"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
FILOSOFO, chimico, teologo, figlio di madre spagnola e padre
indiano, è un misto di varie culture e spiritualità. Raimon Panikkar ha
ottantatré anni, ma ne dimostra una cinquantina e dice di sentirsene seimila.
Una figura agile ed elegante; il corpo lungo e sottile avvolto in una tunica
bianca. Il suo volto è abbronzato, ricco di un sorriso aperto e immediatamente
comunicativo.
È stato ospite a Rimini del Premio Pio Manzù. Un malore improvviso (seguito da
un ricovero di diversi giorni all’Infermi) gli ha impedito di svolgere
direttamente la sua relazione su “Verso un nuovo umanesimo: un legame spirituale
con la terra”. Ne proponiamo i contenuti in quest’intervista. Può darci una definizione di pace e guerra oggi?
“La nostra cultura tecnocratica, che attraverso il culto dell’accelerazione ha
trasgredito i ritmi naturali della natura e della mente, ha prodotto una società
che, oltre a non avere la pace, ne rende difficile e urgente la realizzazione ai
nostri giorni. Ciò non significa che i tempi passati non avessero i loro
problemi, dai quali possiamo anche trarre lezione. Pace non vuole dire mantenere
uno status quo rivelatosi ingiusto. Non sto proponendo la guerra contro, ma
l’emancipazione dallo status quo e la sua trasformazione in un fluxus quo, un
muoversi verso un’armonia cosmica sempre nuova. Troppo spesso i discorsi sulla
pace tendono a diventare sogni idilliaci di un paradiso ideale”.
I diversi nomi della pace Lei parla di pace esterna e di pace interna e che è impossibile vivere senza
entrambe. Può spiegarci il suo pensiero?
“È sconvolgente e pericoloso vivere in situazioni di guerra o di conflitto di
qualsiasi tipo. Il mondo è pieno di ingiustizie istituzionalizzate e non, che
distruggono la pace.
Dall’ultimo conflitto mondiale, più di mille persone al giorno cadono vittime
della guerra, milioni sono i profughi nel mondo, i bambini che vivono
abbandonati sulla strada e la gente che muore di fame. Non dovremmo minimizzare
il dolore umano, ma se vi è pace interiore esiste ancora qualche possibilità di
sopravvivenza. Senza pace interiore la persona si disgrega. Crimine, droga e
molte altre piaghe individuali e sociali derivano dalla mancanza di pace
interiore. La pace è più che un’essenza di conflitti armati. Se non c’è pace
dentro di noi non vi può essere nemmeno pace attorno a noi. La mancanza di pace
interiore origina competizioni che sfociano in sconfitte che innescano vendette
di ogni tipo dichiarate o meno. D’altra parte, non è possibile godere in
pienezza la pace interiore se il nostro ambiente umano ed ecologico subisce
violenza e ingiustizia. Viceversa, senza pace esteriore, la pace interiore è
solo apparente o superficiale o uno stato esclusivamente psicologico di
isolamento artificiale dal resto della realtà”. Lei afferma dunque che nessuna spiritualità autentica può propugnare la fuga
dal mondo reale e nessun saggio si può chiudere nel proprio egoismo o nella
proprio autosufficienza...
“Certo occorre camminare nell’unità. La pace interiore produce la pace esteriore
e questa nutre la pace interiore. Analogamente, il disordine interiore produce
lotta esteriore e questa genera a sua volta la degradazione interiore. La
relazione è tuttavia sui generis. Non abbiamo visto talvolta persone dotate di
una misteriosa, affascinante serenità in situazioni ingiuste e catastrofiche? Ma
al contempo, non siamo forse stati testimoni di depressioni inesplicabili in
condizioni di vita esternamente ottimali? Tutto l’universo è coinvolto nella
stessa avventura. La filosofia della vita intesa come “la sapienza dell’amore”
propria della vita stessa ci aiuta a superare la dicotomia fra interiorità ed
esteriorità e ci consente di godere della pace interiore in mezzo a sofferenze
esterne e di impegnarci ad alleviare le ingiustizie senza perdere la nostra
gioia interiore”.
La pace un dono, non una conquista Lei dunque è favorevole alla lotta per la pace...
“Non si combatte per la pace; si combatte per i propri diritti o, eventualmente,
per la giustizia, ma mai per la pace. È una contraddizione. I regimi che vengono
imposti non rappresentano la pace per chi li subisce, siano essi bambini,
stranieri, poveri, famiglie o nazioni. Noi accettiamo la pace come un dono, ma
il dono della pace non è un giocattolo. È una spinta, una aspirazione. La pace
non è una condizione pre-confezionata. Cristo voleva che noi ricevessimo la sua
pace, non voleva imporcela, né tantomeno voleva che noi la imponessimo agli
altri. La natura della pace è grazia, è dono. Noi scopriamo la pace: è una
scoperta, non una conquista. È frutto di una rivelazione: possiamo sperimentarla
come la rivelazione dell’amore, di Dio, della bellezza della realtà,
dell’esistenza della provvidenza, di un significato nascosto, dell’armonia
dell’essere o della bontà della creazione, della speranza, della giustizia, o
anche dell’amore puro di chi ama…
La pace deve essere continuamente nutrita e persino creata. Per raggiungerla non
esiste ricetta né programma pre-costituito possibile né tantomeno un ritorno
allo stato primitivo, una volta che l’innocenza è stata perduta. La pace la si
ricrea ogni volta. È dono è dovere”.
La vittoria non conduce alla pace Nella sua relazione al Manzù lei ha affermato che la vittoria non conduce mai
alla pace. Una provocazione? “Ne sono testimoni gli ottomila e più trattati
di pace (di cui siamo a conoscenza) stipulati nel corso dei millenni della
storia umana. Nessuna vittoria ha mai portato una vera pace. Non si può
ribattere attribuendo la colpa di ciò alla natura umana, perché la maggior parte
delle guerre sono state fatte, e giustificate, come correzioni di trattati di
pace precedenti. Gli sconfitti, se non proprio i loro figli, prima o poi
emergeranno ed esigeranno ciò che era stato loro negato. Nemmeno la repressione
del male porterà a risultati permanenti. La pace fugge dal campo dei vincitori,
direi parafrasando Simone Weil. La pace non è il ripristino di un ordine
sovvertito: è costantemente un nuovo ordine. È un fatto storico che la vittoria
conduce alla vittoria, non alla pace. Conosciamo bene gli effetti collaterali
deleteri di “vittorie” prolungate. Nonostante tutte le nostre distinzioni, la
vittoria è sempre quella di un popolo su un altro popolo o di una persona su
un’altra persona, e un popolo o un essere umano non è mai un malvagio assoluto.
A livello teorico non si può quindi dire che la vittoria sia stata riportata
sulle forze del male o gli errori o le aberrazioni. Forse vorremmo solo
distruggere il male, ma eliminiamo il malfattore, vorremmo punire il crimine, ma
puniamo il criminale”.
Disarmo militare e disarmo culturale La guerra oggi la si combatte prima sui media poi sui campi di battaglia.
“Certo, dobbiamo disarmare le nostre rispettive culture insieme con (e a volte
anche prima) l’eliminazione delle armi. Le nostre culture sono spesso bellicose,
trattano gli altri come nemici, come barbari, selvaggi, primitivi, pagani, non
credenti, intolleranti e così via. Inoltre in molte culture la ragione stessa è
usata come arma: per vincere e convincere.v Disarmo culturale non è solo una
frase ad effetto, ma, nella nostra attuale situazione, un requisito
indispensabile per garantire la pace e giungere a un disarmo duraturo. Dobbiamo
dire innanzitutto che non è puro caso se la civiltà occidentale ha sviluppato
oggi un arsenale di armi così terribile sia per qualità che per quantità. È un
qualcosa che inerente a questa cultura che ha portato a una simile situazione:
competitività, ricerca di soluzioni “migliori” che non tengono conto della
possibilità di affrontare le cause e risolvere il problema alla base, e tutto
ciò a discapito delle arti, dei mestieri, della soggettività, noncuranza del
mondo dei sentimenti, senso di superiorità, universalità e così via. Un esempio
di questo atteggiamento è palese nel fatto che i discorsi dei politici e degli
intellettuali si concentrano esclusivamente sulla riduzione degli armamenti
trascurando questi temi più fondamentali. Il disarmo culturale tuttavia è
rischioso e difficile quanto quello militare. Si diventa vulnerabili. È risaputo
che la riduzione degli armamenti è un problema fondamentalmente culturale. Il
passaggio dall’agricoltura, come modo di vita, all’agribusiness, come mezzo di
guadagno, potrebbe essere preso ad esempio di quanto vogliamo dire. Disarmo
culturale non significa voler ritornare alla vita primitiva, ma presuppone una
critica della cultura non solo alla luce di ciò che non è andato bene in quella
occidentale, ma anche nella prospettiva di un approccio interculturale genuino”.
Religioni e pace Le religione sono una via privilegiata verso la pace? “La gente era
disposta a lottare per la propria salvezza, prova ne sia che molte delle guerre
del mondo sono state guerre di religione.
Siamo testimoni oggi di una trasformazione della nozione stessa di religione per
cui si può affermare che le religioni sono modi diversi di avvicinare e di
acquisire quella pace che al giorno d’oggi è forse uno dei pochi simboli
universali. Summa nostrae religionis pax est et unanimitas (l’essenza della
nostra religione è la pace e la concordia), scrisse Erasmo in una lettera del
1522”.