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Purusha o Atma, manifestandosi come jivatma nella forma vivente dell’essere individuale, secondo il Vedanta, si riveste con una serie d’«involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, che rappresentano altrettante fasi della sua manifestazione; sarebbe però completamente erroneo assimilare a «corpi» questi involucri, perché l’ultima fase soltanto è d’ordine corporeo. Del resto, non si può rigorosamente affermare che Atma sia in realtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua propria natura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né può essere condizionato da qualche stato di manifestazione [Nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 8° Anuvaka, shruti 1, e 3° Valli, 10° Anuvaka, shruti 5, le designazioni dei diversi involucri sono direttamente riferite al «Sé», secondo lo si consideri in rapporto a tale o talaltro stato di manifestazione]. Il primo involucro (anandamaya‑kosha, la particella maya significa «che è fatto di» o «che consiste in» ciò che specifica il vocabolo al quale è unita) è l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione che Atma comporta in sé, nella sua «permanente attualità», allo stato principiale ed indifferenziato. Si dice «fatto di Beatitudine» (Ananda), poiché il «Sé», in questo stato primordiale, gode della pienezza del suo proprio essere, e non è affatto veramente distinto dal «Sé»; esso è superiore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, ed è al grado dell’Essere puro: perciò è ritenuto come caratteristica d’Ishwara [Mentre le altre designazioni (quelle dei quattro involucri seguenti) possono essere considerate come caratterizzanti jivatma, quella d’anandamaya conviene, non solamente ad Ishwara, ma, per trasposizione, anche a Paramatma od al Supremo Brahma; perciò è detto nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 5° Anuvaka, shruti 1: «L’altro Sé interiore (anyo’ntara Atma), che consiste in Beatitudine (anandamaya), è differente da quello che consiste in conoscenza distintiva (vijnanamaya)». ‑ Cfr. Brahma‑Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 12 a 19]. Siamo qui dunque nell’ordine informale; è solamente quando lo si considera in rapporto alla manifestazione formale, ed in quanto il principio di questa vi si trova contenuto, che si può dire che è la forma principiale o causale (karana‑sharira), ciò per cui la forma sarà manifestata ed attualizzata agli stadi seguenti. Il secondo involucro (vijnanamaya‑kosha) è formato dalla Luce (nel senso intelligibile), direttamente riflessa, della Conoscenza integrale ed universale (jnana, la particella vi implicando il modo distintivo) [La parola sanscrita jnana è identica al greco GnwsiV per la radice, che, d’altronde, è anche quella del vocabolo «conoscenza» (da co‑gnoscere), e che esprime un’idea di «produzione» o di «generazione», poiché l’esame «diviene» ciò che conosce e si realizza appunto per questa conoscenza]; esso è altresì composto delle cinque «essenze elementari» (tanmatra), «concepibili», ma non «percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nella congiunzione dell’intelletto superiore (Buddhi) alle facoltà principiali di percezione che procedono rispettivamente dai cinque tanmatra, ed il cui sviluppo esteriore costituirà i cinque sensi nell’individualità corporea [Il vocabolo sharira s’applica propriamente a partire da questo secondo involucro, soprattutto se si dà a questa parola, interpretata per i metodi del Nirukta, il senso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi (o d’ahankara, che direttamente ne deriva e che è il primo principio d’ordine individuale) e dai cinque tanmatra (Manava‑Dharma‑Shastra, 1° Adhyiya, shloka 17)]. Il terzo involucro (manomaya‑kosha), nel quale il senso interno (manas) è unito con il precedente involucro, implica specialmente la coscienza mentale [Con questa espressione vogliamo intendere qualche cosa di più, quanto determinazione, della coscienza individuale pura e semplice: si potrebbe dire che è la risultante dell’unione del manas con ahankara] o facoltà pensante, che, come precedentemente abbiamo detto, è d’ordine esclusivamente individuale e formale, ed il cui sviluppo procede dall’irradiazione in modo riflesso dell’intelletto superiore in uno stato individuale determinato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro (pranamaya‑kosha) comprende le facoltà che procedono dal «soffio vitale» (prana), cioè i cinque vayu (modalità di questo prana), nonché le facoltà d’azione e di sensazione (queste ultime già esistevano principialmente nei due precedenti involucri, come facoltà puramente «concettive», quando, d’altra parte, non poteva essere affatto questione di alcuna specie d’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme di questi tre involucri (vijnanamaya, manomaya e pranamaya) costituisce la forma sottile (sukshma‑sharira o linga‑sharira), in opposizione a quella grossolana o corporea (sthula‑sharira); ritroviamo qui dunque la distinzione dei due modi di manifestazione formale, di cui già più volte abbiamo parlato. Le cinque funzioni od azioni vitali sono chiamate vayu, quantunque non siano propriamente l’aria od il vento (che è il senso generale della parola vayu o vata, dalla radice verbale va, andare, muoversi, che abitualmente designa l’elemento aria, di cui la mobilità è una proprietà caratteristica) [Ci riferiremo, a questo proposito, a quello che abbiamo detto in una precedente nota in merito alle differenti applicazioni della parola ebraica Ruahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscrito Vayu], tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quello corporeo; ma, come dicemmo, esse sono modalità del «soffio vitale» (prana, o più generalmente ana) [La radice an si ritrova, con lo stesso senso, nel greco anemoV «soffio» o «vento», e nel latino anima, il cui senso proprio e primitivo è esattamente quello di «soffio vitale»], rilevato principalmente in rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1° l’aspirazione, vale a dire la respirazione ascendente nella sua fase iniziale (prana, nel senso più stretto della parola), che attira gli elementi non ancora individualizzati dell’ambiente cosmico, per farli partecipare, per assimilazione, alla coscienza individuale; 2° l’ispirazione discendente in una fase successiva (apana), per la quale questi elementi penetrano nell’individualità; 3° una fase intermediaria fra le due precedenti (vyana), che, da una parte, consiste nell’insieme delle azioni e reazioni reciproche, prodotte dal contatto fra l’individuo e gli elementi ambienti, e, d’altra parte, nei diversi movimenti vitali che ne risultano, la cui corrispondenza nell’organismo corporeo è la circolazione sanguigna; 4° la espirazione (udana), che proietta il soffio, e lo trasforma, di là dai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle sole modalità che sono comunemente sviluppate per tutti gli uomini), nel campo delle possibilità dell’individualità estesa, considerata nella sua integralità [La parola «espirare» significa contemporaneamente «ricacciare il soffio» (nella respirazione) e «morire» (quanto alla parte corporea dell’individualità umana); questi due sensi sono entrambi in rapporto con l’udana di cui si tratta]; 5° la digestione, o l’assimilazione sostanziale intima (samana), per la quale gli elementi assorbiti divengono parte integrante dell’individualità [Brahma‑Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 8 a 13. ‑ Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 19° a 23° Khanda; Maitri Upanishad 2° Prapathaka, shruti 6]. È nettamente specificato che non si tratta d’una semplice operazione d’uno o più organi corporei; ciò infatti non dev’essere considerato solamente per le funzioni fisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche per l’assimilazione vitale nel suo più vasto senso. La forma corporea o grossolana (sthula‑sharira) è il quinto ed ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo stato umano, al modo di manifestazione più esteriore; è l’involucro alimentare (annamaya‑kosha), composto dei cinque elementi sensibili (bhuta), a cominciare dai quali sono costituiti tutti i corpi. Esso si assimila gli elementi composti che ha ricevuto dal cibo (anna, parola derivata dalla radice verbale ad, mangiare) [Questa radice è quella del latino edere, ed anche, quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e del tedesco essen], secernendo le parti più fini, che stanno nella circolazione organica, ed escretando o rigettando le più grossolane, tranne tuttavia quelle deposte nelle ossa. Come risultato di questa assimilazione, le sostanze terree diventano la carne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midollo ed il sistema nervoso (materia fosforica); poiché vi sono sostanze corporee nelle quali la natura di taluno o talaltro elemento predomina, quantunque tutte siano formate dall’unione dei cinque elementi [Brahma‑Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 21. ‑ Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 5° Khanda, shruti 1 a 3]. Qualunque essere organizzato, che sta in una siffatta forma corporea, possiede, ad un grado di sviluppo più o meno completo, le undici facoltà individuali di cui abbiamo precedentemente parlato; come già ugualmente l’abbiamo detto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’essere dagli undici organi corrispondenti (avayava, designazione che è del resto riferita anche allo stato sottile, ma soltanto per analogia con quello grossolano). Per Shankaracarya [Commento sui Brahma‑Sutra, 3° Adhyaya, 1° Pada, sutra 10 e 21. ‑ Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 3° Khanda, shruti 1; Aitareya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3. Quest’ultimo testo, oltre le tre classi d’esseri viventi enumerate negli altri, ne menziona una quarta: gli esseri nati dal calore umido (swedaja); ma questa classe può essere riferita a quella dei germinipari], si distinguono tre classi d’esseri organizzati, secondo il loro modo di riproduzione: 1° i vivipari (jivaja o yonija, od ancora jarayuja), cioè l’uomo ed i mammiferi; 2° gli ovipari (andaia), cioè gli uccelli, i rettili, i pesci, gl’insetti; 3° i germinipari (udbhijja), che comprendono contemporaneamente gli animali inferiori ed i vegetali, i primi, mobili, che nascono principalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi, nascono abitualmente dalla terra; tuttavia, secondo certi passi dei Veda, il cibo (anna), cioè il vegetale (oshadhi), procede anche dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che fertilizza la terra [Specialmente vedi Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 2: «i vegetali sono l’essenza (rasa) dell’acqua»; 3° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7° Prapathaka, 4° Kanda, shruti 2: anna proviene o procede da varsha. ‑ La parola rasa letteralmente significa «linfa», e, come già dicemmo, significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, in francese ugualmente, le parole sève, «linfa», e saveur, «sapore», hanno una stessa radice (sap), che è nello stesso tempo quella di savoir, «sapere», per l’analogia che esiste fra l’assimilazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitiva nell’ordine intellettuale e mentale. ‑ È d’uopo significare che la parola anna designa qualche volta l’elemento terra, l’ultimo nell’ordine dello sviluppo, e che deriva anche dall’elemento acqua, che immediatamente lo precede (Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 2° Khanda, shruti 4)].
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