immagine e somiglianza tra Dio e l'uomo potrebbe riferirsi alla struttura stessa dell'essere umano, pensabile come un deus occasionatus. O l'identità tra âtmâ e Brahman potrebbe essere intesa in senso molto profondo, non come riferimento a un asettico Sé, ma come identità strutturale del complesso potenza-libertà-volontà-coscienza, complesso dinamico e vivo, proiettato nel tempo secondo la paradossale formula delfica del divieni ciò che sei. Ma se nell'uomo il complesso è circoscritto dal limite che lo disegna, l'âtmâ è appunto la persona, la sua vocazione, il «chi sono», insomma il Me. Evola ha superato le secche dell'idealismo (guénoniano e non), però non ha saputo coniugare la realtà dell'uomo e la sua abissale libertà metafisica, che pure gli si è imposta all'attenzione, con il valore della storia, dell'azione umana. Alla fine la concretezza che ha inseguito gli si è infranta su una formulazione puramente concettuale della tradizione.
Testi citati
DV: Pietro Di Vona, Evola e Guénon, Napoli 1985. Teoria: Julius Evola, Teoria dell'individuo assoluto, Torino 1930. Rivolta: J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 1969. Ricognizioni; J. Evola, Ricognizioni: uomini e problemi, Roma 1974. Arco: J. Evola, L'arco e la clava, Milano 1971.
Da: http://www.ilbolerodiravel.org/ferra/oltre.htm
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