in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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La pace fugge dal campo dei vincitori

FILOSOFO, chimico, teologo, figlio di madre spagnola e padre indiano, è un misto di varie culture e spiritualità. Raimon Panikkar ha ottantatré anni, ma ne dimostra una cinquantina e dice di sentirsene seimila. Una figura agile ed elegante; il corpo lungo e sottile avvolto in una tunica bianca. Il suo volto è abbronzato, ricco di un sorriso aperto e immediatamente comunicativo.

È stato ospite a Rimini del Premio Pio Manzù. Un malore improvviso (seguito da un ricovero di diversi giorni all’Infermi) gli ha impedito di svolgere direttamente la sua relazione su “Verso un nuovo umanesimo: un legame spirituale con la terra”. Ne proponiamo i contenuti in quest’intervista.
Può darci una definizione di pace e guerra oggi?
“La nostra cultura tecnocratica, che attraverso il culto dell’accelerazione ha trasgredito i ritmi naturali della natura e della mente, ha prodotto una società che, oltre a non avere la pace, ne rende difficile e urgente la realizzazione ai nostri giorni. Ciò non significa che i tempi passati non avessero i loro problemi, dai quali possiamo anche trarre lezione. Pace non vuole dire mantenere uno status quo rivelatosi ingiusto. Non sto proponendo la guerra contro, ma l’emancipazione dallo status quo e la sua trasformazione in un fluxus quo, un muoversi verso un’armonia cosmica sempre nuova. Troppo spesso i discorsi sulla pace tendono a diventare sogni idilliaci di un paradiso ideale”.

I diversi nomi della pace
Lei parla di pace esterna e di pace interna e che è impossibile vivere senza entrambe. Può spiegarci il suo pensiero?
“È sconvolgente e pericoloso vivere in situazioni di guerra o di conflitto di qualsiasi tipo. Il mondo è pieno di ingiustizie istituzionalizzate e non, che distruggono la pace.
Dall’ultimo conflitto mondiale, più di mille persone al giorno cadono vittime della guerra, milioni sono i profughi nel mondo, i bambini che vivono abbandonati sulla strada e la gente che muore di fame. Non dovremmo minimizzare il dolore umano, ma se vi è pace interiore esiste ancora qualche possibilità di sopravvivenza. Senza pace interiore la persona si disgrega. Crimine, droga e molte altre piaghe individuali e sociali derivano dalla mancanza di pace interiore. La pace è più che un’essenza di conflitti armati. Se non c’è pace dentro di noi non vi può essere nemmeno pace attorno a noi. La mancanza di pace interiore origina competizioni che sfociano in sconfitte che innescano vendette di ogni tipo dichiarate o meno. D’altra parte, non è possibile godere in pienezza la pace interiore se il nostro ambiente umano ed ecologico subisce violenza e ingiustizia. Viceversa, senza pace esteriore, la pace interiore è solo apparente o superficiale o uno stato esclusivamente psicologico di isolamento artificiale dal resto della realtà”.
Lei afferma dunque che nessuna spiritualità autentica può propugnare la fuga dal mondo reale e nessun saggio si può chiudere nel proprio egoismo o nella proprio autosufficienza...
“Certo occorre camminare nell’unità. La pace interiore produce la pace esteriore e questa nutre la pace interiore. Analogamente, il disordine interiore produce lotta esteriore e questa genera a sua volta la degradazione interiore. La relazione è tuttavia sui generis. Non abbiamo visto talvolta persone dotate di una misteriosa, affascinante serenità in situazioni ingiuste e catastrofiche? Ma al contempo, non siamo forse stati testimoni di depressioni inesplicabili in condizioni di vita esternamente ottimali? Tutto l’universo è coinvolto nella stessa avventura. La filosofia della vita intesa come “la sapienza dell’amore” propria della vita stessa ci aiuta a superare la dicotomia fra interiorità ed esteriorità e ci consente di godere della pace interiore in mezzo a sofferenze esterne e di impegnarci ad alleviare le ingiustizie senza perdere la nostra gioia interiore”.

La pace un dono, non una conquista
Lei dunque è favorevole alla lotta per la pace...
“Non si combatte per la pace; si combatte per i propri diritti o, eventualmente, per la giustizia, ma mai per la pace. È una contraddizione. I regimi che vengono imposti non rappresentano la pace per chi li subisce, siano essi bambini, stranieri, poveri, famiglie o nazioni. Noi accettiamo la pace come un dono, ma il dono della pace non è un giocattolo. È una spinta, una aspirazione. La pace non è una condizione pre-confezionata. Cristo voleva che noi ricevessimo la sua pace, non voleva imporcela, né tantomeno voleva che noi la imponessimo agli altri. La natura della pace è grazia, è dono. Noi scopriamo la pace: è una scoperta, non una conquista. È frutto di una rivelazione: possiamo sperimentarla come la rivelazione dell’amore, di Dio, della bellezza della realtà, dell’esistenza della provvidenza, di un significato nascosto, dell’armonia dell’essere o della bontà della creazione, della speranza, della giustizia, o anche dell’amore puro di chi ama…
La pace deve essere continuamente nutrita e persino creata. Per raggiungerla non esiste ricetta né programma pre-costituito possibile né tantomeno un ritorno allo stato primitivo, una volta che l’innocenza è stata perduta. La pace la si ricrea ogni volta. È dono è dovere”.

La vittoria non conduce alla pace
Nella sua relazione al Manzù lei ha affermato che la vittoria non conduce mai alla pace. Una provocazione? “Ne sono testimoni gli ottomila e più trattati di pace (di cui siamo a conoscenza) stipulati nel corso dei millenni della storia umana. Nessuna vittoria ha mai portato una vera pace. Non si può ribattere attribuendo la colpa di ciò alla natura umana, perché la maggior parte delle guerre sono state fatte, e giustificate, come correzioni di trattati di pace precedenti. Gli sconfitti, se non proprio i loro figli, prima o poi emergeranno ed esigeranno ciò che era stato loro negato. Nemmeno la repressione del male porterà a risultati permanenti. La pace fugge dal campo dei vincitori, direi parafrasando Simone Weil. La pace non è il ripristino di un ordine sovvertito: è costantemente un nuovo ordine. È un fatto storico che la vittoria conduce alla vittoria, non alla pace. Conosciamo bene gli effetti collaterali deleteri di “vittorie” prolungate. Nonostante tutte le nostre distinzioni, la vittoria è sempre quella di un popolo su un altro popolo o di una persona su un’altra persona, e un popolo o un essere umano non è mai un malvagio assoluto. A livello teorico non si può quindi dire che la vittoria sia stata riportata sulle forze del male o gli errori o le aberrazioni. Forse vorremmo solo distruggere il male, ma eliminiamo il malfattore, vorremmo punire il crimine, ma puniamo il criminale”.

Disarmo militare e disarmo culturale
La guerra oggi la si combatte prima sui media poi sui campi di battaglia.
“Certo, dobbiamo disarmare le nostre rispettive culture insieme con (e a volte anche prima) l’eliminazione delle armi. Le nostre culture sono spesso bellicose, trattano gli altri come nemici, come barbari, selvaggi, primitivi, pagani, non credenti, intolleranti e così via. Inoltre in molte culture la ragione stessa è usata come arma: per vincere e convincere.v Disarmo culturale non è solo una frase ad effetto, ma, nella nostra attuale situazione, un requisito indispensabile per garantire la pace e giungere a un disarmo duraturo. Dobbiamo dire innanzitutto che non è puro caso se la civiltà occidentale ha sviluppato oggi un arsenale di armi così terribile sia per qualità che per quantità. È un qualcosa che inerente a questa cultura che ha portato a una simile situazione: competitività, ricerca di soluzioni “migliori” che non tengono conto della possibilità di affrontare le cause e risolvere il problema alla base, e tutto ciò a discapito delle arti, dei mestieri, della soggettività, noncuranza del mondo dei sentimenti, senso di superiorità, universalità e così via. Un esempio di questo atteggiamento è palese nel fatto che i discorsi dei politici e degli intellettuali si concentrano esclusivamente sulla riduzione degli armamenti trascurando questi temi più fondamentali. Il disarmo culturale tuttavia è rischioso e difficile quanto quello militare. Si diventa vulnerabili. È risaputo che la riduzione degli armamenti è un problema fondamentalmente culturale. Il passaggio dall’agricoltura, come modo di vita, all’agribusiness, come mezzo di guadagno, potrebbe essere preso ad esempio di quanto vogliamo dire. Disarmo culturale non significa voler ritornare alla vita primitiva, ma presuppone una critica della cultura non solo alla luce di ciò che non è andato bene in quella occidentale, ma anche nella prospettiva di un approccio interculturale genuino”.

Religioni e pace
Le religione sono una via privilegiata verso la pace? “La gente era disposta a lottare per la propria salvezza, prova ne sia che molte delle guerre del mondo sono state guerre di religione.
Siamo testimoni oggi di una trasformazione della nozione stessa di religione per cui si può affermare che le religioni sono modi diversi di avvicinare e di acquisire quella pace che al giorno d’oggi è forse uno dei pochi simboli universali. Summa nostrae religionis pax est et unanimitas (l’essenza della nostra religione è la pace e la concordia), scrisse Erasmo in una lettera del 1522”.
 

Da: http://www.ilponte.com/article.php?sid=211

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