|
|
Questo articolo fu pubblicato per la prima volta sul dr. S. Krishnaswami
aiyangar commemoration volume (Madras) 1936 e fu riproposto dal Journal
of Indian History, xv, 1936. Qui si offre una seconda versione, con
successive revisioni ed un'addenda dell'autore.
Un solo Fuoco viene acceso in molti luoghi,
un solo Sole è presente per uno ed in tutto,
una sola Aurora illumina questo tutto: quello che è Uno solo diventa
questo tutto.
Rig-Veda VIII.58.2
Nella maggiore parte dei casi, l'erudizione moderna postula che nella
metafisica indù il concetto di Principio Unico sia solo uno sviluppo
posteriore in cui i diversi dei diventano, per così dire, poteri o aspetti
operativi o attributi personificati. Però, già Yâska[1] insegna
che è proprio per la gran divisibilità del principio il motivo per cui gli
sono applicati molti nomi, uno dopo l’altro: “Gli altri dei diventano (bhavanti)
parti secondarie dello Spirito Unico … il loro divenire è una nascita l’uno
da un altro, sono di una natura comunicata; nascono nella funzione[2] (karma);
lo Spirito è la loro origine … lo Spirito (Âtman) è il tutto di
quello che un Dio è” (Nirukta VII.4).
Analogamente nella Brâd DevatâI.70-74
vien detto: “è per l’immensità dello Spirito che lo chiamiamo con tanta
diversità di nomi[3],
a seconda dell’assegnazione delle sue sfere” I nomi sono innumerevoli solo
in quanto sono «differenziazioni», «presenze»[4].
I grandi saggi[5]
(kavayah), nei loro inni[6] (mantrēśu)
dicono che le divinità hanno una fonte comune; si chiamano con differenti
nomi secondo gli ambiti in cui sono stabiliti[7].
Alcuni dicono che partecipano di quello, o che tale è la loro derivazione;
ma per quel che riguarda la Trinità dei sovrani del mondo, si capisce bene
che la totalità della loro partecipazione (bhaktih) è nello Spirito (Âtman)[8].
I passaggi precedenti illustrano il metodo normale della teologia in ogni
esame de divinis nominibus,
quando il riconoscimento delle diverse operazioni di un principio unico dà
origine all’apparenza superficiale di un politeismo. Anche nel
cristianesimo, per esempio, si dice: “noi non diciamo l'unico Dio, perché la
divinità è comune a vari” (Summa Theologica I.31.2C);
più ancora, “Creare esseri appartiene a Dio secondo il Suo proprio essere,
cioè, la Sua essenza, che è comune alle tre Persone. Di qui che creare non è
peculiare ad un’unica Persona, bensì comune a tutta la Trinità”,Summa
Theologica I.45.6C e bisogna
capire bene che “Benché i nomi di Dio abbiano un unico riferimento comune,
tuttavia, poiché il riferimento si fa sotto molti e differenti aspetti,
questi nomi non sono sinonimici… I molteplici aspetti di questi nomi non
sono vuoti e vani, perché corrisponde a tutti loro un'unica realtà
rappresentata da ognuno di loro in una maniera diversa ed imperfetta”, Summa
Theologica I.13.a ad 21[9].
Sâyana nel Śatapatha Brâhmana (I.6.1.20)
dice: “Prajâpati è
inesplicito poiché Egli è essenzialmente tutti gli dei per questo che di Lui
non si può dire che «È questo o quello» ma solo che «Egli è»”.
Così anche Ermete Trismegisto: “Possiamo dire che è corretto attribuirgli il
nome di «Dio» o quello di Artefice o quello di Padre? No, i tre nomi sono
Suoi ed Egli è giustamente chiamato «Dio» in ragione del Suo potere,
«Artefice» in ragione dell’opera che fa e «Padre» in ragione della Sua
bontà” [Lib. XIV.4]. Plotino, allo stesso modo, scrive nelleEnneadi:
“La vita delle stelle dotate di anima è identica, poiché sono unite
all'Anima del Tutto, in modo che il loro movimento spaziale stesso ha il suo
centro nella loro identità e si risolve in un movimento che non è spaziale
ma vitale», Enn. IV.4.8.
È ben conosciuto che queste concezioni dell'identità del Primo Principio con
tutti i suoi poteri sono continui nei Brâhmana e
nell'Atharva Veda. Ad esempio si può trovare, nel Ŝatapatha
Brâhmana X.5.2.16: «in quanto
a questo dicono, “Allora la Morte è uno o molti?”. Uno deve rispondere, «Uno
e molti». Dunque, mentre Egli è Quello, la Persona nel Sole, Egli è anche
uno; e nello stesso tempo Egli è molteplicemente distribuito nei Suoi figli
ed Egli è molti», passo che deve essere letto insieme al verso 20: «Come uno
Lo cerca, così egli diventa»[10] ed Atharva
Veda Samhitâ VIII.9.26, “Un
unico Toro, un unico Profeta, un'unica Casa, un'unica Ordinanza, un unico Yakşa nel
Suo terreno, un'unica Stazione che non si svuota mai”; ed nell’Atharva
Veda Samhitâ I.12.1, Agni è
descritto come “Un'energia il cui progressione è tripla, (ekam ojas
tredhâ vicakrame)”.
La critica passa molto spesso sopra al fatto che questo punto di vista sia
sostenuto esplicitamente e ripetu-tamente nelRig-Veda da
non lasciare posto ad alcun equivoco. Un esame completo della formulazione
vedica del problema dell'uno e dei molti richiederebbe un esteso studio
sull'esemplarismo[11] vedico,
ma vogliamo richiamare l'attenzione sull'espressione viŝvam
âkam, "molteplicità integrale", del Rig-Veda
Samhitâ III.54.8. Tutto
quello che ci si propone ora è di riunire alcuni dei più notevoli tra i
testi vedici in cui si afferma categoricamente l'identità dell'uno e molti
ed aggiungere che anche se nessuna di queste affermazioni esplicite fosse
disponibile, la legge che esprimono potrebbe comunque essere
indipendentemente dedotta da un'analisi delle funzioni attribuite ai
differenti poteri, perché benché queste funzioni siano caratteristiche di
divinità particolari, non sono mai interamente peculiari di nessuna di loro[12].
Passaggi molto familiari, spesso rifiutati perché «tardivi», includono (Rig-Veda
Samhitâ I.164.46): “I
sacerdoti chiamano in molti modi differenti (bahudhî vadanti) Quello
che è solo Uno; lo chiamano Agni, Yama, Mîtrâhvarunâ,
lo chiamano Indra, Mitra, Varuna, Agni,
o dicono che è «l’aquila celeste Garutmân»
o (Rig-Veda Samhitâ X.114.5):
«I cantori in estasi (viprâû kavaya) concepiscono in molti modi
l'aquila che è Uno»; e in X.90.11, dove, dopo che i Primi Sacrificatori
hanno diviso il Primo Essere, si fa questa domanda alla maniera brahmōdaya,
“Quanti multipli gli pensarono?”[13].
È questa la fine (artham) che Agni teme
mentre si trattiene nell’oscurità: che lo si mandi ad abitare in molte sedi,
per fortuna nella realtà, nonostante Egli proceda, rimane interiore. Nello
stesso modo si esprime Mastro Eckhart, “il Figlio rimane dentro come essenza
e procede come persona … la natura divina si manifesta in una relazione di
«alterità», altro ma non un altro, perché questa distinzione è razionale,
non reale. «Ai Cantori Egli si manifestò come il Sole degli uomini»”[14].
Come in Plotino, V.8.9, “Il sole è l'unico Dio … quale posto può essere
nominato che Egli non raggiunga?”. Inoltre, sono altrettanto esplicite le
affermazioni che si raccolgono in altri libri. In merito, si dice spesso che
Egli ha due forme differenti, secondo il Suo essere di Giorno o di notte, e
che questo è «come Egli vuole», (Rig-Veda Samhitâ III.48.4,
VII.101.3; cf. X.168.4 e Atharva-Veda
Samhitâ VI.72.1). A volte
questo concetto è e-spresso in termini come «Ora Egli è sterile, ora genera» Rig-Veda
Samhitâ VII.103.3, questa
ultima espressione, è la stessa del termine sùh nel Rig-Veda
Samhitâ (I.146.5) ed equivale
a dire Savitŗ bhavati,
«Egli diviene Savitŗ». Cf. Rig-Veda
Samhitâ III.55.19 e X.10.5,
dove Tvaşţŗ[15] e Savitŗ[16] si
identificano per apposizione. Nel Rig-Veda
SamhitâIII.20.3 e VIII.93.17, Agni ed Indra sono
chiamati polinominalmente bhurîni-nâma =
dai molti nomi e puru-nâma =
dai numerosi nomi ed in II.1, Agni è
invocato con i nomi di quasi tutti i poteri, ci sono inoltre innumerevoli
passaggi in cui Indra è
una designazione del Sole. Nel Rig-Veda
Samhitâ VIII.11.8 è scritto
che Agni «deve
essere visto in molti posti, o aspetti differenti» [cf. I.79.5 e VI.10.2, Agni purvanîkah].
«benché la Sua somiglianza sia la stessa in molti posti, tuttavia, il Suo
divenire è multiplo ed a Lui gli sono dati molti nomi, perché “Come Egli si
mostra, così Egli è chiamato” (Rig-Veda Samhitâ V.44.6)[17],
un passo del Śatapatha
Brâhmana X.5.2.20, è poco più
che una parafrasi.Rig-Veda Samhitâ I.146.5,
coincide con innumerabili passi sparsi per tutto il Rig-Veda,
dove Agni è
concorde conMitra, Varuna e
Mâtariŝvân; in IV.42.3, Varuna si
autoidentifica con Indra e Tvaşţŗ;
analogamente in RV. 3.1-2, Agni è
identificato con Mitra, Varuna e
con Indra. Questo non è
una questione di mera suggestione; i punti di vista particolari propri ai
differenti nomi sono accuratamente espressi. [Allo stesso modo, se Agni,
come Sole, è il «viso» o la «freccia», (anîkâ) degli dei, Rig-Veda
Samhitâ I.115.1, VII.88.2,
etc., e contemporaneamente è logicamente detto «dai molti visi» (pûrvanîkah),
“questo non fa del Dio eterno qualcosa di reale, ma solo accorda quell’idea
al nostro modo di pensare”,Summa Theologica III.35.5C,
perché “Gli uomini, nel loro culto sacrificale, hanno imposto su Te, Agni,
i molti visi”. I «visi» o «frecce» dell'Agni solare
sono in realtà i suoi «raggi», quegli stessi raggi coi quali il Sole
Spirituale sostiene l'essere di tutte le cose, ma con cui è occultata la
Porta solare, in modo che quello che vuole entrare supplica, quindi, che i
raggi siano dispersi. Espresso altrimenti, Agni è
l'Albero della Vita (vanaspati) “Gli «altri fuochi« sono i tuoi
rami”, Rig-Veda Samhitâ I.59.1,:
“Tutti gli altri Agni germogliano
da te, oh Agni”; “Tutte
queste divinità sono forme diAgni”, Aitareya
Brâhmana III.4[18].
In molti casi il verbo bhâ[19],
«divenire», come appare nei testi Brâhmana eNirukta già
citati, è impiegato nel Rig-Veda per
indicare nello stesso verso il passaggio di un nome o funzione ad un altra.
Per esempio, Rig-Veda Samhitâ III.5.4,
“Agni diviene (bhavati) Mitra quando
è acceso, Mitra il
sacerdote; eVaruna diviene
Jâtavâdas”; cf. IV. 42.3, “io, Varuna,
sono Indra”, e V.3.1-2,
“Tu, Agni, sei Varuna e
nascendo divieni (bhavasi) Mitra,
quando sei acceso in te, oh Figlio della Forza, abitano gli dei Universali;
sei Indra per
l'adoratore mortale. Per le donzelle sei ArYaman,
e come Svadhâvan porti
un nome segreto» probabilmente come Trita del
passo I.163.3: “Tu sei Trita per
l'operazione interna, così…” Nuovamente, Rig-Veda
Samhitâ III.29.11, “Come
Germe di Titano eleva a Tanûnapât[20],
quando nasce è Narasânsa,
quando si forma nella Madre diviene Mâtariśvân,
il Vento degli Spiriti nel suo corso”. Questo Spirito in realtà è l’Essenza
stessa di Varuna ed
il soffio di Vâc, un vento
la cui forma non si vede ma che è l'Essenza (âtmâ) di tutti gli dei e
che si muove come vuole (X.168.4). Ai passaggi precedenti, nei quali si
considerano gli effetti diversificati di quello che è realmente
un'operazione unica, si può unire quanto esposto nel Rig-Veda
Samhitâ VI.47.18, “Egli è la
controforma (matrice) di ogni forma, è quella forma di Lui quello che
dobbiamo contemplare; Indra,
per virtù dei Suoi poteri magici, procede come multiforme”, un passaggio che
è in stretta corrispondenza con “la forma unica che è la forma di molte cose
differenti” di Mastro Eckhart, parole che riassumono la dottrina
dell'esemplarismo scolastico. E mentre in X.5.1 solo Agni è
«ŗtupati» (Signore delle Epoche) inRig-Veda Samhitâ VI.9.5,
“I Molteplici Dei, con una mente comune ed una volontà comune, si muovono
senza fallo nella stagione unica”, il verso citato sopra corrisponde
strettamente a quanto detto nella Summa
Theologica III.32, 1 ad 3,
dove quello che fa una delle Persone della Trinità si dice è fatto da tutte,
“poiché ci sono un'unica natura ed una unica volontà”.
Nel Śatapatha Brâhmana VIII.7.3.10:
“Il Sole incorda questi mondi nel suo Spirito come su di un filo”, Bhagavad
GîtâVII.7, “Tutto questo è incordato in «Me«”, e X.20, “Io sono lo
Spirito che ha sede nel cuore di tutti gli esseri”, ripete meramente il
pensiero di Rig-Veda Samhitâ I.115.1,
“Il Sole è lo Spirito (Âtman) di tutto quello che è in movimento o in
riposo”. Nel Rig-Veda Samhitâ X.121.2, Hiranyagarbha (Agni)
Prajapati, è chiamato il «datore» dello Spirito (âtmadâ), ed è in
questo senso che Agni, in
I.149.3, è «di centuplice Essenza» (śatâtmâ). Nel Rig-Veda
Samhitâ X.51.7 si invoca ad Agni perché
dia la sua «parte» (bhâgam) agli dei; quella è la sua funzione
peculiare come sacerdote (purohita) degli dei. Quindi, è
sufficientemente chiaro che il Nirukta e
la Bŗhad Dēvatâ siano
pienamente giustificati nel dire che gli dei partecipano (bhakta)
dell'Essenza o espirazione divina; questi testi mantengono perfino la
fraseologia dei mantra vedici. Il riferimento alla «partecipazione» ci
conduce alla considerazione del Bhaga vedico,
posteriormente Bhagavânâ. Bhaga non
è un nome personale è piuttosto una designazione generica del potere attivo
in uno qualsiasi dei suoi aspetti, mentre il «Libero Donatore» o il
«Partecipante» che fa che la sua bhakti partecipi alle sue ricchezze. Queste
ricchezze possono essere solo gli aspetti della Sua Essenza perché,
certamente, noi non possiamo considerare la divinità come «proprietaria» di
un qualcosa di più di quello che Esso stesso è. “Comunicandosi a sé stesso,
Egli riempie completamente questi mondi”. Questo ultimo è un testo
upanishadico (Maitri Upanişad VI.26),
ma il concetto è vedico. In realtà, Bhaga riceve
per apposizione il nome di «Dispensatore» (vibhaktŗ) Rig-Veda
SamhitâV.46.6. Bhaga è «partecipazione» o «dispensazione», come nel Rig-Veda
Samhitâ II.17.7, diretto ad Indra,
“Io ti imploro, oh Bhaga … valutami, tendimi, dammi quella parte (bhâgam)
con cui il corpo è elevato)”, dove bhâgam =
amŗtasya bhâgam, in I.164.21, cf. anche VIII.99.3, “Dipendendo da Lui,
come dal Sole, i Molti (viŝve devam) hanno partecipato di quello che
è di Indra”; in una lode
diretto ad Agni si
dice che i Molti “partecipano della tua divinità”, VII.81.2 è la preghiera
all'alba: “Siamo associati nella partecipazione”. Questi passaggi sono
indubbiamente sufficienti per chiarire che Bhaga e vibhaktŗ sono
il dispensatore o il datore che si dà sé stesso o la sua sostanza; sambhâja il
partecipante che partecipa al dono; bhâga, bhakşa,
e bhakta la
parte che si dà o che si riceve. Benché queste espressioni siano vediche, bhakti,
l'atto della distribuzione, o di fare condividere quello che si dà, e bhakta come
sinonimo di vibhaktŗ, il
donatore, appaiono solo più tardi. Il problema della “origine del movimento
bhakti”, che è stata tanto discussa, non sarebbe mai esistito se si fossero
mantenute queste interpretazioni nelle traduzioni dei testi posteriori,
specialmente quella della Bhagavad
Gîtâ. Bhakta, nel Rig-Veda,
può essere la parte del «tesoro» ottenuta dal sacrificatore dalla divinità, Rig-Veda
Samhitâ IV.1.10, o,
inversamente, la parte che il sacrificatore dà o assegna alla divinità, Rig-Veda
Samhitâ I.91.1,
Specialmente Agni, in
quanto sacerdote sacrificante (hotŗ), “Dà spiritualmente la loro
parte dell'oblazione agli dei (bhâgam), Rig-Veda
Samhitâ X.51.7 [ Ite
missa est!]. In questo ultimo caso il sacrificatore o sacerdote
sacrificante è ilvibhaktŗ, e la sostituzione del vibhaktŗ vedico
con il bhakta non
introduce nessuna concezione nuova. Bhakti implica
devozione, poiché ogni donazione presuppone amore ma da ciò non consegue che
bhakti debba essere tradotto con «amore». È certo che la bhakti-mârga è
anche la prêma-mârga, la
passiva «Via» dell'Amore, che si distingue deljnâna-mârga, l'attiva
«Via» della Gnosi; ma che le espressioni bhakti-mârga e prēma-mârga abbiano
un riferimento comune non le fa sinonimiche, le espressioni sono
«sinonimiche» solo quando si riferiscono alla stessa cosa sotto lo stesso
aspetto. Non si può negare che i pitarah,
in Rig-Veda Samhitâ I.91.1,
erano bhakta in
questo ultimo senso, o che la loro fosse una bhakti-mârga.
Noi dovremmo tradurre bhakti-mârga per
«Via» della Consacrazione o «Via» della Devozione piuttosto che con «Via
dell'Amore». È certo, ugualmente, che «partecipazione» implica «amore», e
viceversa, dato che un amore che non partecipa alla cosa amata non è
assolutamente "amore" bensì piuttosto «desiderio». Tuttavia, l'Amore e la
partecipazione sono concezioni che si differenziano in modo logico e ognuna
delle quali gioca un suo proprio ruolo nella definizione dell'atto
devozionale; quando le due espressioni si confondono in una traduzione
equivoca, non solo si perdono queste sfumature di significato ma
contemporaneamente si nasconde l'evidenza dalla continuità del pensiero
vedico col pensiero posteriore, evocando così dei problemi irreali. Vogliamo
dunque esprimere il nostro plenum accordo coi punti di vista di Franklin
Edgerton che concludeva che «tutto ciò che è esposto, almeno nelle Upanişad più
antiche, quasi senza eccezione, non è nuovo nelle Upanişad ma
è già stato enunciato, o almeno molto chiaramente prefigurato, nei testi
vedici più antichi»[21],
e con quelli di Maurice Bloomfield che argomentava “che mantra e Brâhmana non
sono in assoluto distinzioni cronologiche; ma rappresentano due modi di
attività letteraria e due modi di linguaggio letterario che sono ampiamente
contemporanei … Entrambe le forme esistettero giunte, per quanto sappiamo,
dai tempi più antichi; solo che la redazione delle collezioni di mantra
sembrano avere preceduto, in complesso, la redazione dei Brâhmana …
Gli inni del Rig-Veda,
come quelli degli altri tre Veda, furono liturgici dall’inizio stesso.
Questo significa che essi formano solo un frammento … i testi ed i commenti
posteriori possono contenere la spiegazione corretta”[22];
anche Bloomfield, con riferimento alle parti più antiche delRig-Veda,
lo chiama "l'ultima stesura, con un lungo e intricato passato oltre a sé, di
un'attività letteraria di grande ed indefinita estensione»[23].
Siamo di accordo con Alfred Jeremías, quando dice nella Prefazione a
suo Altorientalische
Geisteskultur (Berlino)
1929,: «Die Menschenheitsbildung ist ein einheitliches Ganzes, und in den
verschiedenen Kulturen findet man die Dialekte der einen Geistessprache»;
con Carl Anders Scharbau, Die
Idei der Sch.pfung in der vedischen Literatur Stuttgart,
1932, “die Tiefe und Grösse der theologischen Erkenntnis da' Rigvedas
Keine-swegs hinter der da' Vedanta zurücksteht”[24];
e finalmente con Sâyana quando sostiene che nessuno dei riferimenti vedici è
storico. È proprio il fatto che gli incantesimi (mantra) vedici sono
liturgici a rendere irrazionale sperare in una loro esposizione sistematica
in una filosofia stabilita; se consideriamo i mantra in se stessi, è come se
cercassimo di dedurre la filosofia scolastica partendo solo dal libro dalla
Messa. Non è che questo sia impossibile, ma saremmo accusati di leggere
nella Messa significati che potrebbero non essere stati presenti nella
mentalità prevalente nella «Età Oscura»; saremmo accusati di cedere, come
dice il Professore Keith che non può essere accusato di una tale debolezza,
al «nostro desiderio naturale … di trovare la ragione dominare in un'età
barbara». Tuttavia, tanto i mantra come gli inni latini sono minuziosamente
elaborati, il loro sim-bolismo opera con un'esattezza matematica, Emile Mâle
parla del simbolismo cristiano come di un "calcolo" e noi non possiamo
supporre che i suoi autori non comprendessero le loro stesse parole; siamo
noi che non comprendiamo, se insistiamo nel leggere l’algebra come se fosse
aritmetica. Tutto quello che possiamo imparare della storia della
letteratura è che le dottrine che si danno per scontate nei mantra non
furono pubblicate, probabilmente, fino a quando un certo cambiamento
linguistico non avesse già avuto luogo; possiamo trovare alcune parole
nuove, ma non troveremo idee nuove. Siamo noi i difettosi se non possiamo
capire che MitrâVaruna dei
quali il secondo [Varuna] è il fratello immortale del «mortale» [Mitra],
non sono altro che quell’apara-brahman e para-brahman che
le Upanişad chiamano
rispettivamente il mortale e l’immortale. La stessa cosa relativamente alle
liturgie babilonesi, dove è probabilmente esistita anche una “letteratura
sapienziale … non formulata per essere ripetuta nei templi”[25],
come si deve accettare che esisteva il concetto di un “unico Dio… [i cui]
differenti aspetti non venivano considerati come divinità separate nel
pantheon sumero-accadico”[26].
Lo stesso nel caso delle liturgie vediche, dove l'apparizione di concetti di
un “Uno che è altrettanto vivo e non-vivo” (Rig-Veda Samhitâ X.129.2)
e di Agni come
“essere e non-essere in uno” (sadasat) Rig-Veda
Samhitâ X.5.7, non può
definirsi sorprendente. Noi non vediamo, allora, nei Brâhmana, Upanişad, Bhagavad
Gîtâ e perfino nel Buddismo,
altro che una ultimo adattamento e pubblicazione di quello che si conosceva
da sempre, sia che fosse insegnato ai già iniziati o fuori in quei circoli
la cui esistenza è implicita per la forma brahmōdaya di
molti inni; e da Brâhmini come quello che, nelRig-Veda Samhitâ X.71.11,
viene menzionato mentre espone la scienza della genesi e che possiamo
credere che fosse, come Agni stesso,
un «Conoscitore delle generazioni di tutte le cose» Rig-Veda
Samhitâ VI.15.13; cf. IV.27.1.
*Tratto da: https://www.facebook.com/notes/ananda-k-coomaraswamy/monoteismo-vedico/328384360512330
[1] Yaska
è stato un grammatico sanscrito antecedente a Panini (che è del 4°
secolo aC), si presuppone che sia stato attivo nel 5 ° o 6° secolo a C.
È l'autore del Nirukta, trattato sulla tecnica dell’etimologia,
categoria lessicale e semantica delle parole. Si pensa che sia stato
allievo di Śâkahâyana, un vecchio e grammatico, espositore dei Veda,
menzionato nel suo testo.
[2] In
realtà, è Viśvakarmâ, l'Artefice di Tutte le Cose, che dà i suoi “nomi”,
cioè, suo essere individuale, agli dei e quindi è chiamato devânâm
nâmadhâĥ, X.82.3.
→ ogni attività è solamente il nome «di un atto di Brahma», Brhadâraņyaka
Upanişad I.4.7;
→ «tutte le attività sorgono dallo Spirito». idem I.6.3;
→ «ogni azione germoglia da Brahma», Bhagavad
Gîtâ III.5;
Lo stesso concetto viene esposto, con le stesse parole,anche in
Mastro Eckhart, ed. Evans, II, 175.
[3] Quasi
verbalmente identico con Jan Van Ruysbroeck, “è dovuto alla Sua
incomprensibile nobiltà e sublimità che noi non possiamo nominarLo
abilmente né esprimerLo interamente, così Gli diamo tutti questi nomi”
Adornment of the Spiritual Marriage, XXV. “Perché considero impossibile
che Quello che è l'artefice dell'universo in tutta la sua grandezza, il
Padre o Sigore di tutte le cose, possa essere conosciuto con un unico
nome; sostengo che Egli è senza nome, o piuttosto che tutti i nomi siano
i Suoi nomi. Perché Egli, nella sua unità, è tutte le cose; in modo che
noi dobbiamo chiamare tutte le cose con il loro nome, oppure chiamarlo
con il nome di tutte le cose”, Hermes (Asclepius III.20A).
[4] “Il
Vento è onnipresente” [Jaiminîya Upanişad Brâhmaņa IV.12.10];
“e così, come dice Krishna,
non c'è nessun fine per le mie presenze divine” [Bhagavad Gîtâ X.40].
Sono queste “presenze” o “poteri” che vengono chiamati con molti nomi.
[5] Kavayah,
reso in traduzione con saggi, formatori, cantori; sono i Ŗsi “cantori
ispirati” o “cantori estatici”. I Veda fu-rono rivelati a loro, che la
“ascoltarono” per trasmetterli agli uomini Gli Ŗsi non
sono deva né asura ma non corrispon-dono nemmeno ad esseri umani comuni
essendo alcuni di loro di discendenza divina, la loro era un'era mitica
e pri-mordiale, anzi i sette Ŗsi partecipano
in qualche modo alla creazione del mondo.
[6] Gli
inni dei Veda, “ascoltati” dai Ŗsi all’atto
della creazione del mondo e nell’epoca primordiale.
[7] Cf.
PB XX.15.2-2 dove le sfere di azione di Agni, Vâyu e Âditya sono
dette sue “parti” o “pezzi” (bhaktiĥ).
[8] Un'ontologia
di questo tipo non può propriamente essere definita panteista o monista.
Questo sarebbe legittimo solo se, quando si è analizzato l'essenza nei
suoi multipli aspetti, non rimanesse nulla, al contrario, tutte le
scritture indù, incominciando dal Rig-Veda,
concordano nell'affermare che quello che resta del Sé eccede la totalità
di quello che serve per riempire questi mondi, e che questa fonte rimane
inalterata da tutto quello che produce o riassorbe dal principio alla
fine di un eone. Il punto di vista che tutta questa sia una teofania non
significa che si veda tutto del Sé; al contrario, per così dire,
«solamente una parte» della sua abbondanza, basta per riempire i mondi
di tempo e spazio, per lontano che possano estendersi, per molto che
possano durare [Rig-Veda Samhitâ X.90.3,
cf. Maitri Upanişad VI.35, Bhagavad
Gîtâ X.42]. Cf. Whitby
nella prefazione alla versione inglese di René Guénon, L'Uomo
ed il suo divenire secondo il Vedanta (Parigi)
1925: “È da sperare che questo libro dia il colpo di grazia al
pregiudizio assurdo e inspiegabile che persistentemente sottovaluta la
dottrina vedica in merito al suo supposto «panteismo». “Questa
insistenza…”, e Lacombe, nella prefazione di René Grousset, Les
Philosophies indiennes (Parigi)
1931: “È necessario concludere, a nostro giudizio che il Vedanta non è
panteista, e neanche monista, soprattutto nel senso che queste parole
hanno per noi. Si nomina da sé stesso advaita, non-dualista. La sua
preoccupazione di assicurare la trascendenza del Brahman non meno che la
sua immanenza, di mantenere l'interiorità della sua Gloria, è manifesta.
Posizione irriducibile…”; e Coomaraswamy, Una
Nuovo Aproximaciòn ai Veda: Una Prova di Traducciòn ed Exégesis,
1933, p. 42. Si potrebbe aggiungere che si può fare un'obiezione simile
anche riguardo all’uso della parola «Monoteismo» nel titolo di questo
articolo. Tad ekam nella Rg
Vêda Samhitâ X.129.2, è
traducibile più come «Identità Suprema» che non «Dio unico». È solo in
quanto «unico Dio», con tanti aspetti quanti punti di vista dai cui
essere considerato, che «Quell’Uno» diviene intelligibile; ma quello che
Quell’Uno è in sé stesso lo si può solo esprimere in termini di
negazione, per esempio, «senza dualità». Da Erwin Goodenough, An
Introduction to Philo Judaeus (New
Haven) 1940, p. 105.
[9] «Si
divide in Sé stesso (Âtmanam vibhajya) per riempire questi
mondi», Maitri Upanişad VI.26,
etc., Egli rimane «indiviso» in queste divisioni,avibhakta vibhakteşu, Bhagavad
Gîtâ XVIII.20, cf.
XIII.16, “incommensurabile, cioè, in-materiale, in mezzo alla cosa
misurata” (vimite’mita) Atharva
Veda Samhitâ X.7.39; amâtra, Brihadâraņyaka
Upanişad III.8.8, etc.,;
gli dei immanenti, i Respiri, prâηâh sono
«misurati» dal Fuoco, (tejo-mâtrâh Bŗhadâraηyaka Upanişad IV.4.1),)
cioè, “del Fuoco sempiterno, che alle volte si accende ed in altre si
spegne”, Eraclito, Fr.30.
“In altre parole, in Lui non ci sono molte esistenze bensì solo un'unica
esistenza, e suoi molti nomi ed attributi sono meramente i suoi modi ed
aspetti” - Jâmî Law ‘ih XV.
[10] Per
esempio, Aitareya Brâhmana III,4:
“per quanto uno ricorre, upasâte a Lui come a chi ha di farsi un amico (Mitra-kŗttyaiva),
quello è la sua forma come l'Amico (Mitra)». Nel KailâYamalai, Ŝiva è
invocato come “Tu che prendi le forme immaginate dai tuoi adoratori”,
vedere Ceylon National
Review, Gennaio 1907, p. 285.]
[11] Esemplarismo
= Concezione metafisica che assume una realtà ideale come modello del
mondo sensibile. Nato da un ragionamento analogico, l'esemplarismo trova
una sua prima espressione in Platone con la dottrina del demiurgo, che
plasma la materia guardando i modelli eterni delle Idee; Plotino rimase
sulla stessa linea, sostituendo però al demiurgo l'Anima universale.
(vedere Coomaraswamy, Esemplarismo
Vedico, capitolo successivo)
[12] Max
Müller inventò il termine «enoteismo» per descrivere il metodo che egli
immaginò come peculiare dei Veda. Il cristianesimo, quindi, sarebbe «enoteista»
nel misura in cui afferma che quello pertiene ad una dalle Persone
pertiene a tutte, e viceversa. Un «enoteismo» pienamente sviluppato è
più caratteristico dello Stoicismo e di Filone, cf. Émile Bréhier, Les
Idées philosophiques et religieuses di Philon d’Alexandrie (Parigi)
1925, pp. 112, 113: “La concezione di dei mirionimi (con mille nomi), di
un dio unico alle cui differenti forme si dirigevano le preghiere degli
iniziati era familiare allo stoicismo … come negli inni orfici,
l'onnipotenza di ogni Dio non ostacola la sua gerarchia, e così pure qui
[cioè, secondo Filone] gli esseri sono con molta frequenza classificati
gerarchicamente come se si trattasse di esseri distinti.” [E Plotino
V.8.9, “Egli e tutto ha un'unica esistenza, benché ognuno sia anche un
aspetto distinto. È una distinzione ma è un'identità completa; non c'è
tuttavia nessuna partecipazione tra una parte ed un'altra. Né ognuna di
queste totalità divine è un potere frammentato … la realtà divina è
un'unica onnipotenza”. Il secondo passaggio avrebbe potuto essere
scritto sulla Trinità Cristiana]. Perciò, qui anche ci troviamo con
quell'apparenza superficiale di politeismo con cui l'apologista di
qualche altra religione di quella sotto esame risulta tanto
convenien-temente ingannato, il musulmano per esempio quando
chiama”politeista” la dottrina cristiana della Trinità. Cf. i Ŗşi
[13] Analogamente
a Vâc, gli dei
«dividono»” la Mater Magna e le fanno occupare molte stazioni, Rig-Veda
Saṁhitâ X.125.3. In tutti
questi passaggi è evidente come l'unità divina sia essenziale e la
molteplicità concettuale.
[14] [Rig-Veda
Saṁhitâ 146.4] come in
San Giovanni 1:4, «et vita erat et lux hominum». Il Sole Spirituale del Rig-Veda
Samhitâ I.115.1, etc., è
la “Luce delle luci, (jyotiśâm jyotis) Rig-Veda
Samhitâ I.113.1, Bŗhadâranyaka
Upaniśad IV.4.16, etc.,;
“La brillante Luce delle luci è quella che i conoscitori dello Spirito, atmâ
- vidaĥ, conoscono” (Mundaka Upaniśad II.2.10)]
il «Padre» delle luci (San Giacomo I:17).
[15] Tvastar,
nei Veda è il creatore per arte, appellativo a volte dato a Hiranyagharbha,
Prajapathy o a Brahma, menzionato anche nei testi sui Mitanni è
considerato una divinità proto-indoiraniana, come appellativo è anche
riferito a Rathakâra, il costruttore del carro del sole, è una divinità
solare.
[16] Savitŗ letteralmente
il termine significa stimolatore, agitatore; Nella religione vedica , Savitŗ o Savita (nominativo
singolare) è una divinità solare e uno dei 12 Aditya,
i raggi del sole, discendenti di Aditi, la prima . Il suo nome in
sanscrito vedico «girante, agitatore, vivificatore» lo connota.Savitŗ è
stata celebrata in undici canti tutto il Rig-Veda e
in alcune parti di molti altri, il suo nome è citato circa 170 volte in
totale. Nel moderno induismo, Savitŗ non
è diretta-mente adorato, tuttavia il sacro mantra Gayatri è
dedicato a questo Dio.
[17] come
nella Summa Theologica I.13.1
ad 3, «Pronomina vero demonstrativa dicuntur de Deo, secundum quod
fa-ciunt demonstrationem ad id quod intelligitur, non ad id quod
sentitur. Secundum enim quod a nobis intelligitur, secundum hoc sub
demonstrationem cadit».
[18] Ad
esempio, Atharva Veda
Samhitâ XIII.3.13,
“Questo Agni diviene Varuna di
pomeriggio; l’indomani è Mitra”,
etc.; Jaimin´ya Upanisad
BrâhmanaIII.21.1-2, dove il Vento, Vâyu, soffia dai cinque quadranti
- est, sud, ovest, nord e dall’alto - rispettivamente come Indra,
śâna, Varuna ,
Soma e Prajâpati; Jaiminîya
Upanişad Brâhmana IV.5.1,
dove Agni, «il
messaggero di Varuna»,
diviene Savitŗ all'alba, Indra Vaikunţha
a mezzogiorno, Yamadi
sera; Jâtaka IV.137,
“Sujampati, nel cielo conclamato; come Maghavâ, sulla terra si nomina”.
[19] √bha =
divenire ma anche «essere». Infatti le forme verbali irregolari del
verbo essere in latino e quindi anche in italiano, come «io fui, tu
fosti, ecc...» derivano da questa radice. È normale che la labiale
aspirata, Ph o Bh,
nel tempo si trasaformi nella fricativa F.
[20] Il
nome Tanûnapât,
«Nipote di Sé stesso», formula la dottrina ben conosciuta che «Agni è
acceso da Agni», Rig-Veda
Samhitâ I.126, VIII.43.14,
secondo la quale, nel rituale, il nuovo Gârhapatya deve
essere acceso dal vecchio. Cf. Summa
Theologica III.32A ad I,
“la presa stessa, cioè, l'assunzione della natura umana, la presa di
nascita, si attribuisce al Figlio”, cioè, è l'atto proprio del Figlio
tanto quanto quello delle altre Persone.
[21] Journal
of the American Orientale Society, XXXVI (1917), p. 197.
[22] Journal
of the American Orientale Society, XV, 1893, p. 144.
[23] Journal
of the American Orientale Society, XXIX (1908), p. 288.
[24] P.
168, nota 166.
[25] Stephen
Herbert Langdon, Tammuz
and Ishtar (Oxford) 1914,
p. 11.
[26] Henri
Frankfort, Iraq
Excavations of the Orientale Institute, 1932/1933 (Chicago) 1934, I,
p. 47.
Da: scienzasacra.blogspot.it
|
|