Non
è affatto semplice parlare di un tema come questo. E ciò non solo perché si
tratta di uno di quei temi particolarmente ardui che hanno attirato gli
spiriti più profondi, ma perché proprio oggi, specialmente fra noi moderni,
risulta difficile parlarne. E infatti Coomaraswamy, uno dei maggiori
esponenti dell'antimodernismo, dotto indianista, conoscitore sicuro del
buddhismo e dell'induismo, sta su un altro passo. Passo non moderno, eppure
attuale, come vedremo. Non è facile, per la mentalità contemporanea,
parlare dell'eterno. In primo luogo, c'è il rischio di confondere eterno e
perpetuo; di confondere cioè una indefinita durata senza limiti – da un
passato senza inizio a un futuro senza termine – con l'eternità, che invece
non ha estensione e durata alcuna.
In secondo luogo, e soprattutto, la comprensione dell'eternità non è un
fatto meramente intellettuale. Il capire cosa sia l'eternità comporta
un'esperienza radicale, che è quanto di più distante si possa immaginare
dallo spirito della modernità.
Eppure tutto ciò desta sorpresa ed appare paradossale dal momento che
l'eternità costituisce precisamente il cuore e la base del tempo, di quel
tempo che tanto appassiona la modernità e che – rappresentando per essa il
valore dominante – ci aspetteremmo di incontrare oggi come la questione più
studiata e capita.
Anche Heidegger aveva osservato,
nel suo famoso capolavoro di vent'anni prima ( Essere e tempo ,
1927), che il tema dell'essere era scivolato da lunghissima pezza
inspiegabilmente fuori dal campo d'attenzione del pensiero, almeno da quando
se ne era smarrita la differenza rispetto all'esserci temporale. Osservava
altresì che insieme con il fraintendimento dell'essere si era fatto avanti
il fraintendimento del tempo.
Si è visto che fu il tempo a costituire l'unico oggetto della trattazione
di quel libro, mentre la parte che, secondo il programma annunciato, doveva
occuparsi dell'essere non venne fuori. C'è chi ha interpretato lo sviluppo
ulteriore del pensiero heideggeriano come la complessa scrittura di questa
seconda parte. Fatto sta che, in questo secolo, uno dei pochi grandi che
abbiano messo a tema il tempo originario, indagandone la struttura e
intravvedendone il nesso sostanziale con l'essere, si è dovuto incamminare
su un percorso inatteso.
Come sappiamo, la conclusione di Heidegger è che tutta la filosofia è –
per così dire – troppo moderna e che bisogna fare un “passo a lato”,
cercando di riprendere la strada da dove si è sviata.
Tuttavia non riusciremo a trovare il bivio smarrito se questi non si
rivelerà da solo, e finché non saremo chiamati: per questo, per Heidegger, è
decisivo il predisporsi all'ascolto.
In questo senso sussiste un'analogia con quanto Coomaraswamy dice con
Nicola Cusano: «Attraimi, o Signore, ché nessuno può raggiungerti se non
viene attratto da te» (p. 104).
Il trattatello Tempo ed eternità spiega dove si trovi il
passaggio per raggiungere la meta. Già altre volte il grande orientalista si
è occupato di questo passaggio e, fra tutti, valga l'esempio egregio del suo
Janua coeli(1).
Si tratta di un varco che ha ricevuto vari nomi nei diversi contesti
culturali: quello famosissimo di Simplegadi (gli scogli cozzanti che l'eroe
deve attraversare con un balzo per non rimanere schiacciato) e, ancora,
porta stretta, porta del sole, “lì” dell'incontro di notte e giorno, croce,
polo, centro, rosa, loto, settimo raggio, axis mundi , punta del
mozzo della ruota, città di dio, atopon .
Non bisogna cercare questo accesso né fuori del tempo né fuori del nostro
mondo né dopo la vita; esso è qui e ora, e soltanto qui ed ora va
trovato. D'altronde sarebbe un controsenso immaginare che l'uscio non stia
nel luogo da cui aiuta a uscire, perché in tale caso assurdo esso non
sarebbe un uscio. Ciò non toglie, naturalmente, che non sia affatto facile
individuarlo e prenderlo. Ma tant'è, comunque sia, «l'eternità è più vicina
a noi del tempo» (p. 107).
Lo studio di Ananda Coomaraswamy
indaga il significato di questa affermazione. Il risultato è una densa(2)rassegna
della metafisica dell'istante nei contesti induista, buddhista, greco,
islamico e cristiano. E, dato che gli ultimi due riprendono un nucleo
pitagorico-platonico-aristotelico in cui a sua volta è incorporato
«moltissimo di ciò che è vedico e buddhista» (p. 85), in sostanza la
metafisica dell'istante sta nella sapienza del Vedanta .
Coomaraswamy non segue – in esplicita adesione alla tesi di René Guénon –
una linea storica, trattandosi di fonti che sfuggono alla indagine sulla
loro evoluzione in quanto non evolvono nel senso moderno della ricerca
dell'originalità. Egli si rivolge ai nessi interni alle idee, a quei
contenuti che permangono riproposti e ripetuti sotto le varie formulazioni,
che si ritrovano nella loro essenza a fondamento comune delle culture
tradizionali, e che solo per un'illusione ottica si arriva a ritenere che
siano stati creati da coloro che, storicamente, li hanno enunciati. In altri
termini, l'interesse si appunta piuttosto sulla constatazione che il
Tashawwuf sufico equivale al Vedanta , e non sul percorso
storico attraverso cui ciò è accaduto. Del resto, la storia servirà solo a
dimostrare che le idee di fondo sono più universali di chi le enuncia (p.
86) – fatto che, come è noto, rappresenta uno degli aspetti del più ampio
problema metodologico circa il cosiddetto “soggetto” della storia, per
coloro stessi che ammettono l'esistenza della storia – .
Dunque, una metafisica dell'istante. La tesi di fondo individua
nell'istante il luogo-non-luogo in cui si incontrano il tempo e l'eternità;
infatti sia il tempo sia l'eternità sono nell'istante.
Dice Platone ( Parm ., 147-157 A) a proposito dell'Uno che
partecipa e non partecipa del tempo, che insieme è e non è uno e molti, che
è immutabile e mutevole, statico ed in movimento: «quando allora muta?...
esiste questa cosa-fuori-da-ogni-luogo ( atopon ) nel quale
dovrebbe trovarsi quando muta? E di che tipo è? L'istante! Poiché l'istante
sembra significare un qualcosa da cui partono i cambiamenti in entrambe le
direzioni... Questa natura istantanea che non ha luogo ( atopos ),
qualcosa posto tra movimento e stasi... quando muta lo fa in un istante, e
non in alcun tempo... e così sarà per gli altri suoi mutamenti: dalla non
esistenza al divenire, dall'essere uno all'essere molti, dall'essere simile
all'essere dissimile...» (p. 65).
Forse il pensare che l'eternità sia un istante è meno ostico del pensare
che lo sia il tempo. Eppure questa è la tesi tradizionale. Il tempo non
consta di una sommatoria di istanti tutti in atto, dal passato al futuro,
perché in atto ce n'è sempre e soltanto uno, quello presente, con tutte le
sue caratteristiche di fuggevolezza ed insieme di densità e tensione, ma
esso solo.
Per chiarire con una breve
esemplificazione richiamiamo le tesi di Agostino e di Heidegger. Per
entrambi, assumiamolo in via preliminare, il tempo è un'apertura,
l'estendersi di una dimensione pronta a accogliere, lo schiudersi di un
orizzonte in cui le cose si dispongono assumendo un senso. Per Agostino tale
dischiudimento appartiene alla specifica natura del presente, in quanto
anche il passato ed il futuro (il primo è ricordo presente delle cose
passate, il secondo è attesa presente delle cose future) rientrano nel
presente e ne costituiscono una proiezione a esso continua e non un ente
diverso separato. Per Heidegger il tempo fondamentale è invece il futuro:
così quel presente, che in Agostino contiene la capacità di estendersi
avanti ed indietro, da Heidegger viene sostituito dal futuro. Per lui il
tempo, proprio in quanto inizio, apertura, originalità, (dirà anche: estasi,
nel senso di slancio, di uscire in avanti), si pone come futurità.
L'analisi magistrale di Heidegger ci reca grande aiuto anche nel capire i
classici, peraltro da lui frequentati con acume. A proposito della predetta
alternativa tra il presente ed il futuro, gioverà infatti ricordare che
Plotino, nello spiegare la tesi riferita da Platone che il tempo sia
imitazione dell'eternità, dice che tale imitazione si svolge proprio «per
mezzo della futurità» (p. 73).
Al di là della terminologia, forse andrebbero meglio ripensate anche le
parentele ideali di Heidegger.
Il tempo è sempre all'inizio, dice Aristotele (p. 67). Il passato ed il
futuro non esistono più o non ancora, esiste sempre e soltanto un tempo che
inizia ora , nel quale il tempo passato e quello futuro si
incontrano in una totalità unica e continua (p. 71).
Le argomentazioni della Fisica di Aristotele (p. 30, n. 8) ci aiutano a
comprendere meglio. Si prenda, a esempio, una traiettoria (o la traiettoria
del tempo) descritta da un grave lanciato: ebbene, non si dà un punto
particolare in cui l'oggetto lanciato, fermandosi, “inverta” o modifichi la
direzione ed in cui, cessando di salire, cominci a cadere. Al contrario,
“tutta” la parabola è una caduta; ovvero la traiettoria non comincia in un
certo punto particolare, perché è traiettoria già in ogni punto. Del resto,
anche la quiete dell'oggetto prima del lancio e quella dopo il suo percorso
sono solo relative e non sono vera “stasi”, bensì configurano altri periodi
comunque interni al tempo. La traiettoria, ed il tempo, sono un
continuum .
In questo senso, il passaggio dal “simile al dissimile” (che configura il
manifestarsi della modificazione, del novum , del non essere
presente dell'essere precedente), di cui al citato Parmenide platonico, non
impone un salto di continuità, tale che il primo ricada in un ambito ed il
secondo in un altro e separato. Si darebbe allora il caso che i due stati
rimarrebbero inconfrontabili, e così collocati su due piani metafisicamente
incomunicabili, non potrebbero essere l'uno la modificazione dell'altro.
Questa è la ragione per la quale lo stesso rapporto di causazione comporta e
presuppone il continuum temporale, vale a dire l'unità del tempo.
Non ci può essere dunque un punto
in cui il primo periodo, quello della salita del grave, si fermi e dopo il
quale cominci quello della sua discesa. Il periodo della salita e il periodo
della discesa non sono staccati ma continui. Questo il ragionamento di
Aristotele, perfettamente combaciante con le tesi induiste-buddhiste sul
tempo: il tempo non è fatto di una serie di punti diversi e discreti; la
modificazione in esso non interviene a “un certo punto” più di quanto non
intervenga negli altri. La modificazione, ovvero il movimento, sono
consustanziali con la durata del tempo e costanti in esso.
D'altronde va detto che il tempo non può essere composto da una pluralità
di istanti, perché gli istanti (gli atomi temporali) sono senza grandezza ed
estensione e mai nessuna somma di enti senza grandezza potrebbe dare per
risultato una grandezza.
Queste affermazioni sono della massima importanza per la teoria
tradizionale dell'istante.
Se, infatti, il tempo (cioè il mondo) fosse composto di una somma di
istanti-posizioni distinti, si dovrebbe immaginare che il Creatore crei un
mondo dopo l'altro in successione, modificandosi – Lui che è immutabile – in
ripetuti contrasti con se stesso. Al contrario, Dio crea ab aeterno
, fulmineamente, nell'eterno presente, nunc , ora. Dio sta creando
in questo momento tutto il mondo, passato e futuro compreso, dice Meister
Eckhart (p. 101).
Il passato ed il futuro sono, accidentalmente, nel tempo ma, essendo il
tempo raccolto e concentrato nell'istante della creazione, passato e futuro,
quanto all'essere, sono nell'eternità.
Di conseguenza niente si perde; ogni cosa, ogni minimo particolare
risiedono da sempre nel lampo istantaneo ed eterno dell'atto autocreativo
dell'Autosussistenza, del Sé, di Brahma, di Dio.
Il tempo-mondo sta raccolto nella luce dell'istante iniziale, la
materia-durata viene tenuta nell'atto puntuale istantaneo dell'apertura
originale.
Così, la stessa rotondità dell'essere di Parmenide, dello sfero che con
egual forza si dilata dal centro senza intervalli omogeneamente (fr. 8,
43-44), non va intesa in senso materialistico. Il senso è che l'essere è un
tutto pieno, perfetto e autosufficiente, di nulla manchevole. La sua forma
ed i suoi limiti precedono la distinzione tra materia e immateria,
indicandone l'intensa compattezza e l'impossibilità che lo si dica
non-finito.
Il lampo sintetico della creazione autocrea insieme uno e molti; la sua
struttura contiene l'unità e la divisione, le opposte polarità e la
coincidenza, l'eternità e la durata. I Greci lo hanno chiamato logos
, rendendo in esso la tensione sintetica del nesso uno-molti. La mente
divina non è un dizionario bensì una sola espressione che contiene
simultaneamente tutte le altre (p. 108).
Ma allora questo mondo è forse un'illusione? È forse un niente?
Coomaraswamy lo nega, negando che
il Vedanta contenga una dottrina nichilista, una dottrina della
nullità del mondo-tempo. Per lui la tesi vedica è precisamente quella a noi
nota attraverso Platone: che il mondo sia un'immagine-copia del modello
originale, che il tempo sia immagine dell'eternità «secondo il numero» (
Timeo , 29 A). Si badi bene, però, che immagine non vuol dire
duplicato. Infatti non si può uscire dall'essere e l'essere non può essere
doppio. Il doppio sarebbe un non essere; ma il non essere potrebbe
essere solo altro essere; sempre comunque dentro l'essere e non
fuori, il che sarebbe assurdo. (Ricordiamo le argomentazioni del Sofista
di Platone!).
Il nesso tra il principio e la sua manifestazione esplicitata ha un
rilievo fortissimo. Non è indifferente, proprio per la metafisica, che
l'artefice sia per l'appunto un artefice e che, dunque, produca copie di sé.
La copia (il mondo creato, il tempo) non si pone come un inutile e superfluo
accessorio ma appartiene, per così dire, alla sostanza del principio ed alla
sua struttura originale di atto e di motore.
Coomaraswamy non indaga quest'aspetto, peraltro saliente ed essenziale.
La sua attenzione resta catturata, in definitiva, dalla ricerca della famosa
«porta del cielo». In ciò si chiarisce il sotteso movente buddhistico
dell'autore; egli, perfettamente convinto del fatto che il buddhismo non
rappresenti una dottrina decaduta rispetto alla metafisica vedantica, muove
soprattutto in direzione della famosa via di accesso all'eterno.
Durante il suo percorso, e gliene viene a merito, ha visto stagliarsi
controluce alla filosofia greca la grande cultura orientale. Non sono molti
gli autori che, per la conoscenza e dell'una e dell'altra, siano in grado di
illustrare le vicende divergenti e convergenti del dialogo fra quelle.
Soprattutto i luoghi greci più frammentari e meno espliciti (dai primi
filosofi allo stesso Platone) potrebbero e dovrebbero essere ristudiati
avendo l'occhio ai risultati del pensiero indiano. Fra i pochi interessati a
questa angolazione prospettica, Jaspers ha sottolineato come lungo l'età
assiale a cavallo del VII-VI secolo a. C. si siano presentati Confucio, il
buddhismo, Zarathustra, i primi filosofi greci, i grandi profeti ebrei. Fra
gli altri pochi, Dumézil e Benveniste per gli Indoeuropei, Corbin per
l'Islam, Coomaraswamy per l'Oriente (Cina esclusa), Granet per la Cina,
Eliade in lungo ed in largo, Kerényi per i Greci, inoltre, in breve, gli
studiosi di Eranos , hanno messo in luce le idee trasversali che
appartengono in comune alle grandi culture. Guénon, dal canto suo, non ha
ritenuto di associare la filosofia greca allo spirito della sapienza
tradizionale, avendovi colto un traviamento antropocentrico e mondaneggiante,
un veleno che si sarebbe propalato poi all'Oriente, infiltrando di sé
soprattutto il buddhismo. In proposito, ci permettiamo di segnalare un certo
parallelismo tra la tesi di Guénon e quella elaborata da Heidegger circa il
sorgere dell'equivoco metafisico.
Ritornando alla questione dell'immagine-copia, riprendiamo
dall'affermazione che essa non sia mero niente, bensì ancora essere che
abbia nell'essere la sua radice.
Il tempo trova la sua costituzione nell'eterno: l'immagine rivela, apre,
manifesta, e non salta in un impossibile fuori metafisico. Anzi, è proprio
nel suo mondo che si trova la porta da cui l'uomo temporale passa a
conoscere e vivere l'unità eterna simultanea del tutto.
Solo per una svista noi possiamo credere che il volto dell'amico deceduto
sia affondato nel niente, perché solo per una passione limitata noi
equivochiamo che i «tabernacoli psicofisici mutevoli che il nostro Sé
assume» siano creature del tempo. Per la Chandogya Upanishad (VIII.
3. 1, 2) «coloro che sono ancora vivi e quelli deceduti... tutti egli li
trova quando entra lì » (p. 107).
Chi ha trovato il Sé si muove in ogni mondo a volontà e una volta
raggiuntolo sarà in grado di andare in qualsiasi posto vorrà (p. 117, n.
46). Qui si allude altresì a poteri speciali fuori della norma che competono
al risvegliato ed all'eroe, ben noti presso le culture arcaiche e che in un
mondo decaduto appaiono come vanità spiritistiche e seduzioni demoniache,
che il vero santo, come Gesù nel deserto, non esercita per non compiacere il
mondo che ha superato.
Bisogna tuttavia non commettere un altro e più grave errore: di
consentire che l'annegamento ed il naufragio nel mare dell'infinito, in cui
si supera la distinzione tra soggetto e oggetto, avvenga nelle Acque
inferiori invece che nelle superiori. Una cosa sarebbe portarsi con il
risveglio del buddha, con l'estasi del sufi, con l'eros platonico, con
l'intuizione del vedantino, nel nunc stans atemporale in cui tutte
le durate si raccolgono e si perde il sé equivoco per ritrovarsi con l'Uomo
Interiore e la Suprema Persona; e altra cosa sarebbe scendere
nell'indeterminato smarrimento del mondo della banalità ripetitiva in cui si
può solo finire ridotti a pura unità statistica (p. 119, n. 58).
Coomaraswamy spiega,
platonicamente, che la mente umana sta già, proprio con lo stare nel tempo,
nell'eterno, in un eterno che – abbiamo visto – è logos . Infatti
gli uomini neanche potrebbero comunicare tra loro, se non fossero già da
sempre preliminarmente all'interno di un nesso che li unifichi come soggetti
di dialogo. Come dialoganti, nel dialogo autentico, essi si scoprono
partecipi dell'essere eterno, Genti dell'istante, Risvegliàti. Idea
fondamentale espressa da Agostino, quando scopre che il vero interlocutore,
il vero Tu, non può che essere l'eterno presente in cui siamo costituiti,
Dio. |