Ananda K.
Coomaraswamy, Buddha e la dottrina del buddhismo
Luni, Milano, 1994, pp. 370, L.
38.000
di Giovanni Monastra
Questo testo appartiene a una
particolare fase della vita di Ananda K. Coomaraswamy (fu scritto nel 1916),
quando l'Autore cercava di delineare, ancora in modo incerto, una visione del
mondo in cui riconoscersi, procedendo tra posizioni filosofiche talora
contrastanti (Nietzsche, i Trascendentalisti americani, W. Morris, la Teosofia,
ecc.). L'abbandono del pensiero "moderno" e la sua adesione all'idea di
Tradizione sarebbero giunti dopo diversi anni, anche per la profonda influenza
che operò su di lui il pensiero di Renè Guénon. Al buddhismo Coomaraswamy, che
era indù, riservò sempre notevole attenzione, come testimoniato da questo denso
libro e da altri successivi, dedicati allo stesso argomento.
Chi conosce solo il Coomaraswamy "tradizionalista" noterà qui in alcuni casi un
approccio "profano" al tema metafisico trattato, in parziale sintonia con quanto
si potrebbe leggere in un buon testo "moderno" dedicato al buddismo. Siffatta
ambiguità, ondeggiante tra una confusa percezione dell'esistenza di una sapienza
universale, trascendente, e la tendenza a ridurre talvolta i fenomeni dello
spirito a fatti individuali, frutto di una speculazione "filosofica", porta
inevitabilmente lettori con sensibilità opposte a giudizi contrastanti, che
privilegiano certi aspetti del pensiero dell'Autore a discapito di altri.
Introducendo criticamente l'ultima edizione americana, Arnold Kunst, che sembra
aderire ad una visione moderatamente evoluzionista e storicista dei fenomeni
religiosi, avanza riserve meritevoli di un breve commento. Vi accenniamo anche
perché in alcuni casi identificano dei reali punti di debolezza presenti nello
studio di Coomaraswamy. Kunst ritiene di dover mettere in guardia il lettore dal
particolare approccio dell'Autore, in primo luogo osservando che egli non è mai
distaccato, ma si dimostra coinvolto, al pari di un "teologo" quando parla di
religione: "Il modo di trattare l'argomento da parte di Coomaraswamy, non
appesantito da dettagli tecnici e basato su una ricerca intuitiva rivolta al
nocciolo dei problemi, consiste in una umanistica e ampia interpretazione
sub specie aeternitatis, in lui caratteristica, piuttosto che in una
visione critica, da storico". Il suo difetto principale sarebbe dunque la
astoricità: ad esempio laddove compara il buddismo con altre espressioni
metafisiche manifestatesi in India, in epoche differenti, come il Vedanta, lo
Yoga o il Samkhya. E per suffragare tutto ciò riporta alcuni giudizi, espressi
nel 1916 in una velenosa recensione dedicata a questo libro da T. W. Rhys Davids,
una studiosa del buddismo vissuta tra la fine dell'ottocento e i primi decenni
del novecento, la cui presunta attendibilità andrebbe valutata non dimenticando
la sua adesione alle mistificanti concezioni teosofiche.
Tale approccio del primo Coomaraswamy, in potenza metastorico, presente
in modo un po' confuso e spesso appannato, che Kunst indica come un limite
dell'Autore, ci sembra invece uno degli aspetti più rilevanti del testo. Semmai
ci si può dolere per la discontinuità con cui viene messo in pratica lungo tutto
lo studio.
Più convincenti si dimostrano altre due critiche avanzate da Kunst. La prima è
di ordine terminologico: appare infatti un po' improprio parlare della
ottuplice Via degli Ariya, delle Quattro Verità degli Ariya, ecc.:
sarebbe stato meglio tradurre "Ariya" (Ariyan nel testo inglese) come
"uomini nobili" (questo è il vero significato), per evitare equivoche
identificazioni tra il Buddhismo e una particolare stirpe. La seconda critica,
dottrinaria, assai più rilevante, stigmatizza il frequente parallelismo posto
dall'Autore tra il Bodhisatta, ossia colui che pratica l'ascesi per conseguire
l'illuminazione, dedicandosi anche alla salvezza degli altri, e l'individuo
superiore nicciano ("L'ideale del Bodhisatta è praticamente identico a
quello del Superuomo di Nietzsche", p. 181). Infatti la dimensione
individualistica e vitalissima della filosofia di Nietzsche si situa agli
antipodi del rigore ascetico, dell'antisoggettivismo e del disinteresse per il
mondo profano propri al Buddismo. Anche quando il filosofo tedesco riconosce
l'utilità dell'ascesi lo fa al fine di fortificare l'uomo per la lotta nel
mondo, per conquistare la supremazia sugli altri uomini, nel più assoluto
immanentismo. Se si possono presentare similitudini, esse sono puramente
formali, apparenti, dati i contesti del tutto opposti in cui appaiono.
Queste ultime due riserve forse sarebbe stato opportuno riportarle anche nella
introduzione alla edizione italiana.
L'ottima traduttrice, Giuditta Sassi, nella sua presentazione, ha invece
preferito soffermarsi in prevalenza sugli aspetti positivi del libro, lasciando
al lettore la possibilità di rilevare autonomamente alcune cadute di tono.
Infatti evidenzia lo sforzo di Coomaraswamy nell'affrontare la storia e la
dottrina del Buddhismo "dal di dentro", tanto che questo libro va considerato
come "il primo tentativo fatto nel mondo occidentale di accostare una dottrina
orientale secondo il suo spirito". Poi accenna di sfuggita alla rettificazione
di alcune posizioni sull'argomento che Coomaraswamy apporterà in seguito,
influenzato dal pensiero di Guénon.
Certo, come sottolinea la Sassi, grande merito dell'Autore fu quello di aver
sfatato l'erronea convinzione che il Buddhismo sia pessimistico o che esso abbia
costituito una rottura radicale con l'Induismo, "tradizione dalla quale il primo
ha in fondo tratto le sue origini". Proprio a tale proposito, in studi
successivi Coomaraswamy avrebbe dimostrato ancora meglio il rapporto
complementare, e non conflittuale, tra Buddhismo e Brahmanesimo.
Ricordiamo, ad esempio, quanto scrive in Induismo e Buddhismo (ed.
Rusconi) osservando che l'Induismo definisce ciò che siamo, mentre il Buddha ha
indirizzato la sua attenzione nell'identificare ciò che non siamo: due
diversi approcci per lo stesso fine, la Liberazione da tutti i vincoli.
Infatti "ciò che veramente siamo può definirsi soltanto per mezzo di quello che
non siamo" (Induismo e Buddhismo, p.139). Ancora nello stesso testo
Coomaraswamy sottolinea che gli dei indù "Agni e Indra... sono il sacerdote e il
re in divinis: sono proprio queste due possibilità che realizzerà il
Buddha" (p.168). In un altro studio (Elements of Buddhist Iconography,
ed. Munshiram Manoharlal) Coomaraswamy, studia l'arte aniconica del primo
Buddhismo, identificante il Buddha con tre simboli ben noti da tempo in India,
l'Albero della Vita, il Loto e la Ruota del Mondo, e
quella successiva, dove venne introdotta la figura umana. Tramite questa analisi
comparata dei simboli arriva alle seguenti conclusioni: "Buddha, presentato in
sembianze umane, esprime la stessa natura del vedico Agni" non a caso, dato che
"il simbolismo buddhista, lontano dall'essere un linguaggio isolato, è parte di
una grande tradizione che si è mantenuta dal periodo Vedico e pre-Vedico fino ai
nostri tempi" (p. 59). Sullo stesso piano delle analogie si situa anche un altro
suo volumetto successivo, molto sintetico, La vita e l'opera di Sakyamuni
Buddha (ed. Il Cerchio).
Nel 1916 Coomaraswamy scrisse Buddha e la dottrina del Buddhismo avendo
presente quattro obiettivi: esporre i fondamenti dottrinali del
Buddhismo in modo semplice, correlarli con il Bramanesimo e la mistica
cristiana, illustrare il ruolo del Buddhismo nello sviluppo della
cultura asiatica, far intravedere la sua importanza per il pensiero
filosofico moderno. Si può dire che, al di là delle riserve già esposte, egli
abbia pienamente raggiunto gli scopi prefissi. Il tentativo di combattere le
convinzioni errate degli occidentali sul soggetto trattato parte dal presupposto
che "qualsiasi male è, in ultima istanza, riconducibile all'ignoranza".
Il suo sforzo era anche volto a fornire all'Occidente, in crisi per "aver
fallito nel suo tentativo di cogliere il frutto della vita attraverso una
società fondata sulla concorrenza e sull'autoaffermazione", un'ancora di
salvezza, costituita dal "pensiero asiatico", proprio a "una società fondata su
concezioni di ordine morale e di responsabilità reciproca", lontana da
risentimento, cupidigia e ottusità. Già queste parole rivelano i limiti del
primo Coomaraswamy, un po' idilliaco e ancora molto limitato da un orizzonte di
valori morali, in definitiva umanistici, privo di una chiara percezione
della dimensione metafisica, trascendente, più intuita a lampi che compresa
nella sua essenza.
L'Autore entra nell'argomento specifico del libro riportando le notizie storiche
che si hanno su Siddhattha Gautama (563-483 a.C.), figlio di un ricco vassallo e
possidente terriero, divenuto monaco errante asceta, fondatore, appunto, del
Buddhismo (Buddha significa Risvegliato). Poi passa ad esaminare il
mito coagulatosi attorno a questa figura prestigiosa, mito ricco di simbolismi
profondi, legati ai vari episodi di una "vita" paradigmatica. Veniamo così a
conoscere il giudizio del Buddha sui molteplici aspetti della "esistenza" (più
in generale, il "divenire", il samsara), dai cui vincoli egli insegnò a
liberarsi definitivamente tramite una Via rigorosa, lontana da ogni
sentimentalismo. La sua dottrina si basa su alcuni capisaldi: esiste la
sofferenza, che ha una causa nell'impermanenza di tutte le cose, sofferenza che
può essere soppressa attraverso una specifica disciplina, l'ascesi, la quale,
però, non deve mai divenire mortificazione, puritanesimo, ossessione.
Viene poi esposta la dottrina del karma, la concatenazione causale
derivante dalle proprie azioni, positive o negative, i cui effetti portano alla
Liberazione o a rimanere schiavi del mondo profano. Ancora, Coomaraswamy
definisce il Nirvana (o Nibbana) riecheggiando la teologia negativa: e qui il
lettore troverebbe interessanti raffronti rileggendo lo pseudo-Dionigi, Maestro
Eckhardt, Duns Scoto o i testi metafisici indù quando parlano del Brama
nirguna, il Supremo Principio libero da condizionamenti e definizioni, cioè
non qualificato.
Parlando della Baghavad Gita, un notissimo libro sacro dell'Induismo,
Coomaraswamy cade in errore, affermando che in questo testo viene attestata la
trasmigrazione delle anime individuali, dottrina da lui definita "animismo". In
particolare desta sorpresa leggere più avanti che dall'ingenuo animismo vedico,
teso alla conquista dei beni terreni, il pensiero indù si sarebbe "evoluto"
verso l' "idealismo" delle Upanishad e del Buddhismo: un progresso dal
materialismo primitivo alla spiritualità di menti filosofiche mature! Sulla
stessa linea problematica, ci sembra strano che l'Autore, dopo aver giustamente
osservato che il Buddhismo vuole superare la prigione dell'Io, per cui non ha
senso parlare di egoismo, altruismo o moralismo in questa dottrina, definisca il
Buddhismo quale "sistema pratico, psicologico ed etico, piuttosto che filosofico
e religioso" (p. 137), possessore di una "etica puramente individualistica" (p.
183), o qualifichi il Buddha come "razionalista" (p. 209). Nulla del genere dirà
mai il Coomaraswamy "tradizionale".
Pagine assai chiare vengono dedicate alla visione della società secondo Buddha,
che fu un conservatore, non un riformista o un sovversivo nemico per principio
del sistema delle caste, sistema difeso da Coomaraswamy. La tolleranza religiosa
buddhista viene esemplificata riferendosi al periodo dell'imperatore
Asoka, uno dei più grandi sovrani dell'India, fervente buddhista. Egli affermava
che "Chi onora la propria tradizione e disprezza le tradizioni degli altri,
unicamente per attaccamento alla sua, e con l'intento di elevare lo splendore
della sua propria tradizione, in realtà con una simile condotta infligge il
peggior danno proprio alla sua" (p. 158): utile e attuale richiamo per tutti gli
integralisti.
Pienamente condivisibili sono anche le osservazioni critiche contro certi
puristi astratti che aspirano a "tornare alle origini" di una dottrina
metafisica o religiosa (alcuni buddhisti e indù sono caduti in tale errore),
rifiutando così gli sviluppi tradizionali successivi.
Solo di sfuggita, in conclusione, accenniamo ai confronti con altre dottrine
sapienziali sorte in India o in altri paesi, Occidente compreso, confronti
spesso ricchi di acute osservazioni. Una cospicua parte del libro viene dedicata
anche agli sviluppi del Buddhismo nelle sue varie forme tradizionali, come il
Mahayana o lo Zen, e alle arti buddhiste, con vari riferimenti alla cultura
dell'Asia.
Nel complesso questo affascinante libro offre al lettore un affresco complessivo
raffigurante un insieme di dottrine che Coomaraswamy, già nei suoi anni
giovanili, riconosceva essere in sé, "né orientali né occidentali", ma
"universali".
Da:
http://www.estovest.net/letture/coomarbuddha.html
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