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Ananda K. Coomaraswamy, La danza di Shiva. Arte e civiltà dell'India Luni, Milano, 1997, pp. 172, L. 30.000 di Giovanni Monastra
L'India come luogo in cui è
custodito un tesoro di sapienza rappresenta un elemento ricorrente nella storia
dell'uomo: dall'antichità ai nostri giorni recarsi in quel paese o attingere
alla sua cultura spirituale ha costituito un momento fondamentale di ogni
processo di rigenerazione, individuale o collettivo. Si narra che vi si recò
Pitagora per essere iniziato ai misteri di quel paese, di certo
vi andò Apollonio di Tiana e ancora altri, dediti a quello che
potrebbe essere definito un pellegrinaggio dello spirito. Giungiamo così fino alle
infatuazioni di Schopenauer per le Upanishad e a
quelle degli hippies per le dottrine della non-violenza che si credeva fossero
patrimonio generale ed esclusivo dell'India. Verità e menzogna sul reale volto
"spirituale" (e materiale) di quel paese si sono, di fatto, intrecciate nel
tempo: nelle epoche recenti, dopo le denigrazioni colonialiste, spesso ci è
stata presentata da certi neofiti europei un'India idilliaca, pacifica,
accogliente, addormentata in un vago spiritualismo, tanto diversa da quella
concreta, con la sua vita dura, a volte spietata, con le sue gerarchie basate
sulle caste, con la sua spiritualità severa, totale, coinvolgente ogni aspetto
dell'esistenza. Di Coomaraswamy le edizioni
Luni, molto opportunamente, hanno tradotto per la prima volta nella nostra
lingua il pregevole La danza di Shiva (in realtà alcune parti erano
state pubblicate anni addietro su riviste italiane di orientamento
"tradizionale"), apparso in prima edizione nel 1918 e contenente una quindicina
di capitoli, in alcuni casi costituiti da saggi già stampati in precedenza su
periodici dell'area anglofona. Il libro ha un duplice valore:
sul piano della storia delle idee, con riferimento, appunto, all'immagine
dell'India quale è stata trasmessa in passato agli occidentali, e in sè
come documento tuttora valido per comprendere alcuni aspetti della cultura e
della società indù. L'autore era perfettamente cosciente delle mistificazioni
avvenute tanto che scrive: "il pensiero indiano è stato divulgato e travisato in
molte forme vaghe, misteriose ed effeminate e, in tal modo, gettato in
discredito". Coomaraswamy cercò sempre di
combattere questo processo di annientamento spirituale, di genocidio interiore,
difendendo già dagli anni giovanili, e fino agli ultimi giorni della sua vita,
l'essenza dell'India, senza esclusivismi e con grande e ferma serenità. Per lui
questo tipo di indiani anglizzati era "una sorta di pariah
intellettuale che non appartiene né all'Oriente né all'Occidente, né al passato
né al futuro. Il più grave pericolo per l'India è la perdita della propria
integrità spirituale". Certo alcuni aspetti del
Coomaraswamy "prima maniera", antecedente alla aperta accettazione dell'idea di
Tradizione, mediata dalla conoscenza degli scritti di Guénon e
Pallis, potevano lasciare delle ambiguità, consentendo di
inserire il suo discorso nel filone di pensiero umanistico e internazionalista.
Ci riferiamo, in primo luogo, alla sua, per altro vaga, cornice di riferimento
filosofico, il cosiddetto "individualismo idealistico", influenzato anche da
alcuni aspetti di Nietzsche, autore a cui dedica un capitolo. Inoltre facciamo
riferimento ad atteggiamenti di carattere utopistico, quali l'enfatizzazione
della "civiltà mondiale", l'illusione di potere creare una "aristocrazia della
terra che unisca la virilità della gioventù europea alla serenità della
vecchiaia asiatica", l'aspirazione a "nuovi valori" in una prospettiva talora
venata di ingenuo sincretismo, la fiducia nel progresso inteso in senso
ottocentesco. Ma, nonostante ciò, il centro del discorso sviluppato dallo scrittore angloindiano non è riducibile all'orizzonte di Rolland: tramite Coomaraswamy parlava con forza lo spirito dell'India eterna, di cui egli era cosciente ancora solo in parte. Questo spirito invade l'animo e la mente del lettore come una possente marea, anche se, a causa dei limiti giovanili dell'autore, trascina con sè alcuni detriti del tutto eterogenei, relitti di un mondo quasi già morto prima di nascere. Anche il fraintendimento fra curatore dell'introduzione e autore del testo rappresenta un elemento significativo nel tormentato processo di "comprensione" tra Europa e India. Può essere interessante
ricordare, secondo quanto scrive Lina Unali (cfr. Stella d'India, ed.
Mediterranee), che un personaggio famoso come D. H. Lawrence fu
influenzato dalla lettura de La danza di Shiva, che contribuì ad
accrescere le sue conoscenze della sapienza indù. Più di recente, negli Anni
Settanta, il fisico Fritjof Capra, ha riconosciuto (vedi quanto
scrive ne Il Tao della Fisica, ed. Adelphi) di essere in debito verso
il libro di Coomaraswamy: in esso aveva trovato la profonda intuizione del cosmo
come grande danza, come struttura pregna di energia, dinamica e palpitante in
ogni sua parte, ricca di interazioni orizzontali e verticali, opposta alla
concezione positivista della "macchina" costituita da parti materiali, statiche.
Ma -va detto per correttezza- era stato proprio René Rolland, nella
introduzione, ad aver posto, fra i primi, un parallelismo tra la nuova fisica
postnewtoniana e la cosmologia shivaita di cui la danza del dio costituisce una
delle più affascinanti metafore. In conclusione focalizziamo la
nostra attenzione su alcuni passi del testo, laddove l'autore chiarisce quale
sia il ruolo dell'India e della sua cultura specifica, definita
Indianità, in un'epoca come la nostra. "Il cuore e l'essenza
dell'esperienza indiana vanno ritrovati nella costante intuizione dell'unità di
tutta la vita e nella convinzione istintiva e inestirpabile che il
riconoscimento di questa unità sia il bene più alto e la suprema libertà. Tutto
ciò che l'India è in grado di offrire al mondo ha origine dalla sua filosofia",
più avanti definita "religione dell'eternità", la quale -egli continua - è nota
anche ad altri popoli, ma solo in India è divenuta "il fondamento essenziale
della sociologia e dell'educazione". Il suo ideale è un "socialismo corporativo in una società non competitiva", dove ciascuno non deve superare gli altri, ma se stesso, verso l'Alto. Alla prevaricazione realizzata sul piano materiale Coomaraswamy oppone un obiettivo di vita completamente diverso, opposto, in cui diviene centrale la realizzazione di Sé. Come strumento ottimale per realizzare tutto ciò sul piano sociale egli vede il regime delle caste, basato sull'eredità e la "vocazione", sia pure con alcuni aggiustamenti dovuti all'epoca in cui viviamo. Forse il lettore potrà riscontrare una certa idealizzazione di questo istituto sociale, per altro demonizzato oltre misura in Occidente, dove vengono presi in considerazione solo gli aspetti più degenerescenti: infatti le caste, secondo l'autore, sarebbero strutture autogestite e "democratiche" al loro interno, il che può apparire ad alcuni discutibile, ma rimane il fatto che l'esperienza concreta in India, agli inizi del secolo, e i riferimenti di carattere dottrinario in campo sociale, propri a Coomaraswamy, dovrebbero indurre certi fanatici assertori della "libertà" moderna a un ripensamento globale in questo campo, anche in considerazione degli approfonditi studi di Louis Dumont. Analoga schiettezza, certo
assai indigesta per alcuni, troviamo nel discutere la posizione e il ruolo dell'altra
metà del cielo nella società, laddove l'autore ricorda l'annullamento
dell'identità della donna operato da certo femminismo
egualitario, il cui modello di riferimento è stato sempre quello maschile,
dimostrando con questo un forte senso di inferiorità rispetto all'uomo. Anche in
questo caso egli antepone come importanza la piena realizzazione interiore, cioè
della propria vera natura, rispetto alla vuota affermazione sociale. Coomaraswamy, anche negli anni giovanili, sosteneva la naturale ineguaglianza tra gli esseri umani e negava, di conseguenza, ogni egualitarismo massificante così come ogni tirannia di una "maggioranza" amorfa e volubile, composta da "sradicati", indifferente rispetto alla sfera della religiosità -situazione tipica delle società moderne, ben diverse da quelle "unanimi" in cui sia i singoli sia le comunità erano permeati dal senso del sacro.
Da: http://www.estovest.net/letture/akcshiva.html
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