«Distinzione fondamentale fra il sé e l'io» - II capitolo di L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta (René Guénon)

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«Distinzione fondamentale fra il sé e l'io» - II capitolo di L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta (René Guénon)


 

Per comprendere perfettamente la dottrina del Vedanta, per ciò che concerne l’essere umano, è soprattutto necessario distinguere, il più nettamente possibile, e fondamentalmente, il «Sé», che è il principio stesso dell’essere, dall’«io» individuale. È quasi superfluo dichiarare espressamente che l’uso del termine «Sé» non implica per noi una comunanza di interpretazione con certe scuole che hanno adoperato questa parola e che hanno presentato sotto una terminologia orientale, il più spesso incompresa, semplici concezioni del tutto occidentali e d’altronde eminentemente fantastiche; alludiamo non solamente al teosofismo, ma anche ad altre scuole pseudo-orientali, che hanno interamente snaturato il Vedanta col pretesto di adattarlo alla mentalità occidentale e sulle quali abbiamo già avuto occasione di spiegarci. L’abuso di una parola non è, per noi, una ragione sufficiente perché si debba rinunciare a servirsene, a meno che non si trovi il mezzo di sostituirla con altra che sia altrettanto adatta per quello che si vuole esprimere, ma ciò non torna al caso nostro; d’altronde, se volessimo essere troppo rigorosi, finiremmo senza dubbio per avere solo pochissime parole a nostra disposizione, poiché difficilmente se ne trovano che non siano state più o meno abusivamente usate da qualche filosofo. Gli unici vocaboli che abbiamo intenzione di mettere da parte sono quelli espressamente creati per concezioni con le quali quelle che noi esponiamo non hanno niente in comune: per esempio, le denominazioni dei diversi generi di sistemi filosofici, ed altresì i termini che appartengono propriamente al vocabolario degli occultisti e degli altri «neospiritualisti»; ma, per quelle parole che questi ultimi hanno preso in prestito a dottrine anteriori, che hanno l’abitudine di plagiare sfrontatamente, senza capirle, non possiamo evidentemente avere scrupoli a farle nostre, restituendo quel significato che loro conviene normalmente.

Invece dei termini «Sé» ed «io», possiamo anche usare quelli di «personalità» e di «individualità», con una riserva tuttavia, poiché il «Sé», come spiegheremo più avanti, può essere qualche cosa più della personalità. I teosofisti, che sembrano soddisfatti quando possano complicare la loro terminologia, attribuiscono alla personalità ed all’individualità un senso esattamente inverso di quello che correttamente debbono significare: essi identificano la prima all’«io» e la seconda al «Sé». Al contrario, prima di loro, anche in Occidente, ogni qual volta una qualsiasi distinzione è stata fatta fra queste due parole, la personalità è sempre stata considerata superiore all’individualità: in tal modo noi scorgiamo il loro rapporto normale che è vantaggioso conservare. La filosofia scolastica, particolarmente, non ha ignorato questa distinzione, ma non sembra vi abbia dato il suo pieno valore metafisico, né abbia dedotto le profonde conseguenze che vi sono implicite; ciò d’altronde accade frequentemente, anche quando essa presenta le più notevoli similitudini con certe parti delle dottrine orientali. In tutti i casi, la personalità, intesa metafisicamente, niente ha in comune con quello che filosofi moderni chiamano così spesso la «persona umana», che in realtà è l’individualità pura e semplice; del resto questa soltanto, e non la personalità, può essere propriamente chiamato umana. In modo generale, sembra che gli Occidentali, anche quando vogliono spingersi più oltre nelle loro concezioni di quanto non lo faccia la maggioranza, attribuiscono alla personalità quello che in verità è soltanto la parte superiore dell’individualità, od una semplice sua estensione [Léon Daudet, in due sue opere (L’Hérédo e Le Monde des Images), ha distinto nell’essere umano ciò che chiama il «sé» e l’«io», ma, per noi, entrambi fanno ugualmente parte dell’individualità, e tutto ciò cade nel dominio della psicologia, che, per contro, mai può raggiungere la personalità; questa distinzione è tuttavia una specie di notevole presentimento, per un autore che non ha la pretesa di essere un metafisico]; in tali condizioni, tutto ciò che riguarda l’ordine metafisico puro resta necessariamente al di fuori della loro comprensione.

Il «Sé» è il principio trascendente e permanente di cui l’essere manifestato, l’essere umano per esempio, non è che una modificazione transitoria e contingente, modificazione che non potrebbe d’altronde affatto alterare il principio, come spiegheremo più ampiamente in seguito. Il «Sé», come tale, non è mai individualizzato, né può esserlo, poiché, dovendo sempre essere considerato nell’aspetto dell’eternità e dell’immutabilità, che sono gli attributi necessari dell’Essere puro, non è evidentemente suscettibile di alcuna particolarizzazione, che lo farebbe essere «altro che sé stesso». Immutabile nella sua propria natura, sviluppa semplicemente le possibilità indefinite che in sé comporta, per mezzo del passaggio relativo della potenza all’atto, attraverso un’indefinità di gradi, senza che la sua essenziale permanenza ne sia modificata, precisamente perché questo passaggio non è che relativo, e perché questo sviluppo è uno, propriamente parlando, solo considerandolo dal lato della manifestazione, fuori della quale non può essere questione di una qualsiasi successione, ma semplicemente di una perfetta simultaneità, di modo che anche quello che è virtuale sotto un certo rapporto non è meno realizzato nell’«eterno presente». Quanto alla manifestazione, si può dire che il «Sé» sviluppa le sue possibilità in tutte le modalità di realizzazione, in moltitudine indefinita, che sono, per l’essere integrale, altrettanti stati differenti, stati di cui uno solo, sottomesso a condizioni d’esistenza specialissime che lo definiscono, costituisce la parte o piuttosto la particolare determinazione di quest’essere che è l’individualità umana. Il «Sé» è così il principio per il quale esistono, ognuno nel suo proprio dominio, tutti gli stati dell’essere; non soltanto gli stati manifestati, di cui abbiamo già parlato, individuali, come lo stato umano, o sopra-individuali, ma anche, quantunque allora la parola «esistere» divenga impropria, lo stato non-manifestato, comprendente le possibilità che non sono suscettibili di alcuna manifestazione, nello stesso tempo che le possibilità di manifestazione stesse in modo principiale; ma questo «Sé» non esiste che per se stesso, non avendo, né potendo avere, nell’unità totale ed indivisibile della sua natura intima, alcun principio che ad esso sia esteriore [Abbiamo intenzione di esporre più completamente in altri studi la teoria metafisica degli stati multipli dell’essere; ci limitiamo per ora ad indicare ciò che è indispensabile per la comprensione di quanto concerne la costituzione dell’essere umano].

Il «Sé», considerato in rapporto ad un essere, come abbiamo fatto, è propriamente la personalità; si potrebbe, è vero, restringere l’uso di quest’ultimo termine al «Sé» come principio degli stati manifestati, nello stesso modo che la «Personalità Divina», Ishwara, è il principio della manifestazione universale; ma lo si può anche estendere analogicamente al «Sé» come principio di tutti gli stati dell’essere, manifestati e non-manifestati. Questa personalità è una determinazione immediata, primordiale e non particolarizzata, del principio chiamato in sanscrito Atma o Paramatma, e che possiamo designare, in mancanza di una parola che meglio si addica, come lo «Spirito Universale», ma, si intende, a condizione di non scorgere nell’uso del termine «spirito» niente che possa ricordare le concezioni filosofiche occidentali, e, specialmente, di non farne un correlativo di «materia», come quasi abitualmente avviene per i moderni, che, a tale riguardo, anche inconsciamente, subiscono l’influenza del dualismo cartesiano [Teologicamente, quando si dice che «Dio è puro spirito», è verosimile che ciò non deve nemmeno intendersi nel senso dello «spirito» che si oppone alla «materia», per cui questi due termini debbono comprendersi relativamente l’uno all’altro, poiché si giungerebbe ad una specie di concezione «demiurgica», più o meno prossima a quella attribuita al Manicheismo; non è men vero che una tale espressione è di quelle che possono facilmente dare luogo a false interpretazioni, tendendo a sostituire «un essere» all’Essere puro]. La vera metafisica, diciamolo nuovamente a proposito, va molto oltre tutte le opposizioni di cui quella di «spiritualismo» e di «materialismo» ce ne offre il tipo, né si preoccupa delle questioni più o meno speciali, e spesso completamente artificiali, che sono prodotte da simili opposizioni.

Atma penetra tutte le cose, che sono le sue modificazioni accidentali, e che, secondo l’espressione di Ramanuja, «costituiscono in qualche modo il suo corpo (questa parola deve essere intesa in senso puramente analogico), siano esse d’altronde di natura intelligente o non-intelligente», vale dire, secondo le concezioni occidentali, «spirituali» o «materiali», poiché, esprimendo questo solo una diversità di condizioni nella manifestazione, non comporta nessuna differenza per il principio incondizionato e non-manifestato. Questo, infatti, è il «Supremo Sé» (la traduzione letterale di Paramatma) di tutto ciò che esiste, in qualsiasi modo; ed è sempre «lo stesso», tanto attraverso la molteplicità indefinita dei gradi dell’Esistenza, intesa in senso universale, quanto di là dall’Esistenza stessa, vale a dire nella non-manifestazione principiale.

Il «Sé», anche per un essere qualsiasi, è identico in realtà ad Atma, poiché è essenzialmente oltre tutte le distinzioni e particolarizzazioni; perciò, in sanscrito, la stessa parola atman, nei casi diversi dal nominativo, prende il posto del pronome riflessivo «se stesso». Il «Sé» non è dunque punto veramente distinto da Atma, tranne se lo si considera particolarmente e «distintivamente», in rapporto ad un essere, ed anche, più precisamente, in rapporto ad un certo stato definito di quest’essere, tale lo stato umano, ma soltanto finché lo si considera da questo punto di vista specializzato e limitato. In tal caso, d’altronde, il «Sé» non diventa effettivamente ed in qualche modo distinto da Atma, poiché non può essere «altro che sé stesso», come più sopra dicemmo, né potrebbe evidentemente essere modificato dal punto di vista dal quale lo si considera e nemmeno da alcun altra contingenza. È necessario aggiungere che, nella stessa misura in cui si fa questa distinzione, ci si allontana dalla diretta considerazione del «Sé», per prendere in esame veramente soltanto il suo riflesso nell’individualità umana, o in qualsivoglia altro stato dell’essere, poiché è superfluo dire che dinnanzi al «Sé» tutti gli stati della manifestazione sono rigorosamente equivalenti e possono essere considerati similmente; ma, presentemente, è l’individualità umana che ci interessa più particolarmente. Questo riflesso di cui parliamo determina ciò che si può chiamare il centro di questa individualità; ma, se lo si isola dal suo principio, vale a dire dal «Sé», la sua esistenza è allora puramente illusoria, poiché è dal principio che trae tutta la sua realtà, e possiede effettivamente questa realtà appunto in quanto partecipa alla natura del «Sé», vale a dire in quanto ad esso si identifica per universalizzazione.

La personalità, vi insistiamo ancora, è essenzialmente dell’ordine dei principi nel senso più rigoroso della parola, vale dire dell’ordine universale; essa non può dunque essere considerata che dal punto di vista della metafisica pura, il cui dominio è precisamente l’Universale. I «pseudometafisici» dell’Occidente hanno l’abitudine di confondere l’Universale con cose che, in realtà, appartengono all’ordine individuale; o meglio, giacché essi non concepiscono affatto l’Universale, abusivamente attribuiscono d’ordinario questo nome al generale, che è precisamente una semplice estensione dell’individuale. Certuni spingono ancora oltre la confusione: i filosofi «empiristi», che non riescono neanche a concepire il generale, l’assimilano al collettivo, che, in verità, è solo del particolare; per queste successive degradazioni, ogni cosa si riduce infine allo stesso livello della conoscenza sensibile, che molti considerano infatti come la sola possibile, poiché il loro orizzonte mentale non si distende oltre; queste stesse persone vorrebbero altresì imporre a tutti le limitazioni, conseguenza della loro incapacità spesso naturale, talvolta acquisita da una speciale educazione.

Per prevenire ogni equivoco del genere di quelli segnalati, daremo la seguente tavola, che precisa le distinzioni essenziali a questo riguardo, ed alla quale preghiamo i nostri lettori di riferirsi nelle occasioni necessarie, al fine di evitare ripetizioni alquanto fastidiose:
 

Universale
   Individuale – Generale
                                Particolare – Collettivo
                                                            Singolare

 

È necessario aggiungere che la distinzione dell’Universale e dell’individuale non deve essere considerata una correlazione, poiché il secondo dei due termini, annullandosi rigorosamente di fronte al primo, non gli potrebbe essere affatto opposto. Ciò è vero anche per quel che concerne il non-manifestato ed il manifestato; d’altronde, potrebbe sembrare a prima vista che l’Universale ed il non-manifestato debbano coincidere, e, da un certo punto di vista, la loro identificazione sarebbe infatti giustificata, poiché, metafisicamente, tutto l’essenziale è il non-manifestato. Tuttavia, non bisogna dimenticare certi stati di manifestazione che essendo informali, sono appunto perciò sopra-individuali; se dunque non si distingue che l’Universale e l’individuale, si dovrà necessariamente riferire questi stati all’Universale, ciò che si potrà fare altrettanto meglio poiché si tratta di una manifestazione in qualche modo ancora principiale, perlomeno in paragone con gli stati individuali; ma ciò, s’intende, non deve fare dimenticare che tutto quel che è manifestato, anche a questi gradi superiori, è necessariamente condizionato, vale dire relativo. Se si considerano le cose in tal modo, l’Universale sarà, non più solamente il non-manifestato, ma l’informale, comprendente nello stesso tempo il non-manifestato e gli stati di manifestazione sopra-individuali; quanto all’individuale, esso contiene tutti i gradi della manifestazione formale, vale a dire gli stati nei quali gli esseri sono rivestiti di forme, poiché il carattere speciale dell’individualità, che la costituisce essenzialmente come tale, è precisamente la presenza della forma fra le condizioni limitative che definiscono e determinano uno stato d’esistenza. Possiamo ancora riassumere queste ultime considerazioni nella tavola seguente:

 

Universale -    Non-manifestazione
                                Manifestazione informale

Individuale -   Manifestazione formale -    Stato sottile
                                                                                       Stato grossolano.

 

Le espressioni di «stato sottile» e «stato grossolano», che si riferiscono a gradi differenti della manifestazione formale, saranno spiegate più innanzi; ma possiamo indicare fin d’ora che quest’ultima distinzione ha valore alla sola condizione di prendere per punto di partenza l’individualità umana, o più esattamente il mondo corporeo o sensibile. Lo «stato grossolano» è infatti l’esistenza corporea stessa, alla quale l’individualità umana, come lo si vedrà, appartiene per una delle sue modalità, e non nel suo integrale sviluppo; quanto allo «stato sottile», comprende, da una parte, le modalità extracorporee dell’essere umano, o di tutt’altro essere nello stesso stato di esistenza, ed anche, d’altra parte, tutti gli stati individuali altri che quello. Si vede che questi due termini non sono veramente simmetrici e neanche possono avere comune misura, poiché l’uno dei due rappresenta soltanto una parte di uno degli stati indefinitamente multipli che costituiscono la manifestazione formale, mentre l’altro comprende tutto il resto di questa manifestazione [Spiegheremo questa asimmetria con una nota di applicazione comune, che rileva semplicemente della logica ordinaria: se si considera una attribuzione od una qualità qualunque, si dividono appunto perciò tutte le cose possibili in due gruppi: da una parte, quello delle cose che posseggono questa qualità, dall’altra, quella delle cose che non la posseggono; ma, mentre il primo gruppo è così positivamente definito e determinato, il secondo, che è caratterizzato in modo puramente negativo, non è perciò affatto limitato ed è veramente indefinito; non vi è dunque né comune misura né simmetria fra questi due gruppi, che così non costituiscono realmente una divisione binaria, e la cui distinzione vale d’altronde evidentemente al solo punto di vista speciale della qualità presa come punto di partenza, poiché il secondo gruppo non ha omogeneità e può comprendere cose non comuni fra loro, ciò che tuttavia non impedisce questa divisione di essere veramente valida nel rapporto considerato. Ora è appunto in tal modo che distinguiamo il manifestato ed il non-manifestato, poi, nel manifestato, il formale e l’informale, e finalmente, nel formale stesso, il corporeo e l’incorporeo]. Fino ad un certo punto, vi è simmetria, se ci limitiamo a rilevare la sola individualità umana; d’altronde è proprio da questo punto di vista che la distinzione di cui si tratta è stabilita in primo luogo dalla dottrina indù; anche se poi ci si pone di là da questo punto di vista, e se lo si è intravisto appunto per oltrepassarlo effettivamente, sempre dovremo inevitabilmente assumerlo come base e termine di paragone, poiché è ciò che concerne lo stato in cui attualmente ci troviamo. Diremo dunque che l’essere umano, considerato nella sua integralità, comporta un certo insieme di possibilità che costituiscono la sua modalità corporea o grossolana, nonché una moltitudine di altre possibilità che, prolungandosi in diversi sensi di là da questa, costituiscono le sue modalità sottili; ma tutte queste possibilità riunite non rappresentano tuttavia che un solo ed uno stesso grado dell’Esistenza universale. Risulta quindi che l’individualità umana è contemporaneamente molto più e molto meno di quello che la credono ordinariamente gli Occidentali: molto più, perché essi ne conoscono semplicemente la modalità corporea, infima parte delle sue possibilità; ma anche molto meno, perché questa individualità, lungi dal rappresentare realmente l’essere totale, non ne è che uno stato, fra una serie indefinita di altri stati, la cui stessa somma è niente ancora se paragonata alla personalità, che è l’essere vero, essendo il suo stato permanente ed incondizionato, l’unico che possa essere considerato assolutamente reale. Il resto è indubbiamente anche reale, ma soltanto in modo relativo, in virtù della sua dipendenza dal principio ed in quanto ne riflette qualche cosa, come l’immagine prodotta nello specchio trae la sua realtà dall’oggetto, senza il quale non avrebbe alcuna esistenza; ma questa minore realtà, che è solo partecipata, è illusoria in rapporto alla realtà suprema, come la stessa immagine è anche illusoria in rapporto all’oggetto; se si pretendesse isolarla dal principio, questa illusione diventerebbe irrealtà pura e semplice. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a dire l’essere condizionato e manifestato, sia contemporaneamente reale in un certo senso e illusoria in un altro: questo è un punto essenziale, che mai hanno capito gli Occidentali che hanno oltraggiosamente deformato il Vedanta con le loro interpretazioni erronee e piene di pregiudizi.

Dobbiamo ancora avvertire i filosofi più specialmente che l’Universale e l’individuale non sono affatto per noi ciò che essi chiamano «categorie», e ricorderemo, poiché i moderni sembrano averlo un po’ dimenticato, che le «categorie», nell’accezione aristotelica della parola, non sono che i più generali fra tutti i generi, perciò appartengono ancora al dominio dell’individuale, di cui d’altronde indicano il limite ad un certo punto di vista. Sarebbe più giusto assimilare all’Universale ciò che gli scolastici chiamano i «trascendentali», che oltrepassano precisamente tutti i generi e le stesse «categorie», ma, se questi «trascendentali» appartengono infatti all’ordine universale, sarebbe sempre un errore credere che costituiscano tutto l’Universale, od anche che siano ciò che vi è di più importante per la metafisica pura; essi sono coestensivi all’Essere, ma non oltrepassano punto l’Essere, al quale d’altronde si ferma la dottrina nella quale sono così considerati. Ora, se l’«ontologia» o la conoscenza dell’Essere rileva della metafisica, essa è lungi dal rappresentare la metafisica completa e totale, poiché l’Essere non è affatto il non-manifestato in sé, ma semplicemente il principio della manifestazione; e, poi, ciò che è al di là dell’Essere è molto più importante ancora, metafisicamente, dell’Essere stesso. In altre parole, è Brahma, non Ishwara, che deve essere riconosciuto come il Principio Supremo; ciò è espressamente e prima di tutto dichiarato dai Brahma-sutra, che esordiscono con queste parole: «Ora comincia lo studio di Brahma», a cui Shankaracharya aggiunge il seguente commento: «Ingiungendo la ricerca di Brahma, questo primo sutra raccomanda uno studio riflessivo dei testi delle Upanishad, fatto con l’aiuto di una dialettica che (prendendoli per base e principio) non sia mai in disaccordo con essi e che, come essi (ma a titolo di semplice mezzo ausiliario), si proponga per fine la Liberazione».

 

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