Havismat
L' ATTIMO E L' ETERNO
( Tratto da "Introduzione alla
Magia - Gruppo di UR - Volume II". Edizioni Mediterranee )
Si può dire che il sacro si
distingue dal profano perchè volto essenzialmente verso il passato per fissare
le tappe di uno sviluppo che, necessariamente, trova il suo apice in un
"presente": questo presente è il punto metafisico in cui sfocia l' eternità e si
dissolvono i mondi in una ampiezza che non ha margine, in una durata che non ha
ritmo, in una beatitudine che non ha fine. Il presente è l' eterno: il passato è
il vestibolo che guida, immette nell' eterno. Rifare, ripercorrere tutto il
ciclo che si compie nel punto significa portare con sè tutta l' esperienza dei
secoli, tutta l' evoluzione cosmica per scioglierne la trama nella pupilla di
Dio.
Faust non poteva arrestare l' attimo perchè dell' attimo coglieva solo il
caduco, l' immediata iridescenza dell' illusione, la vertigine sommergente e non
trasfigurante, il fantasma labile e vanente e non ciò che in Dio permane in una
momentaneità infinita, che è il mistero dell' attualità eterna. Questi sono i
due aspetti dell' "attimo", secondo che ci si pone sul piano umano o divino. Si
tratta di due punti apparentemente opposti e divergenti che segnano due mondi,
due ritmi, due realtà, delle quali l' una è assoluta ed essenziale, l' altra
fallace ed illusoria. Il verweile doch, du bist so schön ( "arrestati,
sei così bello" ) di Faust è un surrogato lirico di ben scarsa originalità di
fronte all' abissale pienezza dell' Ineffabile ove si compie il mistero della
generazione divina. Il mito della purificazione attraverso l' estetica è il
fragilissimo ponte che l' imbecillità moderna ha teso sulla momentaneità dell'
illusione umano-cosmica per evadere dalla positiva certezza del mistero, da una
parete che non è valicabile se non per mezzo del superamento vertiginoso dell'
ala, cioè dello Spirito di Dio.
Ecco perchè il mondo moderno oscilla fra un passato morto e un avvenire
nebuloso, tra ciò che non è più e ciò che mai sarà se non nella speranza
anticipatrice e costruttiva. invece la saggezza tradizionale si volge al
passato, lo vive, lo feconda, lo attualizza, vi s' inserisce portandolo
tutto intero nel presente e rinnovandolo nel ver aeternum che gli
Antichi assegnavano alla età dell' oro, indicando la germinazione perenne della
Verità, il pullulio degli stati trasfiguratori, l' assunzione nella vita che non
conosce nascita e morte, ma che si compie nella beatitudine della conoscenza
realizzatrice. Per i moderni, invece, il passato è passato, è morto, è finito,
compiuto, chiuso, irrimiediabile - le déjà vu, le déjà vecu, dice
Bergson, con un evidente orientamento psicologistico che accusa tutta la
sentimentalità nostalgica del piccolo uomo tremendamente schiavo del piccolo
mondo. Di modo che fra un passato morto e un futuro non ancor nato osculla il
crepuscolare presente, tramonto nubiloso e alba sbiadita ad un tempo, insomma
vera e propria pausa d' agonia. Da questa visione erronea delle cose deriva il
mito dell' avvenire, la protensione verso ciò che non è, verso ciò che
mai sarà, perchè in realtà solo il presente, assorbendo il passato, è il punto
dinamico, tutta la prua della nave che fronteggia l' orizzonte ma non lo
raggiunge mai.
L' uomo moderno può paragonarsi ad un necroforo che sospira il giorno che mai
spunta: il cadavere che egli porta è il passato, l' eredità inerte, infeconda, e
il giorno che egli attende è l' avvenire, la prole immaginaria, il compimento
radioso di un chimerico parto incompiuto. Si osserva che tutti i moderni, i
"grandi uomini", aspettano il giudizio definitivo della loro opera dell'
avvenire, perchè forse essi conscientemente od incosciamente sentono che nulla
di quel che hanno compiuto si riallaccia tradizionalmente al fiume regale del
passato ed è capace di resitere all' oscillante ago magnetico del presente,
attimo fugace e momentaneità incidente ben altri abissi che non lo screzio
marginale della nuvola passeggera. Ecco perchè l' uomo antico è un portatore di
mondi; egli il passato non lo ha lasciato dietro di sè, ma lo raccoglie e
trascina in modo da costruire in realtà un punto solo incidente, il presente
solo, l' attualità - mentre l' uomo moderne, sbarazzandosi di un fardello
troppo pesante per le sue fiacche spalle, è leggero, inconsistente, e per paura
di essere travolto dalle oblique folate di vento si àncora nella macchina che
rappresenta il suo sepolcro e la sua culla. Poichè al mito dell'a vvenire si
riconnette quello della velocità che, se bene si considera la sua funzione, il
suo schema interno, è l' abolizione del passato nel già percorso, l'
impercettibilità del presente minimizzato nell' aspettazione continua dell'
avvenire. I lettori che vorranno approfondire questi tracciato per conto
loro ed in sede penetrativa, troveranno più di un sentiero facile alla
comprensione di qualche verità maggiore: c' interessa soltanto fissare con una
certa insistenza alcune alture critiche da cui lo svolgimento
prospettico è più netto e sicuro.
Si comprende che l' uomo antico e quello moderno sono assolutamente in contrasto
e come agli antipodi, in un senso letterale, legati ad uno stesso ceppo ma volti
a cieli differenti e variamente costellati, benchè il medesimo sole impassibile
li illumini in cià che per gli uni è giorno, per gli altri notte. Infatti per
gli Antichi il passato è tutto, per i Moderni nulla, anche quando essi si
illudono di cercarvi distrattamente soluzioni a temi di attualità, i cosiddetti
"moniti", gli "insegnamenti" - tutte fantasie sentimentali sfruttate con cinico
opportunismo a seconda della circostanze e proposte alla credulità degli ingenui
per le perpretrazioni più lacrimevoli. La retorica che mai ha trionfato quanto
in questa torbida e limacciosa Europa d' oggi, ricorre alle sinuosità più
belluine per captare l' assentimento delle plebi in ascolto e si serve del
passato come d' un dio adeguato a tutti i mali, lenimento universale, rincalzo
del presente, ma di un uso momentaneo, quasi per scongiurare il Vae soli!
In realtà l' uomo moderno è già trascorso nel passato, non lo vive più e non vi
attinge che polvere e rovina: lo si studia, lo si cataloga, lo si ignora. Più l'
indagine si fa minuta, più esso si inscheletrisce e ciascuno poi cerca di
galvanizzare a modo suo quelle ossa scomposte nel sonno della morte. In questo
modo i moderni si volgono verso il passato quando lo studiano, con la medesima
illusione cui obbediscono quando credono, per esempio, che la fotografia sia più
vicina alla realtà, mentre essa la denatura completamente fissandola nella sua
momentaneità di cosa già trascorsa. Ma, indipendentemente dallo studio, vediamo
se i moderni si servono del passato per la vita. Chi dice passato dice
tradizione, cioè riallacciamento intimo, dinamico, non adesione esterna, non
fiancheggiamento opportunistico, non semplicemente collocazione o posizione. In
altri termini, tra passato e presente dovrebbe esservi continuità,
immutevolezza o, per meglio dire, uno sviluppo ritmico così piano,
continuo, interno, da apparire quasi insensibile. L' antichità è infatti
caratterizzata da questa tonalità costante che da un' epoca all' altra si
mantiene quasi immutata; il mutamento che c' è e ci deve essere si compie in
profondità, negli strati interni, diremmo quasi invisibilmente, in modo da non
sconvolgere la costanza del ritmo.
Si è detto tanto che le civiltà antiche sono immobili o tali appaiono; ciò
costituisce appunto la loro grandezza, questa staticità basilare che affoga
tutti i contrasti, che immette tutti i ritmi nella vena centrale, nel tipo
tradizionale, il quale solo rimane nell' interezza della sua efficienza
determinante. Ecco perchè logicamente chi vuol rimanere nel puro ambito della
verità, che è quello tradizionale, si rifà sempre al passato per ripercorrere
gli anelli della certezza e integrarli nella sua esperienza che, a questo
riguardo, è riassuntiva e conclusiva, non ripetendo esternamente ma innestando
il suo ritmo che non è altro che il suo stesso viso ignorato e ora riassunto e
vivificato. E' molto difficile esprimere certe cose a coloro che vivono in
posizioni dualistiche, pensando che vi sia qualcosa d' altro all' infuori della
Verità, che è Dio eternamente presente: Verità, ove soltanto si diventa quel
che si è, cioè si oltrepassa la sfera delle limitazioni umane per vivere il
battito stesso dell' infinito.
Quando diciamo antico intendiamo tutto ciò che è valido, perenne,
tradizionalmente autentico nel passato dell' Oriente e dell' Occidente, remoto o
prossimo poco importa, dottrinale o sociale, purchè rifletta nelle varietà dell'
espressione la grande luce del Sopramondo. Oltre i Libri Sacri, vi sono i
simboli, vi è l' arte sacra, vi è, infine, ogni forma di quelle attività che,
nel passato, si riconnettevano sempre ad una verità d' ordine superiore, pur
nell' umile utensile e nella fabbricazione e destinazione degli oggetti d' uso
comune. Il passato, così come noi l' intendiamo e come lo debbono intendere
tutti coloro che che solo la verità di Dio cercano, è vita, è ritmo creatore, è
deposito inesauribile di saggezza che si ritrova tutte le volte che è
attualizzato da una nuova esperienza. Ma è soprattutto realtà di vita vibrante
perchè vivificata dal soffio perenne della linfa tradizionale. I moderni
considerano invece il passato come una reliquia, di cui lodano la vetustà e
intorno a cui si aggirano con una curiosità da fotografi e da archeologhi: chi
di essi lo accetta interamente, lo assume su tutta la sua ampiezza, non
per cogliervi dei frammenti ed esaltarli, ma per inserirlo nella sua esperienza
totalizzandolo creativamente?
Quanti sono gli ammiratori di Dante che non si limitano a magnificarne il verso
o l' espressione - cose assolutamente esteriori e superficiali - ma ne assumono
la dottrina, il sapere su tutti i piani dell' essere a cui si applica e nella
totalità del Viaggio Celeste?
Il passato non è nulla se non è integrato, vissuto, convalidato dalla propria
esperienza, dalla propria vita, integrato e risollevato nel grande fremito dell'
attualità eterna. I moderni invece, quando non vi fòrnicano da ladroni come in
ina necropoli, gli volgono le spalle contemplando l' ipotetico "sole dell'
avvenire", che non splenderà mai perchè il futuro non esiste se non come termine
inefficace di laboriosa fantasia, miraggio e nulla più, proiezione fallace
colorata dallo spasismo della propria insufficienza. L' incompiutezza di fronte
alla Verità, il sentimentalismo incurabile di chi né sa né può portare con sé il
peso del mondo assumendolo nell' istante divino, hanno creato il mito dell'
avvenire. Con le spalle ostinatamente volte a ciò che è, si attende curiosamente
ciò che non è, ciò che sarà, e si aspetta la convalida di un sogno da un
riflesso illusorio del sogno stesso in una marcia notturna di fantasmi che il
presente solo genera nella spontaneità del suo flusso e del suo miraggio. Strana
speculazione sull' avvenire, che fa dimenticare i tesori del passato e l'
immediatezza tangibile del presente, in cui solo si è realmente, con tutti i
mondi, nell' unità essenziale del punto, gemma di tutte le gemme, occhio eterno
di Dio.
E altro vorremmo dire, ma preferiamo interrompere con queste parole di
Zarathustra: " Diesen Menschen von heute will ich nicht Licht sein, nicht
Licht heissen. Die - will ich blenden: Blitz meiner Weisheit! stich ihnen die
Augen aus! - "Per questi uomini d' oggi io non voglio essere nè luce
chiamarmi. Accecare io li voglio: o fulmine della mia saggezza! saetta loro gli
occhi!".
Da:
http://members.xoom.virgilio.it/_XOOM/alchemica/attimoeterno.html
TORNA SU