Per accostarci al Tutto possiamo cercare di: a) tracciare una precisa descrizione di esso, così come ci appare, b) andare oltre le apparenze per giungere al nocciolo del problema, e c) continuare a seguire attentamente proprio la manifestazione dell’intero; queste tre modalità corrispondono, rispettivamente, al metodo fenomenologico, metafisico e sofianico.
1) L’approccio socio-storico
L’Uomo non è esclusivamente un essere storico, ma certamente siamo esseri temporali, sia nell’accezione occidentale, che in un senso più buddhista della transitorietà dei momenti insostanziali, così come in una concezione più karmica dell’esistenza e in quella della partecipazione cosmica a un destino sovrumano, ecc. Il passato affiora nel nostro presente, il tempo non è soltanto un fattore esterno dell’esistenza umana e la memoria è più della mera reminiscenza, non necessariamente in senso platonico. L’esperienza umana del tempo è straordinariamente ricca e complessa.
Oggi il metodo storico è necessario per comprendere noi stessi. Noi tutti ci muoviamo in un contesto storico. Non possiamo affrontare la nostra problematica in vacuo e da soli. La nostra visione dell’universo è stata condizionata dalla storia, da ciò che altri hanno fatto e pensato prima di noi. Il metodo storico, tuttavia, non è sufficiente per l’impresa che intendiamo compiere. Non possiamo accontentarci di riferire le idee o gli atti altrui. Il nostro essere in un mondo che non abbiamo fatto noi e nel quale siamo immersi è, comunque, il nostro essere nel mondo. Inoltre, non potremmo neppure comprendere la storia dei nostri predecessori e contemporanei se, in un modo o nell’altro, le loro narrazioni non stessero sotto il nostro essere e non trovassero una risonanza in noi. La storia ha senso soltanto se siamo in grado di riscoprire e reinterpretare qual è stata l’esperienza umana di chi ci ha preceduti. Il Tutto è, olisticamente, diffuso nell’intero quadro dell’universo. Il tentativo olistico dovrebbe superare il tempo e lo spazio. È possibile? O dovremmo forse ridurre il Tutto alla nostra totalità individuale?
Limitandoci alla storia, l’approccio storico tenta di riattualizzare il passato nel presente al fine di trarne insegnamento. La nostra natura storica lo rende possibile. Incidentalmente ho fatto riferimento al mito della storia, ma ciò non equivale a dire che la storia sia irreale. Al contrario, il nostro passato storico va ricordato, commemorato e riattualizzato. Il mondo in cui viviamo è stato plasmato dalla storia. La realtà, pur non essendo soltanto una realtà storica, è, in effetti, anche storica. Siamo anche esseri storici, sebbene non esclusivamente. Come ho già detto, l’approccio olistico, pur non essendo il risultato della somma delle sue parti, non può ignorare l’esistenza del passato.
In breve, la sociologia e la storia sono discipline importanti che ci aiutano ad acquisire una visione generale di ambiti importanti del mondo umano, ma esse non pretendono di esaurire l’intera esperienza umana e, tanto meno, l’intera realtà.
2) L’approccio filosofico
Perché il vento soffia come soffia? Il filosofo non registra direttamente il polso delle opinioni della gente allo stesso modo in cui lo fanno i sondaggisti. Domandare ciò che «si» dice del karman, della democrazia, della Trinità e così via, pur essendo importante, non equivale a condurre un’indagine filosofica. Il filosofo, inoltre, non si limita semplicemente a trarre deduzioni. Né l’induzione né la deduzione costituiscono il metodo filosofico primario. La filosofia richiede riflessione, meditazione e ragionamento, ma non la conoscenza specialistica di tutti i dettagli e di tutte le opinioni dei nostri predecessori.
«Lo studio della filosofia non consiste nel conoscere le opinioni della gente, bensì nel conoscere lo stato della verità delle cose», affermava audacemente Tommaso d’Aquino[1]. La «verità delle cose» è il Tutto. Tuttavia questa «verità delle cose» non è indipendente dalla conoscenza delle cose (sciatur) e questa conoscenza è una conoscenza umana, sebbene possa avere una fonte superiore. Da un lato, i filosofi sono destinati a essere dei solitari. L’attività del pensiero richiede solitudine, distacco, distanza e persino una certa ritrosia nei confronti degli altri. Non si può pensare realmente se non si mantiene la propria distanza, se non si lasciano da parte tutti i conformismi e non si supera l’inerzia della mente. I filosofi devono essere degli asceti, nel senso migliore del termine, ovviamente. Devono lottare con la realtà così come Giacobbe lottò con l’angelo o Ulisse con il destino. L’attività del pensiero forgia la realtà allo stesso modo in cui il fabbro forgia il ferro. Il pensiero contribuisce a plasmare la realtà.
D’altra parte, i filosofi non possono essere figure isolate. L’isolamento è la loro grande tentazione e pone il rischio del solipsismo. Nessun filosofo è autosufficiente. Nessuno può filosofeggiare davvero al di fuori di una tradizione, anche quando si contrappone a quella stessa tradizione. La filosofia è anch’essa radicata nella storia. Un’autentica «storia della filosofia, prima o poi, si trasforma in una «filosofia della storia». Un esempio dell’influenza dello Zeitgeist storico (spirito dei tempi) in filosofia è il carattere pseudoscientifico di più di una «storia della filosofia». Tali libri trattano di idee filosofiche considerandole alla stregua di grandezze algebriche collegate fra loro mediante semplici regole di deduzione e induzione. Una cosa è prendere atto che Kant è comprensibile solo dopo Hume; completamente diverso è presentare le idee kantiane quasi fossero l’esito logico dell’empirismo inglese. Un’ideologia oggi predominante è quella che chiamiamo «sviluppo», l’ultimo baluardo del mito del progresso. La crescita, il cambiamento e, in ultima istanza, la vita sono più del semplice «sviluppo». Pensare non significa né trarre conclusioni né indulgere in un’arbitraria immaginazione solitaria. Il pensiero filosofico naviga nel cosmo per obbedienza e creatività.
Ciò che ha dato alla parola «metafisica» una cattiva reputazione è il fatto che fin troppo spesso questo nucleo fondamentale della filosofia è stato inteso in senso atemporale e astorico, ossia, assoluto. Non soltanto il filosofo ma anche la filosofia stessa è collocata in un determinato tempo e spazio ed è relativa al mito dal quale emerge. I filosofi sanno che nonostante l’originalità del loro pensiero, anzi proprio per via di essa, si ergono sulle spalle altrui e si inseriscono all’interno di una tradizione, sebbene spesso in opposizione dialettica con i principi fondanti di quest’ultima. Gli autentici filosofi devono stabilire un rapporto di solidarietà con l’intero universo. Altrimenti, come si potrebbe anche solo parlarne? Solitarietà e la solidarietà vanno di pari passo.
Il metodo filosofico è quello del pensare e, in tale ambito, questo termine indica il prestare un ascolto attivo e intelligente alla realtà stessa: al Ritmo dell’Essere, come dirò fra poco. Il filosofo non si limita a sentire il polso della folla. Compito del filosofo è quello di sintonizzare la propria mente e il proprio cuore con la realtà, lasciando che il pulsare stesso dell’Essere attraversi il proprio spirito e, così facendo, modifichi il suo ritmo. Ciò significa che tutti coloro che aspirano alla saggezza devono compiere ogni sforzo per raggiungere la purezza di cuore.
Il pensiero del filosofo è un’attiva consapevolezza delle «esigenze» dell’Essere. «Consapevolezza attiva» significa che questa consapevolezza plasma (nella stessa misura in cui ne è plasmata) il dinamismo dell’Essere. La dicotomia fra teoria e prassi è mortale per entrambe; la teoria si riduce a nuda speculazione e la prassi si limita al rimescolamento delle carte.
Ogni cultura ha il proprio mondo e i propri modi di interpretare la realtà. In effetti, in questo caso «mondo» e «realtà» sono simboli che non possono essere ridotti a concetti. Ogni cultura ha i propri criteri di verità e un proprio modo di concepire la corretta interpretazione di ciò che si intende con tale termine. Parlo di verità e non di esattezza o correttezza. Vi sono tuttavia interrogativi, problemi e visioni che trascendono le singole culture. La filosofia ha bisogno di una lingua e la lingua stessa è caratterizzata culturalmente; non esiste un linguaggio sovraculturale. Possono esserci aree transculturali in cui si sovrappongono affinità e influenze interculturali ma tutto ciò che è consapevolmente umano è già subordinato a una particolare cultura.
Che cosa significa, allora, «tentativo olistico»?
La grande tentazione della filosofia intesa come opus rationis, come sforzo della nostra mente soltanto, sta nella ricerca di un «comune denominatore», come se il Tutto fosse ciò che è comune a tutto. Questa caratteristica in comune può essere soltanto un concetto formale che viene astratto dall’immensa varietà degli esseri. Ancora una volta, la filosofia non può essere ridotta a un’algebra dei concetti, all’abile gioco delle astrazioni. La filosofia deve resistere, specialmente nell’epoca attuale, alla tendenza alla specializzazione. La filosofia non è una scienza esatta, quanto piuttosto una scienza vera (scientia, conoscenza). Il suo fine non è quello di controllare bensì di comprendere, ricorrendo a tutti gli strumenti di conoscenza disponibili. È quindi una visione riduzionistica della filosofia quella che impone una previsione che la rende un’impresa meramente razionale. Il moderno apartheid occidentale fra filosofia e «teologia», per esempio, riduce la prima all’impotenza e distrugge la seconda. Si perde il contatto critico con l’intero.
L’Intero non è la totalità. Le Upanishad sono pervase da questa ricerca olistica: «Che cosa è quel conoscere per mezzo del quale ogni cosa è conosciuta?»[2]. La risposta non può essere una cognizione delle cose che procede passo per passo. La risposta tradizionale è ovviamente conoscere brahman, Dio, Colui che conosce Tutto. Tuttavia questo Conoscitore è inconoscibile. Se fosse conosciuto diventerebbe il Conosciuto, non il Conoscitore. Di qui: «Allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto»[3]. Il processo è un processo esistenziale, un processo che investe l’intera persona, tema che prenderemo in esame nella nostra prossima sezione.
3) L’approccio sofianico
Questa terza sezione non sarebbe necessaria se avessimo un’idea più tradizionale della filosofia intesa come saggezza: la perdita del nucleo mistico della filosofia nell’accezione prevalente di questo termine la rende invece indispensabile. Per questa ragione ho chiamato il terzo approccio «sofianico» anziché «filosofico».
O eliminiamo la buccia sociologica o rompiamo il guscio ontologico: in entrambi i casi dobbiamo giungere fino al seme o al nocciolo e «mangiarlo». La conoscenza sensoriale pone il frutto nelle nostre mani, la conoscenza razionale lo spacca e infine lo taglia a pezzi in modo da renderlo più comprensibile, ma è la conoscenza intellettuale o spirituale che mangia e assimila il frutto in modo che esso possa nutrire la nostra vita.
Questa è la triplice struttura della conoscenza umana. Esperire significa mangiare il frutto ma affinché possa essere assimilato dobbiamo aprirlo e prepararlo. Ciò che ricerchiamo è un’esperienza che trasformi le nostre vite e che ci incorpori nel destino dell’universo. Siamo alla ricerca di un’intuizione in grado di fornirci un orientamento nella vita, anche solo per il tempo nel suo essere presente, per il nostro essere nel tempo.
Sulle questioni di vitale importanza non possiamo attendere che una qualche scienza pronunci la sua parola definitiva, che non giungerà mai poiché la scienza è un processo continuo. Abbiamo bisogno di un altro criterio per orientarci nella vita. In altre parole, il nostro metodo deve essere veramente un met’hodos, un andare lungo la via, e non semplicemente una digressione marginale, un episodio (epi-eis-hodos). Dobbiamo arrivare a una semplice «visione» della problematica e giungere a una conclusione o decisione, che non sia il risultato dell’abile manipolazione di un numero praticamente indefinito di variabili. Possiamo confidare nei nostri istinti ma l’istinto umano ha anche una componente intellettuale. Può anche darsi che quell’analysis non conduca alla synthesis, perché la somma delle parti potrebbe non dare come risultato l’intero. Anche se l’analysis non dovesse condurci a una synthesis, l’intero è più del risultato di un’operazione di sintesi. Ci occorre l’intuizione dell’Intero, che potrebbe anche non essere necessariamente una «idea chiara e distinta».
Alcune lingue africane, consapevoli che vi sono numerose prospettive, non chiedono come «vediamo» il mondo – il che assegna un ruolo predominante alla vista, come nella cultura greca – bensì come «gustiamo» il mondo, poiché i gusti sono immediati e non sono così facilmente assimilabili ai concetti. Qualunque sia la possibile etimologia della sophia, il suo significato immediato indica l’abilità di orientarsi in un dato contesto, pratico o teoretico. Un sophos è una persona abile e competente, un buon navigatore in Omero, come si è già detto.
Questa abilità nell’ambito degli interrogativi ultimi non consiste nel controllare o dominare bensì nell’orientarsi, veleggiando fino al porto nonostante i venti sociologici e le ondate filosofiche. In varie culture umane questa saggezza è stata definita la «visione» del terzo occhio, il potere della fede o l’esperienza mistica.
Stiamo dicendo, in altre parole, che l’approccio sofianico mira a superare le pretese di entrambi gli approcci, tanto quello storico (graduale) che quello razionale (formale). Non dovrei sottolineare il fatto che la sophia è femminile, visto che in molte lingue non lo è, ma l’atteggiamento che sta dietro questo approccio non è certo il tipico tratto maschile del voler comprendere/afferrare, dominare e anche conoscere quanto piuttosto quello del venire compreso/colto, conosciuto, assimilato. Il problema fondamentale è quello di pensare ed Essere.
Posso ripetere tutto dall’inizio. Ci troviamo «gettati» in questo mondo o semplicemente in mezzo ad esso. Non solo ci sentiamo smarriti e disperati, come scrive Dante[4], ma anche gravati dal peso stesso della nostra mente. È quanto rivela un profondo sloka dei Veda: «Ciò che veramente sono non lo so chiaramente: misterioso, con i ceppi ai piedi nella mia mente vago»[5]. Abbiamo perso la fiducia in noi stessi e negli altri. La stessa storia ci narra che il «Primogenito di Verità» viene a noi. La tragedia umana, come afferma il prologo di san Giovanni, è che noi non accogliamo la Luce che viene a noi[6] perché la nostra prassi è egoistica[7]. Nella maggior parte delle tradizioni umane si trovano affermazioni di tenore simile. In altre parole, l’orientamento nella nostra vita proviene dalla Vita stessa. Basta semplicemente un atteggiamento più positivo per accoglierla. Questa ricettività, tuttavia, non preclude la nostra libertà e il nostro discernimento. Possono esserci esperienze brevi e di grande intensità che sono false e artificiali. Per il nostro pellegrinaggio umano dobbiamo fare appello a tutte le nostre facoltà.
Essere aperti all’intero richiede dunque un atteggiamento diverso da quello della sintesi o dell’analisi. Richiede una «nuova innocenza» uno «svuotamento» di noi stessi e, persino, delle nostre aspettative. Gli antichi definivano questo atteggiamento ars vitae, un altro termine con il quale veniva indicata la filosofia in quanto esperienza sofianica della Vita.
Testo inedito tratto da Il ritmo dell’Essere, di prossima pubblicazione presso Jaca Book, Milano. Traduzione di Milena Carrara Pavan