Frithjof
Schuon
LIMITAZIONE DELL' EXOTERISMO
( Tratto dal 2° capitolo di “Unità
trascendente delle religioni” )
La visuale exoterica, che
propriamente parlando esiste – almeno in ciò che ha d’esclusivo di fronte alle
verità superiori – soltanto nelle tradizioni monoteistiche, non è altro in fondo
che quella dell’interesse individuale più elevato, ossia esteso all’intero ciclo
di esistenza dell’individuo e non circoscritto semplicemente alla vita terrena.
La verità exoterica o religiosa è dunque limitata per definizione, e ciò data la
limitazione della sua finalità, senza che tale restrizione possa tuttavia ledere
l’interpretazione esoterica di cui questa stessa verità è suscettibile grazie
all’universalità del suo simbolismo, o piuttosto, prima di tutto, grazie alla
duplice natura “interiore” ed “esteriore”, della Rivelazione medesima; quindi il
dogma è insieme un’idea limitata e un simbolo illimitato. Per dare un esempio,
diremo che il dogma dell’unicità della Chiesa di Dio deve escludere una verità
come quella della validità delle altre forme tradizionali ortodosse, perché
l’idea dell’universalità tradizionale non è di nessuna utilità per la salvezza e
può anzi recarle nocumento, poiché essa provocherebbe quasi inevitabilmente, in
coloro che non possono elevarsi sopra tale prospettiva individuale,
l’indifferenza religiosa e perciò la negligenza dei doveri religiosi il cui
compimento è appunto la condizione principale della salvezza; invece questa
stessa idea dell’universalità tradizionale – idea che è più o meno
indispensabile alla via della Verità totale e disinteressata – è tuttavia
inclusa simbolicamente e metafisicamente nella definizione dogmatica o teologica
della Chiesa o del Corpo mistico di Cristo; o anche, per parlare il linguaggio
delle altre due religioni monoteistiche, il Giudaismo e l’Islam, rispettivamente
per mezzo della concezione del “Popolo eletto”, Israel, e di quella
della “sottomissione”, El-Islâm, viene simboleggiata dogmaticamente
l’ortodossia universale, il Sanâtana-Dharma degli Indù.
Chiaramente la limitazione “esteriore” del dogma, limitazione che gli conferisce
proprio quel carattere dogmatico, è perfettamente legittima, giacché la
prospettiva individuale, alla quale questa limitazione corrisponde, è una realtà
sul suo piano d’esistenza. Data tale realtà relativa, l’ottica individuale non
in ciò che può avere di negativo rispetto a una visuale superiore, ma in ciò che
ha di limitato per il semplice fatto della sua natura, può e deve perfino
integrarsi, in qualsiasi modo, con ogni via a finalità trascendente; in questo
aspetto l’exoterismo o piuttosto la forma in quanto tale non implicherà più una
visuale intellettualmente ristretta, ma avrà solamente la funzione d’un mezzo
spirituale accessorio, senza che la trascendenza della dottrina esoterica ne sia
lesa, nessuna limitazione essendole imposta per motivi d’opportunità
individuale. Non bisogna confondere, infatti, la funzione della visuale
exoterica con quella dei mezzi spirituali dell’exoterismo: tale visuale è
incompatibile, in una stessa coscienza, con la Conoscenza esoterica che la
dissolve per riassorbirla nel centro da cui è venuta; ma i mezzi exoterici
continuano tuttavia a essere utilizzabili, e anche in due modi, sia per
trasposizione intellettuale nell’ordine esoterico – e saranno allora sostegni
d’”attualizzazione” intellettuale – sia per la loro azione regolatrice sulla
parte individuale dell’essere.
L’aspetto exoterico d’una tradizione è dunque una disposizione provvidenziale
che, lungi dall’essere biasimevole, è necessaria,, visto che la via esoterica
non può riguardare, soprattutto nelle condizioni attuali dell’umanità terrestre,
che una minoranza, e che non c’è niente di meglio, per il comune mortale, della
via consueta della salvezza; biasimevole non è pertanto l’esistenza dell’exoterismo,
ma piuttosto la sua autocrazia invadente – dovuta forse, nel mondo cristiano,
soprattutto alla “precisione” angusta dello spirito latino – la quale fa sì che
un buon numero di coloro che sarebbero qualificati per la via della pura
Conoscenza non solo si fermino all’aspetto esteriore della tradizione, ma
giungano perfino a rigettare l’esoterismo che conoscono unicamente attraverso
pregiudizi o deformazioni; salvo che, non trovando nell’exoterismo quel che
s’addice alla loro intelligenza, non si smarriscano in dottrine false e
artefatte, dove vogliono trovare ciò che esso non offre loro, e che crede
addirittura di poter proibire loro [1]. La prospettiva exoterica, infatti, deve
approdare, appena non è più vivificata dalla presenza interiore dell’esoterismo
di cui è insieme l’irradiamento esteriore e il velo, alla propria negazione, nel
senso che la religione, in quanto nega le realtà metafisiche e iniziatiche e
s’irrigidisce in un dogmatismo letteralista, produce inevitabilmente la
miscredenza; l’atrofia arrecata ai dogmi con la privazione della loro
“dimensione interna” ricade su di essi dall’esterno, in forma di negazioni
eretiche e atee.
La presenza del nucleo esoterico in una religione di carattere specificamente
semitico le garantisce uno sbocco normale e un massimo di stabilità; tale nucleo
non è del resto affatto una parte, nemmeno interna, dell’exoterismo, ma
rappresenta invece una dimensione quasi indipendente rispetto a questo [2]. Non
appena quella dimensione o quel nucleo viene meno, cosa che può accadere
soltanto in circostanze completamente anormali, sebbene cosmologicamente
necessarie, l’edificio tradizionale è scosso, crolla perfino in parte, e finisce
col trovarsi ridotto a ciò che esso comporta di più esteriore, ossia il
letteralismo e la sentimentalità [3]; pertanto i criteri più evidenti d’una
decadenza simile sono, da un canto l’ignoranza e anche la negazione dell’esegesi
metafisica e iniziatica, cioè del significato “mistico” delle Scritture –
esegesi che è nondimeno in connessione intima con l’intera intellettualità della
forma tradizionale contemplata – e dall’altro il rigetto dell’arte sacra, vale a
dire delle forme ispirate e simboliche attraverso le quali s’irradia questa
intellettualità per comunicarsi così, con un linguaggio immediato e illimitato,
a tute le intelligenze. Ma tutto questo non basta forse per far comprendere
perché l’exoterismo necessiti indirettamente dell’esoterismo, non diciamo per
poter sussistere, giacché il semplice fatto della sua sussistenza è fuori
discussione, come pure l’incorruttibilità dei suoi mezzi di grazia, ma solamente
per poter sussistere in condizioni normali; ora la presenza della “dimensione
trascendente” al centro della forma tradizionale fornisce all’aspetto exoterico
di questa una forza vivificante d’essenza universale, “paracletica”, senza la
quale non potrà che ripiegarsi interamente su sé stessa per divenire,
abbandonato unicamente alle proprie risorse che sono limitate per definizione,
un corpo greve e opaco la cui densità stessa provocherà fatalmente delle
fenditure, come dimostra la storia moderna della Cristianità; in altre parole,
allorché l’exoterismo si priva delle interferenze complesse e sottili della
dimensione trascendente, si vede alla fine annientato dalle conseguenze
esteriorizzate delle proprie limitazioni, queste essendo diventate per così dire
totali.
Ora, quando si muove dall’idea che gli exoterici non capiscono l’esoterismo e
che hanno anche il diritto di non capirlo, addirittura di considerarlo
inesistente, si deve pure riconoscere loro il diritto di condannare alcune
manifestazioni dell’esoterismo che paiono usurpare il loro territorio e farvi
“scandalo”, secondo il detto evangelico; ma come spiegarsi che nella maggior
parte di tali casi, se non in tutti, gli accusatori privano sé stessi di questo
diritto agendo con iniquità? Non certo la loro incomprensione più o meno
naturale, né la difesa del loro diritto reale, ma unicamente la perfidia dei
loro mezzi costituisce in essi un vero “peccato contro lo Spirito” [4]; questa
perfidia prova del resto come le accuse che credono di dover formulare servano
in genere soltanto di pretesto per appagare un odio istintivo contro tutto ciò
che sembra minacciare il loro equilibrio superficiale, il quale, in conclusione,
non è che una forma d’individualismo, dunque d’ignoranza.
Rammentiamo d’aver inteso dire una volta che “la metafisica non è necessaria per
la salvezza”; ora questo è radicalmente falso quando viene utilizzato in un
senso del tutto generico; difatti l’uomo che è metafisico per natura e che ne è
consapevole non può trovare la sua salvezza nella negazione di quello che
l’attrae verso Dio; d’altronde ogni via spirituale deve poggiare su una
predisposizione naturale che ne determina il modo, ed è ciò che si chiama la
vocazione; nessuna autorità spirituale consiglierebbe di seguire una via per la
quale non si è fatti. Questo insegna tra l’altro la parabola dei talenti; lo
stesso significato si ritrova ancora nelle parole di San Giacomo: “Chiunque
osserverà tutta la Legge, ma mancherà in un solo punto, diventerà reo di tutti i
precetti”, e “Chi sapendo fare il bene, non lo fa, commette un peccato”; ora
l’essenza della Legge, secondo le stesse parole di Cristo, è l’amore di Dio per
mezzo di tutto il nostro essere, compresa l’intelligenza che ne è la parte
centrale; in altri termini, poiché dobbiamo amare Dio con tutto ciò che siamo,
Lo dobbiamo pure amare con l’intelligenza, che è la parte migliore di noi.
Nessuno contesterà che l’intelligenza non sia affatto un sentimento, ma
infinitamente di più; è dunque ovvio che la parola “amore” utilizzata dalle
Scritture per designare i rapporti tra l’uomo e Dio, e prima di tutto tra Dio e
l’uomo, non può avere soltanto un senso meramente sentimentale, e significare
unicamente un desiderio d’attrazione. D’altra parte, se l’amore è la tendenza
d’un essere verso un altro in vista della loro unione, proprio la Conoscenza,
per definizione, attuerà l’unione più perfetta tra l’uomo e Dio, giacché solo
essa si rivolge a ciò che, nell’uomo, è già divino, ossia all’Intelletto; questo
modo supremo dell’ “amore di Dio” è quindi la possibilità umana di gran lunga
più elevata, a cui nessuno può sottrarsi volontariamente senza “peccare contro
lo Spirito”. Pretendere che la metafisica sia, di per sé e per ogni uomo,
qualcosa di superfluo, che non sia in nessun caso necessaria alla salvezza,
equivale non solo a disconoscere la sua natura, ma anche a negare semplicemente
il diritto all’esistenza agli uomini che sono stati dotati da Dio – a un grado
trascendente naturalmente – della qualità d’intelligenza.
Si potrebbe fare ancora questa osservazione: si merita la salvezza con l’azione,
nell’accezione più ampia del termine, e ciò spiega come taluni possano giungere
a svilire l’intelligenza che, da parte sua, può appunto rendere l’azione
inutile, e le cui possibilità sottolineano la relatività del merito e della
prospettiva che vi si riferisce; pertanto la visuale specificamente religiosa
tende a considerare la pura intellettualità, che non distingue per altro quasi
mai dalla semplice razionalità, come più o meno opposta all’atto meritorio, e di
conseguenza come pericolosa per la salvezza; per questo s’attribuisce facilmente
all’intelligenza un aspetto luciferino e si parla abitualmente d’ “orgoglio
intellettuale”, quasi che non vi fosse in ciò una contraddizione in termini; da
qui anche quell’esaltazione della “fede del fanciullo” o della “fede del
semplice” che d’altronde siamo i primi a rispettare quando è spontanea e
naturale, ma non quando è teorica e ostentata.
Si sente spesso esprimere la seguente riflessione: dal momento che la salvezza
comporta uno stato di beatitudine perfetta e la religione non esige altro,
perché scegliere la via che ha per fine la “deificazione”? A tale obiezione
risponderemo che la via esoterica, per definizione, non può essere affatto
l’oggetto d’una “scelta” per coloro che la seguono, infatti non è scelta
dall’uomo, ma essa sceglie l’uomo; in altre parole, il problema d’una scelta non
sussiste, giacché il finito non può scegliere l’Infinito; si tratta qui
piuttosto d’una questione di “vocazione”, e quelli che sono “chiamati”, per
valersi del termine evangelico, non possono sottrarsi alla chiamata, a pena di
“peccare contro lo Spirito”, come un uomo qualsiasi non può sottrarsi
legittimamente agli obblighi della propria religione. Se è improprio parlare
d’una scelta rispetto all’Infinito, lo è altrettanto parlare d’un desiderio,
perché non si tratta per l’iniziato d’un desiderio di Realtà divina, ma
piuttosto d’una tendenza logica e ontologica verso la propria Essenza
trascendente. Questa definizione è di estrema importanza.
La dottrina exoterica in sé, ossia considerata fuori dell’influsso spirituale
che può agire sulle anime indipendentemente da tale dottrina, non possiede
affatto la certezza assoluta; perciò la conoscenza teologica non può escludere
per sé stessa le tentazioni del dubbio, perfino nei grandi mistici, e quanto
alle grazie che possono sopraggiungere in casi simili, esse non sono
circostanziali all’intelligenza, in modo che la loro permanenza non dipende
dall’essere che ne beneficia; limitandosi a una prospettiva relativa, quella
della salvezza individuale – prospettiva interessata che influenza pure la
concezione della Divinità in un senso restrittivo – l’ideologia exoterica non
dispone di nessun mezzo di prova o di legittimazione dottrinale proporzionato
alle sue esigenze. Difatti la caratteristica di ogni dottrina exoterica è la
sproporzione tra le sue esigenze dogmatiche e le sue garanzie dialettiche: dato
che le sue esigenze sono assolute, giacché provengono da un Volere divino,
dunque anche da una Conoscenza divina, mentre le sue garanzie sono relative,
giacché indipendenti da tale Volere e fondate non su tale Conoscenza, bensì su
una visuale umana, quella della ragione e del sentimento. Ci si rivolge, per
esempio, ai Brahmani per richiedere loro l’abbandono totale d’una tradizione
plurimillenaria, di cui innumerabili generazioni hanno fatto l’esperienza
spirituale e che ha generato fiori di sapienza e di santità fino ai nostri
giorni; le argomentazioni prodotte per giustificare questa esigenza inaudita non
contengono tuttavia niente di logicamente concludente, né di proporzionato
all’ampiezza dell’esigenza stessa; le ragioni che avranno i Brahmani per restare
fedeli al proprio patrimonio spirituale saranno dunque infinitamente più solide
per loro di quelle con cui si vuole indurli a smettere di essere quello che
sono. La sproporzione, nell’ottica indù, tra l’immensa realtà della tradizione
brahmanica e l’insufficienza degli argomenti religiosi contrapposti è tale, che
ciò dovrebbe bastare per provare che, se Dio volesse sottomettere tutto il mondo
a una sola religione, gli argomenti di questa non sarebbero tanto deboli, né
quelli di certi cosiddetti “infedeli” tanto forti; in altri termini, se Dio
fosse unicamente dalla parte di una sola forma tradizionale, la potenza
persuasiva di questa sarebbe tale che nessun uomo di buona fede potrebbe
sottrarvisi. Del resto la stessa parola “infedele” attribuita a civiltà più
vetuste, tranne un’eccezione, di quella cristiana, civiltà che hanno tutti i
diritti spirituali e storici per ignorarla, fa anche intuire, con l’illogicità
della sua ingenua pretesa, tutto quel che c’è d’abusivo nelle rivendicazioni
religiose nei confronti di altre forme tradizionali ortodosse.
L’esigenza assoluta di credere in tale e non in altra religione può, infatti,
cercare di giustificarsi soltanto con mezzi eminentemente relativi: tentativi di
prove filosofico-teologiche, storiche o sentimentali: ora non esiste in realtà
nessuna prova a sostegno di queste pretese alla verità unica ed esclusiva, e
ogni tentativo possibile di prova può riferirsi solamente alle attitudini
individuali degli uomini, attitudini che, limitandosi in definitiva a un
problema di credulità, sono tra le più relative. Ogni prospettiva exoterica
pretende, per definizione medesima, di essere la sola vera e legittima, e questo
poiché la visuale exoterica, tendente solamente a un interesse individuale: la
salvezza, non ha nessun beneficio nel conoscere una verità delle altre forme
tradizionali; disinteressandosi della propria verità, si disinteressa anche
molto di più di quella degli altri, o piuttosto la nega, giacché la nozione
d’una pluralità di forme tradizionali rischia di nuocere alla sola ricerca della
salvezza individuale; e questo chiarisce precisamente il carattere relativo
della forma che, invece, è d’una necessità assoluta per la salvezza
dell’individuo. Ci si potrebbe però domandare perché le garanzie, ossia le prove
di veracità o di credibilità, che la polemica religiosa si sforza di produrre,
non provengano spontaneamente dal Volere divino come avviene per le esigenze
della religione; ovviamente tale problema ha un senso soltanto se si riferisce a
verità, giacché non si possono provare errori; ora gli argomenti della polemica
religiosa, appunto, non possono in nessun modo dipendere dalla sfera intrinseca
e positiva della fede; un’idea la cui importanza è solo estrinseca e negativa, e
che in fondo deriva unicamente da un’induzione – come per esempio l’idea della
verità e della legittimità esclusive di una certa religione, oppure, il che fa
lo stesso, della falsità e illegittimità di tutte le altre tradizioni possibili
– una conceione simile non può evidentemente essere l’oggetto di una prova né
divina, né a maggior ragione umana. Circa i dogmi veri – cioè non derivati per
induzione, ma di valore rigorosamente intrinseco – se Dio non ha fornito le
prove teoriche della loro verità, questo significa che, in primo luogo tali
prove sono inconcepibili e inesistenti sul piano in cui si pone l’exoterismo, e
pretenderle come fanno i miscredenti sarebbe una contraddizione vera e propria;
in secondo luogo, come vedremo poi, se queste dimostrazioni esistono, sono su
tutt’altro piano, e la Rivelazione divina le include perfettamente, senza
nessuna omissione; in terzo luogo, infine, tornando al piano exoterico, dove
solamente può porsi tale problema, la Rivelazione comporta, in ciò che ha
d’essenziale, un’intelligibilità sufficiente per poter servire da veicolo
all’azione della grazia [5], che, dal canto suo, è l’unica ragion sufficiente
pienamente valida per l’adesione a una religione. Tuttavia, questa grazia
essendo così suscitata soltanto nei confronti di quelli che non ne posseggono
effettivamente l’equivalente in un’altra forma rivelata, i dogmi rimangono senza
potenza persuasiva, potremmo dire senza prove, per quelli che posseggono questo
equivalente; costoro saranno quindi “inconvertibili” – prescindendo dai casi di
conversione dovuti alla forza suggestiva d’uno psichismo collettivo, la grazia
non cominciando allora a operare che a posteriori [6] – giacché
l’influsso spirituale non farà presa su di loro, come una luce non può
illuminare un’altra luce; ciò è conforme quindi al Volere divino che ha
rivestito la Verità una di differenti forme, e l’ha suddivisa tra differenti
umanità ciascuna delle quali è simbolicamente la sola esistente; e soggiungeremo
che, se la relatività estrinseca dell’exoterismo è conforme al Volere divino,
che s’afferma così nella natura stessa delle cose, è evidente che questa
relatività non può essere abolita da un volere divino.
Ora, se non esiste alcuna dimostrazione rigorosa a favore d’una pretesa
exoterica al possesso esclusivo della verità, non si deve forse essere portati a
credere che l’ortodossia medesima di una forma tradizionale non possa essere
dimostrata? Questa sarebbe una conclusione molto artefatta e in ogni modo del
tutto erronea: poiché ogni forma tradizionale comporta una prova assoluta della
propria verità, dunque della propria ortodossia; ciò che non può essere
dimostrato, in mancanza di una prova assoluta, non è la verità intrinseca e
pertanto la legittimità tradizionale d’una forma della Rivelazione universale,
ma unicamente il fatto ipotetico che una tale forma particolare sarebbe la sola
vera e legittima, e questo non può essere dimostrato per la semplice ragione che
è falso.
Vi sono dunque prove inoppugnabili della verità d’una religione; ma tali prove,
che sono d’ordine meramente spirituale, pur essendo le sole prove possibili a
sostegno d’una verità rivelata, comportano in pari tempo la negazione
dell’esclusivismo pretenzioso delle forme; in altre parole, chi vuol dimostrare
la verità d’una religione, o non ha prove, non esistendone, oppure ha soltanto
prove che affermano ogni verità religiosa senza eccezione, qualunque sia la
forma che essa può rivestire.
La pretesa exoterica al possesso esclusivo d’una verità unica, o della Verità
senza epiteti, è quindi un vero e proprio errore; in realtà ogni verità espressa
riveste di necessità una forma, quella della sua espressione, ed è
metafisicamente impossibile che una forma abbia un valore unico escludendo altre
forme: giacché una forma, appunto per definizione, non può essere unica ed
esclusiva, ossia una forma non può essere la sola possibilità d’espressione di
ciò che esprime; dire forma è dire specificità o distinzione, e lo specifico è
concepibile soltanto come modalità d’una specie, dunque d’un ordine che include
un insieme di modalità analogiche; o anche il limitato, che è tale per
l’esclusione di quel che i suoi limiti non comprendono, deve compensare questa
esclusione con una riaffermazione o ripetizione di sé fuori dei propri limiti, e
ciò equivarrebbe a dire che l’esistenza di altre cose limitate è rigorosamente
contenuta nella definizione stessa del limitato. Pretendere che una limitazione,
come per esempio una forma considerata in sé, sia unica nel suo genere e
incomparabile, che escluda quindi l’esistenza di altre modalità analoghe a essa,
significherebbe attribuirle l’unicità dell’Esistenza medesima; ora, nessuno
potrà contestare che una forma è sempre una limitazione, e che una religione è
per necessità sempre una forma, non, ovviamente, per la sua Verità interna che è
d’ordine universale, quindi sopraformale, ma per il suo modo d’espressione, che,
come tale, non può non essere formale, pertanto specifico e limitato. Non si può
ripetere abbastanza che una forma è sempre una modalità d’un ordine di
manifestazione formale, dunque distintiva e molteplice, e conseguentemente, come
dicevamo poc’anzi, una modalità tra altre, essendo unica solo la loro causa
sopraformale; e ripetiamo anche – poiché non va mai dimenticato – che la forma –
proprio per il fatto che è limitata, lascia necessariamente qualcosa fuori di
sé, cioè quello che il suo limite esclude; e questo qualcosa, se appartiene allo
stesso ordine, è necessariamente analogo alla forma esaminata, perché la
distinzione delle forme deve essere compensata da un’indistinzione, quindi da
un’identità relativa, altrimenti le forme sarebbero assolutamente distinte le
une dalle altre, cosa che equivarrebbe a una pluralità di unicità o di
Esistenze; ogni forma allora sarebbe una sorta di divinità priva di qualsiasi
relazione con altre forme, supposizione che è assurda.
La pretesa exoterica al possesso esclusivo della verità cozza pertanto,
l’abbiamo appena visto, contro l’obiezione assiomatica che non esiste un fatto
unico, per la semplice ragione che è rigorosamente impossibile che un tale fatto
esista, essendo unica solo l’unicità, e un fatto non essendo l’unicità; ed è ciò
che ignora l’ideologia “credente” che in fondo è soltanto la confusione
interessata tra il formale e l’universale. Le idee che s’affermano in una forma
religiosa – come l’idea del Verbo o quella dell’Unità divina – non possono non
affermarsi, in una maniera o in un’altra, nelle altre religioni; così i mezzi di
grazia o d’attuazione spirituale di cui dispone un certo sacerdozio non possono
non trovare l’equivalente altrove; e, aggiungeremo, proprio in quanto un mezzo
di grazia è importante o indispensabile, lo si rinverrà necessariamente in tutte
le forme ortodosse in un modo adeguato all’ambito rispettivo.
Possiamo riepilogare le considerazioni precedenti con questa formula: la Verità
assoluta non è che di là da tutte le sue espressioni possibili; tali
espressioni, in sé, non possono aspirare agli attributi di questa Verità; il
loro allontanamento relativo rispetto a essa si manifesta con la loro
differenziazione e con la loro molteplicità, che necessariamente le limitano.
1- Si ricorderà la maledizione
di Cristo: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della
scienza: voi non siete entrati, e l’avete impedito a quelli che volevano
entrare” (Lc., XI, 52).
2- Per ciò che concerne la tradizione islamica, citiamo la riflessione d’un
principe musulmano dell’India: “La maggior parte dei non Musulmani, e perfino
molti Musulmani interamente formati in un ambiente di cultura europea, ignorano
quell’elemento peculiare dell’Islam che ne costituisce il midollo e il centro,
che dà realmente vita e vigore alle sue forme e attività esteriori e che, grazie
al carattere universale del suo contenuto, può apertamente prendere come
testimoni i discepoli delle altre religioni” (Nawab A. Hydari Hydar Nawaz Jung
Bahadur, nella prefazione a [i]Studies in Tasawwuf[/i] di Khaja Khan).
3- Di là viene la prepotenza sempre più netta della “letteratura”, nel senso
peggiorativo, da un lato sull’intellettualità autentica, e dall’altro sulla
pietà reale; di là anche l’importanza esagerata che s’attribuisce a ogni sorta
d’attività più o meno futili che trascurano sempre diligentemente la “sola cosa
necessaria”.
4- Così né l’incomprensione da parte d’una data autorità religiosa, e neppure
una certa fondatezza dell’accusa mossa da essa, giustificano l’iniquità del
processo intentato al Sufi El-Hallâj, come l’incomprensione dei Giudei non
giustifica l’iniquità del processo intentato a Cristo. In un ordine di idee
molto simile, ci si può chiedere perché s’incontri nelle polemiche religiose
tanta stupidità e malafede, e ciò anche in persone che altrimenti ne sono
immuni; questo è un indizio sicuro che, nella maggioranza di tali polemiche, c’è
una parte di “peccato contro lo Spirito”. Nessuno è biasimevole per il solo
fatto d’attaccare, in nome del proprio credo, una tradizione straniera, se lo fa
per pura ignoranza; ma quando non è così, l’uomo sarà colpevole di bestemmia,
giacché, oltraggiando la Verità divina in una forma straniera, non fa insomma
che profittare di un’occasione per offendere Dio senza doversene fare un caso di
coscienza; è questo, in fondo, il segreto dello zelo grossolano e impuro
mostrato da coloro che, in nome del loro convincimento religioso, consacrano la
vita a rendere invise cose sacre, il che possono fare solo con modi spregevoli.
5- Un esempio della conversione per l’influsso spirituale o la grazia, e in
mancanza di qualsiasia argomento d’ordine dottrinale, ci è offerto dalla ben
nota vicenda di Sundar Singh; questo Sikh di natura nobile, dal temperamento
mistico, ma senza vere qualità intellettuali, aveva giurato un odio implacabile
non solo ai Cristiani, ma anche al Cristianesimo e perfino al Vangelo; tale
odio, data la sua coincidenza paradossale col carattere nobile e mistico di
Sundar Singh, si scontrò con l’influsso spirituale di Cristo e si mutò in
disperazione; sopraggiunse allora una conversione folgorante provocata da una
visione; ora non vi fu nessuna intromissione della dottrina cristiana, e il
convertito non pensò nemmeno mai di ricercare l’ortodossia tradizionale.
L’esempio di San Paolo presenta, d’altronde, sebbene a un livello notevolmente
superiore rispetto al personaggio e alle circostanze, alcune analogie meramente
“tecniche” con l’esempio citato. In breve, si può affermare che quando un uomo
di natura religiosa odia e perseguita una religione, è assai vicino a
convertirsi, col favore delle circostanze.
6- E' il caso dei non Cristiani che si convertono al Cristianesimo così come
adottano qualsiasi forma della civiltà occidentale moderna; ciò che, negli
Occientali stessi, è sete di novità, negli altri è sete di mutamento, si
potrebbe dire di rinnegamento; da ambedue le parti c'è la medesima tendenza ad
attuare e a esaurire possibilità che erano state escluse dalla civiltà
tradizionale.
Da:
http://members.xoom.virgilio.it/alchemica/limitexoterismo.html
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