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Le dualità cosmiche - Da Tradizione e tradizioni (René Guénon)
Talvolta succede, anche più spesso di quanto non si creda comunemente, che le teorie scientifiche più recenti si ricolleghino, mediante le conseguenze ch’esse implicano, a certe concezioni antiche, generalmente dimenticate o disprezzate durante l’epoca che precedette immediatamente la nostra, e che ci si ostina ancora troppo sovente ad ignorare per partito preso. Questi accostamenti possono sembrare strani a certi spiriti, e tuttavia sono un dato di fatto, e un dato di fatto estremamente importante dal punto di vista della storia delle idee: se se ne tenesse conto quanto si dovrebbe, si potrebbe esser condotti a modificare molte conclusioni. Per quanto ci riguarda, non esistono idee veramente nuove (parliamo solo delle idee, beninteso, e non delle loro applicazioni pratiche), ma quel che dà l’illusione della novità e dell’originalità, è il fatto che le stesse idee hanno potuto, a seconda delle epoche, venire presentate sotto forme estremamente diverse, per adattarsi a mentalità altrettanto differenti; si potrebbe dire che non è affatto il contenuto del pensiero che varia, ma solamente il modo di pensarlo. Ed è così che, per esempio, la moderna "filosofia della scienza" finisce per coincidere per certi aspetti con l’antica "cosmologia", benché essa abbia un punto di partenza totalmente diverso e proceda per una via in qualche modo inversa. Certo, non si dovrebbe credere che, partendo dalle scienze, e soprattutto dalle scienze sperimentali, sia possibile attingere il dominio della metafisica pura; la distanza è troppo grande e la separazione troppo profonda; ma nondimeno si può penetrare fino ad un certo punto nel dominio intermedio fra quello della metafisica e quello della scienza nel senso in cui la intendono i moderni, dominio che, nell’antichità e nel medioevo, era, così come lo è ancora per gli Orientali, quel che noi chiameremmo le "scienze tradizionali". Queste scienze erano tradizionali soprattutto in quanto avevano, direttamente od indirettamente, un fondamento d’ordine metafisico, in quanto esse in definitiva non erano altro che un’applicazione dei principi metafisici a tale o talaltro punto di vista più o meno specifico, e questo era in particolare il caso delle speculazioni cosmologiche; non è affatto lo stesso per quanto riguarda le conclusioni filosofiche tratte dalle scienze attuali, ma la coincidenza, quando si verifica, è ancor più rimarchevole. Il punto di vista degli antichi era essenzialmente sintetico; quello dei moderni, al contrario, si presenta come analitico, e, anche se è suscettibile di dare in parte gli stessi risultati, ciò avviene attraverso un percorso assai più lungo e tortuoso; le conclusioni ne acquistan forse qualcosa di più quanto a rigore e a precisione? Ordinariamente lo si crede, in ragione del prestigio che esercita sugli spiriti la scienza detta positiva; tuttavia, ci sembra che l’origine induttiva delle concezioni di cui si tratta comunichi loro un carattere che non può essere altro che quello delle semplici ipotesi, mentre, nell’altro caso, esse partecipavano della certezza che è inerente alla metafisica vera; ma questa è divenuta talmente estranea all’intellettualità occidentale moderna che, per giustificare una simile affermazione, ci si dovrebbe dilungare troppo. D’altronde qui poco importa, perché la nostra intenzione non è affatto quella di stabilire attualmente la superiorità dell’uno o dell’altro punto di vista, ma solo di segnalare alcuni di tali accostamenti ai quali abbiamo fatto allusione all’inizio, e questo a proposito del recente libro di Émile Lasbax: Le problème du mal (1), che contiene considerazioni particolarmente interessanti sotto questo profilo. Questo libro ci sembra l’espressione d’uno sforzo molto lodevole di liberarsi dei limiti assai ristretti della filosofia classica, che talvolta si ha il grande torto di qualificare come "tradizionale", poiché, derivata principalmente dalla "rivoluzione cartesiana", essa si è presentata fin dalla sua origine come l’effetto d’una rottura con la tradizione, dunque è come se ci si riavvicinasse ad essa, in una certa misura, quando ci si allontana da questa filosofia classica, ed anche quando ci si rende conto che il modo speciale in cui pone e tratta i problemi è ben lungi dall’essere il solo possibile. È questo, precisamente, quanto Lasbax ci sembra aver compreso, e forse egli non lo deve unicamente alla preoccupazione di rinnovare la filosofia ispirandosi alla scienza, perché egli non è fra quelli che disprezzano il passato quanto più lo ignorano: non potremo seguirlo fino alle sue conclusioni, troppo mistiche a nostro parere, ma è più che volentieri che indichiamo, con assoluta imparzialità, il grande interesse che presentano alcune delle considerazioni contenute nella sua opera. Tuttavia ci permetteremo un’osservazione preliminare: Lasbax, che si crede e si dichiara dualista, lo è veramente? È lecito dubitarne, quando lo si vede dichiarare, per esempio, che "il dualismo è una forma d’esistenza successiva all’unità primitiva dell’essere omogeneo ed immortale; l’unità è all’origine, e la dualità ne è derivata successivamente, poiché essa risulta dalla scissione dell’essere creato sotto l’influenza di una volontà negativa" (p. 372). Una dottrina secondo la quale la dualità non è affatto primitiva non può essere qualificata propriamente come dualista: non si è dualisti per il solo fatto che si ammette una dualità, anche se ci si rifiuta di ridurre uno dei suoi termini all’altro; è vero che, in quest’ultimo caso, non si è neppure monisti, ma questo semplicemente prova che ci sono concezioni cui non sono applicabili simili denominazioni: sono quelle che risolvono l’opposizione apparente integrandola in un ordine superiore. Ci sono dottrine di questo genere che si ha l’abitudine di snaturare interpretandole in un senso dualista, ed è quanto avviene, in particolare, con quella di Zoroastro, di cui i Manichei non hanno avuto, a quel che sembra, che una comprensione incompleta e grossolana: Ahriman non è affatto "l’eterno nemico" di Ormuzd, e non è sufficiente dire che "egli dev’essere un giorno definitivamente vinto" (p. 11); in realtà secondo l’Avesta, egli dev’essere riconciliato nell’unità del Principio supremo, chiamato Akarana, parola che significa ad un tempo "senza causa" e "senza azione , il che ne fa l’esatto equivalente del "non agire" della metafisica estremo-orientale, così come del Brahma neutro e "non qualificato" della dottrina indù. D’altronde, non è in queste dottrine tradizionali, in modo generale, che si può trovare un vero dualismo, ma solamente nell’ordine dei sistemi filosofici: quello di Cartesio ne è il prototipo, con la sua opposizione dello spirito alla materia che non prevede alcuna conciliazione, e neanche una reale comunicazione fra i suoi due termini. Siccome non ci proponiamo qui di entrare nella discussione sul dualismo, ci accontenteremo di dire questo: si può constatare nelle cose, non tanto una sola dualità, bensì delle molteplici dualità, e tutto il problema consiste in definitiva nel situare esattamente ciascuna di queste dualità nell’ordine d’esistenza al quale essa si riferisce e al di fuori del quale essa non avrebbe più alcun senso. Ora, tutte queste dualità, che possono essere in molteplicità indefinita, infine non sono forse delle specificazioni o dei modi di un’unica dualità, più fondamentale di tutte le altre, e che rivestirebbe aspetti diversi a seconda dei domini più o meno particolari nei quali la si considera? In ogni caso, nell’ordine metafisico puro, non ci potrebbe essere più alcuna dualità, perché si è al di là di ogni distinzione contingente; ma si può averne una allorché ci si pone al punto d’inizio dell’esistenza, anche considerata al di fuori di qualunque modalità specifica e nell’estensione più universale di cui essa sia suscettibile. Lasbax si rappresenta la dualità, in tutte le sue forme, come una lotta fra due principi: è questa un’immagine che, per noi, non corrisponde veramente alla realtà se non in certi domini, e che, trasposta al di là dei suoi giusti limiti, rischia fortemente di condurre ad una concezione del tutto antropomorfica; lo si vede fin troppo bene quando le due tendenze presenti sono definite, in ultima analisi, come l’espressione di due volontà opposte. Questo potrebbe essere un simbolismo utile, ma niente di più, e comunque a condizione di non lasciarsene ingannare; purtroppo, invece di assegnare semplicemente al punto di vista psicologico il suo posto nell’ordine cosmico, si tende ad interpretare quest’ultimo psicologicamente. Comprendiamo bene la ragione d’una simile attitudine: il fatto è che il problema è posto qui in termini di bene e male, che è un punto di vista del tutto umano; era già così per Platone allorché, nel X libro delle Leggi, considerava due "anime del mondo", una buona e l’altra malvagia. Ed è ancora la stessa ragione che fa esagerare l’opposizione fra i due principi o le due tendenze, a scapito di quel che si può definire il loro complementarismo: se si tratta di bene e di male, non si può evidentemente parlare che di lotta e di opposizione; e Lasbax arriva al punto di dichiarare che "a dire il vero, la complementarità non è che un’illusione", e che "è sull’opposizione che conviene mettere l’accento" (p. 369). Tuttavia, se ci si libera delle considerazioni morali, l’opposizione non esiste che nel dominio specifico della dualità presa in esame, e, dal punto di vista superiore nel quale essa è risolta e riconciliata, i suoi due termini non possono più presentarsi che come complementari; è dunque piuttosto l’opposizione ad apparirci come illusoria, o almeno come appartenente ad un grado meno profondo della realtà. È questa una delle grandi differenze fra la posizione di Lasbax e quella delle antiche dottrine tradizionali: che quelle non si preoccupavano affatto di stabilire dei "giudizi di valore"; e, secondo noi, simili giudizi non hanno senso ed importanza se non per l’essere stesso che li formula, perché non esprimono altro che semplici apprezzamenti puramente soggettivi; ci terremo dunque, per quanto potremo, al di fuori di questo punto di vista relativo al "valore" nelle considerazioni che seguono.
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Lasbax, dicevamo più sopra, non ha per nulla il disprezzo del passato: non solo egli invoca volentieri, in appoggio alle sue tesi, le antiche tradizioni cosmogoniche dell’Oriente, ma addirittura arriva ad ammettere la legittimità di speculazioni delle quali è di moda parlare solo per volgerle in ridicolo. È così che, facendo allusione alla solidarietà che unisce tutte le parti dell’universo e ai rapporti fra l’umanità e gli astri, egli dichiara nettamente che l’influenza di questi ultimi su di essa e "così reale che certi sociologi non hanno temuto di creare, tanto per le società animali che per le società umane, una teoria esclusivamente cosmogonica delle migrazioni così come dei fenomeni sociali più complessi, spingendo fino all’espressione suprema della positività quelle concezioni astrologiche che Comte attribuiva sdegnosamente al periodo metafisico della sua legge dei tre stati" (p. 348). Questo è del tutto vero, ed è un esempio di quegli accostamenti di cui abbiamo indicato l’esistenza; ma c’è un certo merito e persino un certo coraggio nel dire simili cose, quando tanti altri, che tuttavia dovrebbero esserne al corrente, mantengono a questo riguardo un ostinato silenzio. D’altronde, quel che è vero per l’astrologia lo è anche per molte altre cose, e in particolare per l’alchimia; siamo anche sorpresi del fatto che Lasbax non abbia mai menzionato quest’ultima, perché accade che le sue concezioni ci abbiano sovente fatto pensare a qualche teoria degli ermetisti del medioevo; ma egli cita in quest’ordine d’idee solamente Paracelso e Van Helmont, e solo riguardo a punti molto particolari, riferentesi esclusivamente alla fisiologia, e senza parer sospettare il loro ricollegamento ad una dottrina molto più generale. Si deve abbandonare la concezione corrente secondo la quale l’astrologia e l’alchimia non sarebbero state che stadi inferiori e rudimentali dell’astronomia e della chimica; queste speculazioni avevano in realtà tutt’altra portata, non erano affatto dello stesso ordine delle scienze moderne con le quali esse sembrano presentare alcuni rapporti più o meno superficiali, ed erano innanzitutto teorie cosmologiche. Solo che, bisogna dire, se queste teorie sono totalmente incomprese da coloro che le denunciano come vane e chimeriche, esse non lo sono molto meno da parte di coloro che, ai nostri giorni, al contrario hanno preteso difenderle e ricostruirle, ma che non vedono nell’astrologia niente di più che un’"arte divinatoria", e non sono neanche capaci di fare la distinzione, che si faceva assai bene un tempo, fra la "chimica volgare" e la "filosofia ermetica". È necessario dunque, quando si voglion fare ricerche serie su questo genere di cose, diffidare grandemente delle interpretazioni proposte dai moderni occultisti, che, malgrado tutte le loro pretese, non sono depositari di alcuna tradizione, e che si sforzano di supplire con la fantasia al sapere reale che fa loro difetto. Detto questo, non vediamo perché astenersi dal menzionare all’occasione le concezioni degli ermetisti, allo stesso titolo di non importa qual altra concezione antica; e questo sarebbe anche tanto più deplorevole per il fatto che esse danno luogo ad accostamenti particolarmente stupefacenti. Così, per fare un esempio, Lasbax ricorda che Berzelius "aveva formulato quest’ipotesi ardita, che la spiegazione ultima di ogni reazione doveva essere ricondotta, in fin dei conti, ad un dualismo elettrochimico: l’opposizione degli acidi e delle basi" (p. 188). Sarebbe stato interessante aggiungere che un’idea simile non apparteneva propriamente a Berzelius e che questi non aveva fatto altro che ritrovare, forse a sua insaputa, ed esprimendola in altri termini, un’antica teoria alchemica; in effetti, l’acido e la base rappresentano esattamente, nel dominio della chimica ordinaria, quel che gli alchimisti chiamavano zolfo e mercurio, e che non si deve confondere con le materie che portano comunemente gli identici nomi. Questi due principi, gli stessi alchimisti li designavano ancora, da altri punti di vista, come il sole e la luna, l’oro e l’argento; ed il loro linguaggio simbolico, nonostante la sua apparente bizzarria, era più adatto di ogni altro ad esprimere la corrispondenza fra le molteplici dualità ch’essi consideravano, fra cui le seguenti: "l’agente ed il paziente, il maschio e la femmina, la forma e la materia, il fisso e il volatile, il sottile e lo spesso" (2). Beninteso, non c’è identità fra tutte queste dualità, ma solo corrispondenza e analogia, e l’uso di tale analogia, ben familiare al pensiero antico, forniva il principio di certe classificazioni che non sono a nessun livello assimilabili a quelle dei moderni, e che forse non si dovrebbero neanche definire propriamente come classificazioni; pensiamo in particolare, a questo riguardo, agli innumerevoli esempi di corrispondenze che si potrebbero rilevare nei testi antichi dell’India, e soprattutto nelle Upanishad (3). C’è in questo l’indice di un modo di pensare che sfugge pressoché interamente ai moderni, almeno in Occidente: un modo di pensare essenzialmente sintetico, come abbiamo detto, ma per nulla sistematico, e che apre delle possibilità di concezione del tutto insospettate da parte di coloro che non vi sono affatto abituati. Per quel che concerne queste ultime osservazioni, pensiamo d’essere d’accordo con Lasbax, che ha delle prime età dell’umanità terrestre una concezione del tutto diversa da quella che si ritrova ordinariamente allorché si tratta dell’"uomo primitivo", concezione molto più giusta a nostro parere, benché si sia obbligati a fare qualche restrizione, innanzitutto perché ci sono dei passaggi che ci hanno ricordato un po’ troppo da vicino certe teorie occultiste sulle antiche razze umane, ed anche a causa del ruolo attribuito all’affettività nel pensiero antico, preistorico se si vuole. Sicuramente per quanto indietro si possa risalire, non troviamo nessuna traccia di questo ruolo preponderante; anzi troveremmo piuttosto tutto il contrario; ma Lasbax disprezza volentieri l’intelligenza a vantaggio del sentimento, e ciò, a quel che sembra, per due ragioni: da una parte l’influenza della filosofia bergsoniana, e, dall’altra, la costante preoccupazione di ritornare infine al punto di vista morale, che è essenzialmente sentimentale. Anche da quest’ultimo punto di vista, significa tuttavia andare un po’ troppo oltre vedere nell’intelligenza una sorta di manifestazione del principio malvagio; in ogni caso, questo significa farsi un’idea troppo ristretta dell’intelligenza riducendola alla sola ragione, ed è tuttavia proprio quel che fanno ordinariamente gli "anti-intellettualisti". Notiamo a tale proposito che è proprio nell’ordine sentimentale che le dualità psicologiche sono più evidenti, e che sono esclusivamente le dualità di quest’ordine che la dualità morale del bene e del male traspone alla sua maniera. È singolare che Lasbax non si sia accorto che l’opposizione fra egoismo e simpatia equivale, non tanto ad un’opposizione fra intelligenza e sentimento, bensì a un’opposizione fra due modalità del sentimento; peraltro, egli insiste ad ogni istante su quest’idea che i due termini opposti, per poter entrare in lotta, debbano appartenere ad uno stesso ordine d’esistenza, o, com’egli dice, "ad uno stesso piano". Non amiamo molto quest’ultimo termine, perché ne hanno fatto uso ed abuso gli occultisti, ed anche perché l’immagine ch’esso evoca tende a far concepire come una sovrapposizione il rapporto fra i diversi gradi dell’esistenza, mentre si tratta piuttosto di una certa interpenetrazione degli stessi. Come che sia, noi non vediamo, nell’ordine intellettuale, che una sola dualità considerabile, quella del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto; ed anche questa dualità, che non si può rappresentare come una lotta, non corrisponde, a nostro parere, che ad una fase o ad un momento della conoscenza, ben lungi dall’esserne assolutamente essenziale; non possiamo insistere qui su questo punto, e ci limiteremo a dire che una simile dualità scompare come tutte le altre nell’ordine metafisico, che è il dominio della conoscenza intellettuale pura. Sempre Lasbax, quando vuole trovare il prototipo di quel ch’egli considera come la dualità suprema, è naturalmente ricorso all’ordine sentimentale, identificando la "volontà buona" con l’Amore e la "volontà cattiva" con l’Odio; queste espressioni antropomorfiche, o più esattamente "antropopatiche", si comprendono soprattutto in un teosofo mistico quale Jacob Boehme, per il quale, precisamente, "l’Amore e la Collera sono i due misteri eterni"; ma è un errore prendere alla lettera quel che non è in verità che un simbolismo assai specifico, d’altronde meno interessante che il simbolismo alchemico di cui Boehme fa anche uso in diverse circostanze.
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La dualità che le tradizioni cosmogoniche dell’antichità pongono all’inizio, in modo pressoché generale, è quella della Luce e delle Tenebre; ed è, in ogni caso, proprio quella che presenta più nettamente quel carattere d’opposizione sul quale insiste Lasbax. Tuttavia significherebbe interpretare assai male questa concezione il vedervi semplicemente il simbolo d’una dualità morale: le nozioni di bene e di male non hanno potuto riconnettervisi che secondariamente e in un modo piuttosto accidentale, e questo anche nell’Avesta; altrove, esse non ci sono affatto, come ad esempio in India, ove la Luce è assimilata alla conoscenza e le Tenebre all’ignoranza, il che ci trasferisce in tutt’altro dominio. È la lotta della Luce e delle Tenebre che è rappresentata, negli inni vêdici, dalla lotta di Indra contro Vritra o Ahi (4), come presso gli Egizi da quella di Horus contro Tifone. Ora, se vi si vuole vedere la lotta della vita e della morte, non si tratta che d’una applicazione assai particolare; sappiamo che è difficile per la mentalità occidentale moderna liberarsi da ciò che chiameremmo volentieri la "superstizione della vita", ma nondimeno pensiamo che è illegittimo identificare con l’esistenza universale quel che non è altro che una condizione di una delle sue modalità specifiche; tuttavia, non insisteremo oltre su questo per il momento. Ciò che è rimarchevole è che l’egoismo, o piuttosto l’attrazione dell’esistenza individuale, che è per Lasbax la tendenza malvagia per eccellenza, è esattamente quel che rappresenta il Nahash ebraico, il serpente della Genesi; e dev’essere sicuramente la stessa cosa ovunque il serpente simboleggia similmente una potenza tenebrosa. Solo che, se l’opposizione è fra l’esistenza individuale e l’esistenza universale, i due principi non sono affatto dello stesso ordine; Lasbax dirà che la lotta non è fra stati, ma fra tendenze; tuttavia, delle tendenze sono ancora degli stati almeno virtuali, delle modalità dell’essere. Ci sembra che quel che si deve dire, è che principi d’ordine differente possono, per una sorta di riflesso, ricevere un’espressione in un grado determinato dell’esistenza, di modo tale che, per essere esatti, non sarà fra i termini della dualità primitiva che vi sarà conflitto, ma solo fra quelli della dualità riflessa, che in rapporto alla precedente ha il carattere di un accidente. D’altra parte, non si può neanche dire che ci sia simmetria fra due termini quali la Luce e le Tenebre, che sono fra loro così come l’affermazione e la negazione, non essendo le Tenebre che l’assenza o la privazione della Luce; ma se, in luogo di considerarli "in sé", ci si pone nel mondo delle apparenze, sembra di aver a che fare con due entità comparabili, il che rende possibile la rappresentazione di una lotta; solo che, la portata di questa lotta si limita evidentemente al dominio in cui essa è suscettibile di acquisire un significato. Non è men vero che, anche con questa restrizione, la considerazione della lotta o di quel che può essere così rappresentato analogicamente sarebbe del tutto impossibile se si cominciasse a porre due principi non aventi assolutamente nulla in comune fra loro: quel che non ha nessun punto di contatto non potrebbe entrare in conflitto sotto nessun rapporto; è quanto in particolare succede per lo spirito e il corpo così come li concepisce il dualismo cartesiano. Quest’ultima concezione non è del tutto equivalente a quella, d’altronde per nulla dualista, della forma e della materia in Aristotele e presso gli scolastici, perché, "come osserva Bergson, i Greci non avevano ancora elevato delle barriere invalicabili fra l’anima e il corpo" (p. 68), e noi aggiungeremo che non lo si fece neanche nel medioevo, ma, nella dottrina aristotelica, si tratta invero più di una complementarietà che non di un’opposizione, e su questo ritorneremo più avanti. Sul tema dell’opposizione è il caso di segnalare specialmente il modo in cui Lasbax considera la dualità delle forze di espansione e di attrazione: non potremmo riconoscervi come fa lui un caso particolare della lotta fra la vita e la morte, ma è molto interessante aver pensato ad assimilare la forza attrattiva alla tendenza individualizzatrice. Quel che c’è ancora di curioso, è il fatto che questa opposizione della forza attrattiva e della forza espansiva, presentata qui come ricavata dalle teorie scientifiche moderne, è una delle interpretazioni di cui è suscettibile il simbolismo di Caino e di Abele nella Genesi ebraica. Ora, ci chiediamo fino a qual punto si possa dire che la forza espansiva non agisce affatto a partire da un centro, che non è affatto "centrifuga", mentre la forza attrattiva, di contro, sarebbe veramente "centripeta"; non si dovrebbe cercare di assimilare la dualità delle forze di espansione e di attrazione a quella dei movimenti di traslazione e di rotazione: fra queste dualità differenti, ci può essere corrispondenza, ma non identità, ed è in un caso come questo che ci si deve guardare da ogni sistematizzazione.
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Per Lasbax, né l’una né l’altra delle due opposte tendenze, sotto qualunque forma le si consideri, non esiste mai allo stato puro nelle cose; esse sono sempre e dovunque simultaneamente presenti ed agenti, di modo tale che ciascun essere particolare, e persino ciascuna parte di tale essere, offre come un’immagine della dualità universale. Ritroviamo in questo la vecchia idea ermetica dell’analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo, idea che Leibnitz applicava alle sue monadi allorché considerava ciascuna di esse come contenente la rappresentazione di tutto l’universo. Solo che si può avere, a seconda dei casi, la predominanza dell’una o dell’altra delle due tendenze, e queste sembreranno allora incarnarsi negli elementi in opposizione: si ha così la dualità biologica del sistema cerebrospinale e del sistema simpatico, oppure, ad un altro grado, quella del nucleo e del citoplasma nella cellula, all’interno della quale si riproduce così un conflitto analogo a quello che presenta l’insieme dell’organismo; e quest’ultima dualità è riconducibile alla dualità chimica dell’acido e della base, che abbiamo già segnalato. La considerazione di questa sorta di inviluppo di dualità multiple, analoghe e non identiche fra loro, solleva una difficoltà: se ci sono certe dualità che si posson far corrispondere termine a termine, non può essere così sempre per tutte. Per far comprendere questo, prenderemo come esempio la teoria degli elementi quale la concepivano i Greci, in particolare Aristotele, e così come fu trasmessa inalterata al medioevo; vi si trovano due quaternari, comprendenti ciascuno due dualità: da una parte, quello delle qualità, caldo e freddo, secco e umido, e, dall’altra parte, quello degli elementi, fuoco e acqua, aria e terra. Ora le coppie di elementi opposti non coincidono affatto con le coppie delle qualità opposte, perché ciascun elemento procede da due qualità combinate, appartenenti a due diverse dualità: il fuoco, dal caldo e dal secco; l’acqua, dal freddo e dall’umido; l’aria, dal caldo e dall’umido; la terra, dal freddo e dal secco. Quanto all’etere, considerato come quinto elemento, e che gli alchimisti chiamavano per questa ragione "quintessenza" (quinta essentia), esso contiene tutte le qualità in uno stato d’indifferenziazione e di equilibrio perfetto; esso rappresenta l’omogeneità primordiale la cui rottura determinerà la produzione degli altri elementi con le loro opposizioni. Questa teoria è riassunta nella figura, di un simbolismo d’altronde puramente ermetico, che Leibnitz ha posto in testa al suo De arte combinatoria. Ora, il caldo e il freddo sono rispettivamente dei principi d’espansione e di condensazione, e corrispondono così rigorosamente alle forze antagoniste del dualismo meccanico; ma si potrebbe dire altrettanto del secco e dell’umido? Questo sembra molto difficile, ed è solo per la loro partecipazione al caldo e al freddo che si posson ricondurre gli elementi, fuoco ed aria da una parte, acqua e terra dall’altra, a queste due tendenze espansiva ed attrattiva che Lasbax considera in un modo un po’ troppo esclusivo e sistematico. E quel che complica ancor più il problema, è il fatto che, da punti di vista differenti, delle opposizioni ugualmente differenti possono venir stabilite fra le stesse cose: è quel che avviene, per gli elementi, a seconda che ci si rivolga all’alchimia o all’astrologia, poiché, mentre la prima fa appello alle considerazioni precedenti, la seconda, col ripartire gli elementi nello zodiaco, oppone il fuoco all’aria e la terra all’acqua; qui, di conseguenza, l’espansione e la condensazione non figurano neanche più in un’opposizione o in una qualunque correlazione. Non condurremo oltre lo studio di questo simbolismo, del quale abbiam solo voluto mostrare la complessità; né parleremo più della teoria indù degli elementi, le cui basi sono assai differenti da quelle della teoria greca, e nella quale l’applicazione dei tre guna fornirebbe tuttavia dei punti di comparazione assai interessanti per quel di cui qui si tratta. Se si considera specialmente l’opposizione del caldo e del freddo, si è condotti a considerare alcuni problemi particolarmente importanti, che Lasbax pone a proposito dei principi della termodinamica. Egli discute da questo punto di vista la teoria del Dott. Gustave Le Bon (5), secondo il quale "conviene distinguere fra due fasi radicalmente opposte della storia del mondo", formanti "un ciclo completo: all’inizio la condensazione dell’energia sotto forma di materia, poi l’uscita di quest’energia", vale a dire la dissociazione della materia; il nostro periodo attuale corrisponderebbe alla seconda fase; e, "come nulla impedisce di supporre che la materia, ritornata all’etere, ricominci di nuovo la sua fase condensatrice, i periodi alterni della vita dell’universo devono succedersi senza fine: l’ipotesi si compie nell’idea antica del ‘grande anno’, nella concezione nietzschiana dell’eterno ritorno" (p. 195). Per quanto ci riguarda, questa teoria ci fa pensare meno al "grande anno" dei Persiani e dei Greci, periodo astronomico che appare soprattutto legato al fenomeno della precessione degli equinozi, che non ai cicli cosmici degli Indù, nei quali le due fasi or ora descritte sono rappresentate come il giorno e la notte di Brahmâ; inoltre, si trova ugualmente nella concezione indù questa idea della formazione di tutte le cose a partire dall’etere primordiale, al quale esse devono ritornare nella dissoluzione finale; questo, il Dott. Le Bon deve assolutamente saperlo altrettanto bene quanto noi, ma non parla mai di queste coincidenze, del resto assai evidenti. Dobbiamo aggiungere, tuttavia, che le teorie cosmogoniche dell’India non ammettono affatto l’"eterno ritorno", la cui impossibilità è d’altronde metafisicamente dimostrabile: da un ciclo ad un altro, non c’è mai ripetizione né identità, ma solo corrispondenza ed analogia, e questi cicli si compiono, secondo l’espressione di Lasbax, "su piani differenti"; a dire il vero, c’è solo il nostro ciclo attuale che comincia e si conclude nell’etere considerato come il primo degli elementi corporei, perché non c’è che questo che si riferisca all’esistenza fisica. Da questo risulta che le condizioni di un ciclo non sono affatto applicabili agli altri, benché ci debba sempre essere qualcosa che corrisponda loro analogicamente: così lo spazio e il tempo non sono che condizioni specifiche del nostro ciclo, ed è solo in un modo puramente simbolico che se ne potrà trasporre l’idea al di fuori dei limiti di esso, per rendere in qualche misura esprimibile quel che non potrebbe altrimenti esserlo affatto, essendo il linguaggio umano necessariamente legato alle condizioni dell’esistenza attuale. Quest’ultima osservazione permette di rispondere all’obiezione che Lasbax rivolge al Dott. Le Bon, e che verte sulla separazione stabilita da questi fra le due fasi ascendente e discendente della storia del mondo, che la dottrina indù compara alle due fasi della respirazione, e che si possono chiamare, se si vuole, evoluzione ed involuzione, benché questi termini possano prestarsi ad equivoco: questi due movimenti di senso inverso devono, non tanto occupare due periodi successivi nel tempo, bensì manifestarsi simultaneamente durante tutta la durata dell’esistenza del mondo, come succede per i fenomeni corrispondenti di costruzione e di distruzione dei tessuti nella vita organica degli individui. Questa difficoltà scompare se si ammette che il punto di vista della successione cronologica non è in realtà che l’espressione simbolica di una concatenazione logica e causale; ed è assolutamente necessario che sia così, dal momento che non c’è che un solo ciclo particolare che sia sottomesso alla condizione temporale, al di fuori della quale tutti gli stati o i gradi dell’esistenza universale posson essere considerati in perfetta simultaneità. D’altronde, anche all’interno del ciclo attuale, le due fasi opposte non sono necessariamente successive, a meno che non s’intenda con questo solo un ordine di successione logica; e, anche qui, si deve poter ritrovare in ciascuna parte un’immagine di ciò che esiste nella totalità del ciclo; ma, in generale, le due tendenze devono predominare successivamente nello sviluppo cronologico del mondo fisico, altrimenti il ciclo, per il fatto che è condizionato dal tempo, non arriverebbe mai a completarsi; non diciamo a chiudersi, perché la concezione dei cicli chiusi è radicalmente falsa come quella dell’"eterno ritorno" che ne è l’inevitabile conseguenza. Segnaliamo ancora che le due fasi di cui abbiamo parlato si ritrovano ugualmente nelle teorie ermetiche, in cui esse sono chiamate "coagulazione" e "soluzione": in virtù delle leggi dell’analogia, la "grande opera" riproduce in breve l’insieme del ciclo cosmico. Quel che è assai significativo, dal punto di vista nel quale ci siamo posti, è che gli ermetisti, invece di separare radicalmente queste due fasi, al contrario le univano nella raffigurazione del loro androgine simbolico Rebis (res bina, cosa doppia), che rappresenta la congiunzione dello zolfo e del mercurio, del fisso e del volatile, in un’unica materia (6). Ma torniamo all’opposizione del caldo e del freddo ed alle singolari antinomie che sembrano risultarne: "Infatti, la legge di Clausius ci rappresenta il mondo in marcia verso la sua quiete e che vi trova la morte ad una temperatura elevata, poiché il calore è la forma più ‘degradata’ dell’energia utilizzabile. D’altra parte, tutte le induzioni della fisica stellare ci permettono di affermare che, più noi risaliamo indietro nel passato, più le temperature dei diversi corpi e dei diversi astri ci apparirebbero superiori a quelle che sono al giorno d’oggi" (p. 198). Non potrebbe essere altrimenti, se la fine del ciclo dev’essere analoga al suo inizio: l’abbassamento della temperatura traduce una tendenza alla differenziazione, di cui la solidificazione segna l’ultimo grado, il ritorno all’indifferenziazione dovrà, nello stesso ordine d’esistenza, effettuarsi correlativamente, ed in senso inverso, attraverso un’elevazione di temperatura. Solamente, bisogna ammettere per questo che il raffreddamento dei sistemi siderali non si prolungherà indefinitamente; ed anche, se noi siamo attualmente nella seconda fase del mondo come pensa il Dott. Le Bon, vuol dire che il punto di equilibrio delle due tendenze è già superato. L’osservazione, del resto, non ci può per nulla informare a questo riguardo direttamente, e, in ogni caso, non vediamo con quale diritto si potrebbe affermare che il raffreddamento progressivo dev’essere continuo ed indefinito; si tratta di induzioni che superano considerevolmente la portata dell’esperienza, e tuttavia certuni, in nome dell’astronomia, non esitano ad opporsi alle conclusioni della termodinamica. Donde quelle descrizioni della "fine del mondo" per congelamento, che "ci fanno pensare a quell’ultimo cerchio del Regno del Male in cui Dante pone il soggiorno di Lucifero nella sua Divina Commedia" (p. 200); ma non si devono confondere delle cose essenzialmente differenti: quella cui Dante fa allusione, non è la "fine del mondo", ma piuttosto il punto più basso del suo processo di sviluppo, che corrisponde a quel che potremmo chiamare il centro del ciclo cosmico, se consideriamo le sue due fasi come puramente successive. Lucifero simboleggia l’"attrazione inversa della natura", vale a dire la tendenza all’individualizzazione; il suo soggiorno è dunque il centro di queste forze attrattive che, nel mondo terrestre, sono rappresentate dalla pesantezza; e notiamo di passaggio che ciò, specialmente quando lo si applica a questo stesso mondo terrestre, va nettamente contro l’ipotesi geologica del "fuoco centrale", perché il centro della terra deve essere precisamente il punto in cui la densità e la solidità sono al loro massimo. Come che sia, l’ipotesi del congelamento finale appare contraria a tutte le concezioni tradizionali: non è solo per Eraclito e per gli Stoici che "la distruzione dell’universo doveva coincidere con il suo incendio" (p. 201); la stessa affermazione si ritrova pressoché ovunque, dai Purâna dell’India all’Apocalisse; e dobbiamo constatare ancora una volta l’accordo di queste tradizioni con la dottrina ermetica, secondo la quale il fuoco è l’agente del "rinnovamento della natura" o della "reintegrazione finale". Tuttavia, "la scienza ha cercato di conciliare le due ipotesi: l’incandescenza finale dell’universo e il suo raffreddamento progressivo", per esempio ammettendo, come fa Arrhenius, che "il raffreddamento distrugge la vita sul nostro pianeta, mentre l’incendio, che si produce molto tempo dopo, segna la rovina e il crollo di tutto il sistema solare" (p. 201). Se fosse così, la fine della vita terrestre, invece di segnare il punto terminale del movimento ciclico, coinciderebbe solamente con il suo punto più basso; il fatto è che, a dire il vero, la concezione dei cicli cosmici non è completa se non vi s’introduce la considerazione dei cicli secondari e subordinati, integrantisi nei cicli più generali; ed è soprattutto a questi cicli parziali che sembra riferirsi l’idea del "grande anno" presso i Greci. Allora, non c’è solo una "fine del mondo", ma ce ne devono essere parecchie, e non dello stesso ordine; congelamento ed incendio troverebbero così la loro realizzazione a diversi gradi; ma un’interpretazione come quella di Arrhenius ci sembra avere una portata davvero troppo ristretta. Abbiamo considerato in precedenza solo un lato del problema, che resta molto più complesso di quanto abbiamo detto; se ci si pone da un punto di vista differente, le cose appariranno naturalmente sotto tutt’altra prospettiva. In effetti, se il calore sembra rappresentare la tendenza che conduce verso l’indifferenziazione, non è meno vero che, in questa stessa indifferenziazione, il calore e il freddo devono essere ugualmente contenuti in modo tale da equilibrarsi perfettamente; la vera omogeneità non si realizza affatto in uno solo dei termini della dualità, ma soltanto là dove la dualità ha cessato di esistere. D’altra parte, se si considera il centro del ciclo cosmico osservando le due tendenze come agenti simultaneamente, ci si accorge che, lungi dal segnare la vittoria completa, almeno momentanea, dell’una sull’altra, esso è invece quell’istante in cui la prevalenza comincia appena a passare dall’una all’altra: è dunque il punto in cui queste due tendenze sono in equilibrio che, pur instabile, nondimeno è come un’immagine o un riflesso di quel perfetto equilibrio che si realizza solo nell’indifferenziato; ed allora questo punto, invece di essere il più basso, deve essere veramente centrale sotto tutti i rapporti. Sembra dunque che nessuna delle due forze avverse giunga mai, in tutto il percorso del ciclo, a raggiungere il termine estremo verso il quale essa tende, perché sempre contrastata dall’azione dell’altra, che mantiene così un certo equilibrio almeno relativo; e d’altronde, se l’una o l’altra raggiungesse questo termine estremo, essa perderebbe allora la sua natura specifica per ritornare nell’omogeneità primordiale, perché sarebbe pervenuta al punto al di là del quale la dualità scompare. In altri termini, il punto più alto e il punto più basso sono come l’"infinito positivo" e l’"infinito negativo" dei matematici, che si ricongiungono e coincidono; ma questa giunzione degli estremi non ha alcun rapporto con l’affermazione hegeliana dell’"identità dei contraddittori": quel che appare come contrario all’interno del ciclo non lo è più quando si esce dai suoi limiti, ed è qui che l’opposizione, ormai risolta, lascia posto alla complementarità. Del resto, quest’aspetto della complementarità appare dal momento in cui si considera un certo equilibrio fra le due tendenze; ma ecco un’altra antinomia: l’equilibrio relativo è necessario per mantenere la differenziazione, poiché questa scomparirebbe se una delle due tendenze prevalesse completamente e definitivamente; ma l’equilibrio perfetto, di cui questo equilibrio relativo è come una partecipazione, equivale al contrario all’indifferenziato. Per risolvere quest’antinomia, è necessario rendersi conto che l’opposizione della differenziazione e dell’indifferenziato è puramente illusoria, che non è affatto una vera dualità, perché non c’è nessuna comune misura fra i due termini; non possiamo entrare negli sviluppi che richiederebbe un simile argomento; ma quando si è compreso questo, ci si rende conto che, nonostante le apparenze, le due forze antagoniste non tendono affatto, l’una verso la differenziazione, l’altra verso l’indifferenziato, ma che differenziazione ed indifferenziato implicano rispettivamente la manifestazione e la non-manifestazione dell’una e dell’altra ad un tempo. La manifestazione si effettua fra due poli estremi, ma che non sono propriamente "due" se non solo dal punto di vista di questa manifestazione, poiché, al di là di essa, tutto rientra finalmente nell’unità primigenia. Aggiungiamo che si dovrebbe prendere la precauzione di non applicare a dei cicli particolari e relativi quel che è vero solo per l’Universo nella sua totalità, per il quale non potrebbe mai essere questione né di evoluzione né di involuzione; ma ogni manifestazione ciclica è nondimeno in rapporto analogico con la manifestazione universale, di cui essa non è che l’espressione in un ordine d’esistenza determinato; l’applicazione di questa analogia a ogni grado è la base stessa di tutte le dottrine cosmologiche tradizionali. Si è così condotti a considerazioni di una portata propriamente metafisica; e, quando si traspongono i problemi su questo piano, ci si può chiedere che cosa divengano quei "giudizi di valore" ai quali il pensiero moderno attribuisce tanta importanza. Due vie che sono contrarie solo in apparenza e che conducano in realtà alla stessa meta, sembrano dover esser proprio dichiarate equivalenti; in ogni caso, il "valore" sarà sempre cosa eminentemente relativa, poiché concernerà i mezzi e non il fine. Lasbax considera malvagia la tendenza all’individualizzazione; ha ragione se vuol dire con questo ch’essa implica essenzialmente la limitazione, ma ha torto se intende realmente opporre l’esistenza individuale all’esistenza universale, perché, anche in questo caso, non c’è comune misura, dunque nessuna correlazione o coordinazione possibile. D’altronde, per ogni individualità, c’è in qualche modo un punto d’arresto nella limitazione, a partire dal quale questa stessa individualità può servire di base ad un’espansione in senso inverso; potremmo citare a tale riguardo quella dottrina araba secondo cui "l’estrema universalità si realizza nell’estrema differenziazione", perché l’individualità scompare, in quanto individualità, per il fatto stesso ch’essa ha realizzato la pienezza delle sue possibilità. Ecco una conseguenza che dovrebbe soddisfare Lasbax, se il punto di vista del bene e del male non esercitasse su di lui una così grande influenza; in ogni caso, malgrado la differenza delle interpretazioni, non crediamo affatto ch’egli possa contraddire per principio questa tesi, comune a tutte le dottrine metafisiche dell’Oriente, che il non manifestato è superiore al manifestato.
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Uno degli aspetti più generali della dualità cosmica è l’opposizione dei due principi che, nel nostro mondo, sono rappresentati dallo spazio e dal tempo; e d’altronde, in ciascuno dei due, la dualità si traduce ancora, in un modo più specifico, mediante una corrispondente opposizione: nello spazio, fra la concentrazione e l’espansione; nel tempo fra il passato e l’avvenire (7). I due principi ai quali facciamo allusione sono quelli che le dottrine dell’India designano con i nomi di Vishnu e di Shiva: da una parte, principio conservatore delle cose; dall’altra parte, principio, non tanto distruttore come ordinariamente si dice, ma più esattamente trasformatore. Tuttavia si deve sottolineare che è la tendenza attrattiva quella che sembra sforzarsi di mantenere gli esseri individuali nella loro condizione presente, mentre la tendenza espansiva è manifestamente trasformatrice, prendendo questa parola in tutto il valore del suo significato originale. C’è ora questo di curioso, e cioè che Lasbax denuncia la prima come una tendenza di morte, distruttrice della vera attività vitale, e definisce la vita come "una volontà di irraggiamento e di espansione" (p. 214); la potenza distruttrice sarebbe dunque per lui l’antagonista di quella che si considera abitualmente come tale. A dire il vero, si tratta solo di una questione di punto di vista, e, per poter parlare di distruzione, bisognerebbe aver cura di dire in rapporto a che cosa la si vuole intendere: così, la potenza espansiva e trasformatrice è veramente distruggitrice delle limitazioni dell’individualità e, più in generale, delle condizioni specifiche e restrittive che definiscono i diversi gradi dell’esistenza manifestata; ma essa è distruttrice solo in rapporto alla manifestazione, e con la soppressione delle limitazioni conduce alla pienezza dell’essere. In fondo siamo dunque d’accordo con Lasbax su questo punto; ma dove divergiamo da lui, è riguardo al fatto che noi consideriamo la vita come una condizione specifica dell’esistenza manifestata: se dunque si ammette che il senso della sua attività è diretto verso l’espansione, si dovrà concluderne che essa tende a distruggere se stessa; forse il solo modo di sfuggire a questa contraddizione almeno apparente è quello di rinunciare a porre il problema in termini di vita e di morte perché un tale punto di vista, checché ne pensi Lasbax, è davvero troppo particolare. Allo stesso modo, quando si considerano i due principi, come abbiamo fatto, non è possibile accordare a nessuno dei due un carattere puramente negativo: tutti e due possono avere un aspetto positivo ed uno negativo, allo stesso modo in cui possono entrambi avere un lato attivo ed uno passivo (8); senza dubbio, tutto quel che è limitazione è veramente negativo quando lo si considera metafisicamente cioè nell’universale, ma, in rapporto alle esistenze individuali, è una determinazione o una attribuzione positiva; il pericolo, qui come in tutte le cose, è dunque sempre quello di voler troppo sistematizzare. Abbiamo fatto in precedenza allusione all’esistenza di certi "punti d’arresto", nella storia del mondo così come nella vita degli individui: è come se, allorquando l’equilibrio è prossimo alla rottura a causa della prevalenza di una delle due tendenze avverse, l’intervento d’un principio superiore venisse a dare al corso delle cose un impulso in senso inverso, dunque in favore dell’altra tendenza. È in questo che consiste in gran parte la spiegazione della teoria indù degli avatâra, con la sua duplice interpretazione secondo le concezioni shivaita e vishnuita; per comprendere questa duplice interpretazione, non si deve pensare solamente alla corrispondenza delle due tendenze presenti, ma soprattutto a quella sorta di antinomia alla quale dà luogo la concezione dell’equilibrio cosmico, e che abbiamo esposto più sopra: se si insiste sulla conservazione, mediante quest’equilibrio, dello stato attuale di differenziazione, si ha l’aspetto vishnuita della dottrina; se si considera al contrario l’equilibrio come il riflesso dell’indifferenziazione principiale nel seno stesso del differenziato, se ne ha l’aspetto shivaita. In ogni caso, allorché si può parlare d’equilibrio, si deve senza dubbio insistere meno sull’opposizione dei due principi che sulla loro complementarità; d’altronde la connessione con l’ordine metafisico non consente un’attitudine diversa. A parte quest’ultimo punto, la considerazione dei due principi di cui abbiamo parlato si accorda con quella di Lasbax, in primo luogo riguardo al fatto che questi principi, sotto qualunque modalità li si consideri, appaiono in qualche modo come simmetrici e situantisi ad uno stesso grado d’esistenza, e in secondo luogo in quanto essi sono ugualmente attivi l’uno e l’altro, benché in senso contrario. Lasbax dichiara in effetti che "l’opposizione non è fra un principio attivo che sarebbe lo spirito ed un principio passivo che sarebbe la materia; i due principi sono, al contrario, essenzialmente attivi" (p. 428); ma conviene aggiungere ch’egli intende così caratterizzare "l’ultima dualità del mondo", ch’egli concepisce in un modo davvero troppo antropomorfico, come "una lotta di due volontà". Questo non è affatto il nostro punto di vista: la dualità che abbiamo considerato come ultima, benché avente una portata estremamente estesa, non è davvero l’ultima secondo noi; ma, d’altra parte, la dualità dello spirito e della materia, come la s’intende dopo Cartesio, non è che un’applicazione assai particolare d’una distinzione di tutt’altro ordine. Ci meravigliamo che Lasbax scarti così facilmente la concezione della dualità sotto l’aspetto dell’attivo e del passivo, allorché insiste tanto, da un altro lato, sulla dualità dei sessi, che tuttavia non si può altrimenti comprendere per nulla. Non è contestabile, in effetti, che il principio maschile appaia come attivo e quello femminile come passivo e che d’altra parte essi siano assai più complementari che veramente opposti; ma è forse proprio tale complementarismo che infastidisce Lasbax nella considerazione dell’attivo e del passivo, nella quale non si può affatto parlare di opposizione nel senso proprio di questa parola, perché i due termini presenti, ovvero i principi ch’essi rappresentano da un certo punto di vista, non appartengono affatto ad un solo ed unico ordine di realtà. Prima di spiegarci oltre su questo argomento, segnaleremo il modo assai ingegnoso col quale Lasbax estende la dualità dei sessi fino allo stesso mondo stellare, adattando alla propria concezione la recente teoria cosmogonica di Belot, ch’egli oppone vantaggiosamente a quella di Laplace, sulla quale essa in effetti sembra avere una superiorità molto apprezzabile quanto al suo valore esplicativo. Considerato secondo questa teoria, "il sistema solare e i sistemi siderali divengono realmente degli organismi; essi formano un ‘regno cosmico’ sottomesso alle stesse leggi della riproduzione del regno animale o vegetale, e così come il regno chimico nel quale il dualismo si afferma nell’atomo mediante la coesistenza di elettroni positivi o negativi" (p. 344). C’è una gran parte di verità, secondo noi, in quest’idea, d’altronde familiare agli antichi astrologi (9), delle "entità cosmiche" o siderali analoghe agli esseri viventi; ma l’uso dell’analogia è qui assai delicato e bisogna aver cura di definire con precisione i limiti nei quali essa è applicabile, senza di che si rischia di essere costretti ad un’assimilazione ingiustificata; è quel che è successo a certi occultisti, per i quali gli astri sono letteralmente degli esseri che possiedono tutti gli organi e tutte le funzioni della vita animale, e ci avrebbe fatto piacere vedere Lasbax fare almeno un’allusione a questa teoria per sottolineare in che misura la sua ne differisce. Ma non insistiamo oltre sui dettagli; l’idea essenziale è che "la nascita dell’universo materiale", risultante dallo scontro di due nebulose che giocano d’altronde dei ruoli diversi, "esige la presenza anteriore di due progenitori, vale a dire di due individui già differenziati", e che "la produzione successiva dei fenomeni fisici non sembri più come una successione d’innovazioni o di modificazioni accidentali, ma come la ripetizione, su di una nuova trama, di caratteristiche ancestrali diversamente combinate e trasmesse attraverso l’eredità" (p. 334). In fondo, la considerazione dell’eredità, così introdotta, altro non è che un’espressione, in linguaggio biologico, di quell’incatenamento causale dei cicli cosmici di cui abbiamo parlato più sopra; sarebbe sempre bene prendere certe precauzioni quando si trasferiscono dei termini che son stati fatti per essere applicati ad uno specifico dominio, e bisogna anche dire che, persino in biologia, il ruolo dell’eredità è lungi dall’essere perfettamente chiaro. Malgrado tutto, c’è in tutto ciò un’idea assai interessante, ed è già molto arrivare a simili concezioni partendo dalla scienza sperimentale, la quale, costituita unicamente per lo studio del mondo fisico, non dovrebbe farci uscire da esso; quando arriviamo ai confini di questo mondo, come nel presente caso, sarebbe vano cercare di andare ancora più lontano servendosi degli stessi mezzi specifici d’investigazione. Al contrario, le dottrine cosmologiche tradizionali, che partono da principi metafisici, considerano per prima cosa tutto l’insieme della manifestazione universale, ed in seguito non c’è che da applicare l’analogia a ciascun grado della manifestazione, secondo le condizioni particolari che definiscono questo grado o questo stato di esistenza. Ora, il mondo fisico rappresenta semplicemente uno stato dell’esistenza manifestata, fra una indefinità di altri stati; se dunque il mondo fisico ha due "progenitori", come dice Lasbax, è per analogia con la manifestazione universale tutta intera, che ha a sua volta due "progenitori" o, per esprimersi più esattamente e senza antropomorfismi, due principi generatori (10). I due principi di cui si tratta ora sono propriamente i due poli fra i quali si produce ogni manifestazione; essi sono quel che possiamo chiamare "essenza" e "sostanza", intendendo queste parole in senso metafisico, cioè universale, distinto dall’applicazione analogica che potrà in seguito esserne fatta alle esistenze particolari. C’è in questo come un raddoppiamento o una polarizzazione dell’essere stesso, non "in sé", ma in rapporto alla manifestazione, che sarebbe altrimenti inconcepibile; e l’unità dell’essere puro non è affatto intaccata da questa prima distinzione, non più di quanto lo sarà dalla moltitudine delle altre distinzioni contingenti che ne deriveranno. Non intendiamo sviluppare qui questa teoria metafisica, né mostrare come la molteplicità può essere contenuta in principio nell’unità; d’altronde, il punto di vista della cosmologia (non diciamo affatto della cosmogonia, che è ancora più speciale) non deve risalire al di là della prima dualità, e tuttavia non è affatto dualista dal momento che esso lascia sussistere la possibilità di una unificazione che lo superi e che si compie in un ordine superiore. Questa concezione della prima dualità si ritrova in dottrine che rivestono le forme più diverse: così, in Cina, è la dualità dei principi Yang, maschile, e Yin, femminile; nel Sânkhya dell’India, è quella dell’atto puro e della potenza pura. Esse sono quella di Purusha e di Prakriti; in Aristotele questi principi complementari hanno la loro espressione relativa in ciascun ordine di esistenza, ed anche in ciascun essere particolare: per servirci qui del linguaggio aristotelico, ciascun essere contiene una certa parte in atto ed un’altra in potenza, il che lo costituisce come un composto di due elementi, corrispondenti analogicamente ai due principi della manifestazione universale; i due elementi sono la forma e la materia, non diciamo lo spirito e il corpo, perché essi non assumono quest’ultimo aspetto che in un dominio molto particolare. Sarebbe interessante stabilire a tale riguardo alcune comparazioni, e studiare per esempio i rapporti che esistono fra queste concezioni di Aristotele e quelle di Leibnitz, che sono, in tutta la filosofia moderna, quelle che vi si avvicinano di più, sul presente punto come su molti altri, ma con una riserva, che, in Leibnitz, l’essere individuale appare un tutto sufficiente a se stesso, il che non permette affatto il collegamento al punto di vista propriamente metafisico; i limiti di questo studio non ci permettono d’insistervi oltre. Riprendendo per maggior comodità la rappresentazione dei "piani d’esistenza", alla quale ricorre così sovente Lasbax, ma d’altronde attribuendovi un significato puramente simbolico, potremmo dire che è il caso di considerare, nelle dualità cosmiche, sia una "opposizione verticale" che una "opposizione orizzontale". L’opposizione verticale è quella dei due poli della manifestazione universale, ed essa si traduce in ogni cosa mediante l’opposizione o meglio mediante il complementarismo dell’attivo e del passivo in tutte le loro modalità; tale aspetto, che Lasbax trascura un po’ troppo, è tuttavia quello che corrisponde alla più fondamentale di tutte le dualità. D’altra parte, l’opposizione orizzontale, cioè quella in cui i due termini presenti sono simmetrici e appartengono realmente ad uno stesso piano, è l’opposizione propriamente detta, quella che può essere rappresentata mediante l’immagine di una "lotta", anche se tale immagine non è sempre così giusta quanto può esserlo nell’ordine fisico o nell’ordine sentimentale. Quanto poi a far corrispondere termine a termine le dualità che appartengono rispettivamente a due generi diversi, questo non è possibile senza delle difficoltà; così Lasbax prova un certo imbarazzo a ricollegare i principi maschile e femminile all’espressione delle sue due "volontà avverse": se a lui sembra, come tesi generale, di risolvere il problema a favore dell’elemento femminile, perché egli crede di affermare con questo la superiorità della specie sull’individuo, gli si può obiettare che molte dottrine cosmologiche descrivono tuttavia la forza espansiva come maschile e la forza attrattiva come femminile, raffigurandole simbolicamente mediante la dualità del "pieno" e del "vuoto"; questo argomento meriterebbe qualche riflessione. D’altronde, il "piano dell’esistenza" non è veramente superiore a quello dell’individuo, esso non ne è in realtà che un’estensione, e tutti e due appartengono ad uno stesso grado dell’esistenza universale; non si devono prendere per gradi differenti quelle che non sono altro che modalità diverse di uno stesso grado, ed è questo l’errore che fa sovente Lasbax, per esempio quand’egli considera le molteplici modalità possibili dell’estensione. Insomma, e sarà questa la nostra conclusione, i dati della scienza, nel senso attuale di questa parola, possono condurci a considerare un’estensione indefinita in un certo "piano d’esistenza", quello che è effettivamente il dominio di tale scienza, e che può contenere molte altre modalità rispetto al mondo corporeo che cade sotto i nostri sensi; ma, per passare da lì ad altri piani, è necessario tutt’altro punto di partenza, e la vera gerarchia dei gradi dell’esistenza dovrebbe essere concepita come un’estensione graduale e successiva delle possibilità che sono sottoposte a certe condizioni limitative come lo spazio o il tempo. Questo, per essere effettivamente compreso, richiederebbe sicuramente degli sviluppi assai estesi; ma ci siamo qui soprattutto proposti, indicando taluni punti di comparazione fra teorie di origine e di natura assai diversa, di mostrare alcune vie di ricerca che sono troppo poco conosciute, perché i filosofi hanno malauguratamente l’abitudine di rinchiudersi in un cerchio estremamente ristretto. Note
(1) I vol. in 8° della Bibliothèque de philosophie contemporaine, Parigi, 1919. (2) Dom A.-J. Pernéty, Dictionnaire mytho-hermétique (1758), art. Conjonction, p. 87. (3) Vedasi in particolare la Chândogya Upanishad. (4) È evidentemente per un lapsus che Lasbax ha scritto (p. 32) Agni in luogo di Ahi, che non è per nulla la stessa cosa. (5) La naissance et l’évanouissement de la matière. (6) Vedasi l’Amphitheatrum Sapientiae Aeternae di Khunrath, le Clefs d’Alchimie di Basilio Valentino, etc. (7) Segnaliamo inoltre a questo proposito, per completare quel che abbiamo detto della teoria degli elementi, la dualità delle proprietà contenute in uno stesso elemento, che riproduce in qualche modo le dualità più generali: per esempio, la polarizzazione dell’elemento igneo in luce e calore, sulla quale dei dati particolarmente curiosi sono forniti dalle tradizioni musulmane relative alla creazione ed alla caduta. (8) Nel simbolismo indù, ciascun principio ha la sua shakti, che ne è la forma femminile. (9) Cfr. le teorie sugli "spiriti planetari", l’angelologia giudaica e musulmana. (10) La teoria della "nascita dell’universo", così come la espone Lasbax, permetterebbe ancora degli interessanti raffronti con simboli come quello dell’"uovo del mondo", che si ritrovano nella cosmogonia indù ed in molte altre tradizioni antiche; questi simboli sono d’altronde applicabili all’intera manifestazione universale, così come ad una qualunque delle sue modalità, considerata a parte.
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