OCCIDENTE DOMINATORE
Achille Rossi
incontra Raimon Panikkar
Raimon
Panikkar, lei che è considerato come uno dei più grandi studiosi del dialogo
interreligioso oggi viventi, che cosa pensa del problema che sta emergendo
drammaticamente in questi mesi e cioè la crescente insofferenza delle masse
islamiche verso l’Occidente, una insofferenza che è arrivata fino al
terrificante atto terroristico che ha distrutto le twin towers a New York?
Non soltanto le masse islamiche, ma anche quelle indù, buddhiste e le masse in
genere mostrano insofferenza dinanzi al dominio di una sola cultura, di una sola
nazione e adesso di un solo stato. Perché parla esclusivamente di islamici?
Perché alcuni
loro capi fanatici hanno dichiarato guerra all’America e all’Occidente.
Posta così, la domanda è tendenziosa: costringe a difendere o attaccare l’Islam
o l’Occidente, accettando le regole del pericoloso gioco di contrapposizione che
ha preso inizio nelle ultime settimane. Tutte le masse, non solo quelle
islamiche, provano tale insofferenza. Esse avvertono lo scandalo di una società,
quella occidentale appunto, realmente potente e apparentemente felice, che è
riuscita a costruire un modo di vivere senza Dio: Dio è una ipotesi superflua. E
queste masse si rendono conto, probabilmente in maniera piuttosto incosciente,
che questo rappresenta uno scandalo nei confronti della loro fede, perché Dio
non può essere assente da nessun affare umano. Non voglio naturalmente difendere
l’integralismo, ma sottolineare soltanto il contraccolpo provocato in certe
culture dal successo di una civiltà totalmente atea.
In Occidente
l’Islam viene qualificato come la religione dell’intolleranza e identificato con
la jihad, la guerra santa; alcuni addirittura ne traggono pretesto per
proclamare l’impossibilità di integrare gli islamici nella cultura occidentale.
L’Islam corrisponde davvero a questa descrizione oppure siamo di fronte a una
caricatura?
Le caricature non sono completamente sbagliate. Io però potrei fare la stessa
caricatura nei confronti del cristianesimo: storicamente il cristianesimo è
stato più intollerante dell’Islam. Questo è un fatto accettato da tutti.
Però gli
elementi dottrinali delle due religioni sono differenti: l’Islam predica la
jihad, il cristianesimo il perdono del nemico. Queste differenze, secondo lei,
sono solo apparenti o esistono realmente?
Anche nel Vangelo Gesù dice: non sono venuto a portare la pace, ma la spada.
Come queste parole di Cristo, anche il termine jihad deve essere interpretato:
può significare crociata e può significare lotta interiore contro il male. Io
non sono un ulema per parlare con sufficiente autorità dell’Islam, ma non posso
negare che la jihad sia stata interpretata come una giustificazione della guerra
santa.
Il fatto che
nell’Islam non ci sia una netta distinzione tra diritto e religione, tra
religione e politica, crea una difficoltà reale nei rapporti con l’Occidente. È
possibile essere pienamente fedeli all’Islam e nello stesso tempo adottare il
principio della laicità dello stato?
Nell’Islam la distinzione tra sacro e profano non è stata sufficientemente
sviluppata, perciò i musulmani si trovano in questa situazione. L’Islam non ha
potuto operare tale distinzione, perché negli ultimi secoli, a ragione o a
torto, si è trovato sempre pressato dall’Occidente. Per conto mio, mi sento
abbastanza indiano per non condividere né la visione monista né quella dualista
della realtà: un potere ecclesiastico sopra tutti i poteri è tanto negativo
quanto l’autonomia etica o uno stato completamente separato dalla sfera
religiosa. Non si può frantumare la vita, occorre trovare una forma che accetti
le distinzioni senza cadere nella separazione. Non è un caso che in duemila anni
la cristianità abbia lasciato nell’ombra la Trinità: la Trinità è pura
relazionalità e dunque un ostacolo alla giustificazione teologica del potere
unico e assoluto della monarchia.
Quando si
parla di laicità dello stato non si vuole stabilire una frattura tra vita e
ispirazione religiosa. Si vuole soltanto sottolineare che lo stato non sposa una
religione ben precisa, consacrandola come religione dello stato.
Si è fatta della religione una caricatura, fino a ridurla a un’altra ideologia e
a un’istituzione. A quel punto, evidentemente, lo stato non può sottoscriverla
perché anch’esso è un’istituzione. Qui comincia già la degenerazione del
religioso: la religione non è un’istituzione, ma una dimensione umana. Che poi
si sia istituzionalizzata è tutto un altro paio di maniche. Proprio per questo
nelle religioni non monoteiste, come ad esempio l’induismo e il buddhismo,
simili problemi non si pongono.
Secondo le
tradizioni orientali, allora, come si può coniugare la vita civile con la
presenza di una pluralità di confessioni religiose?
Senza nessuna difficoltà: le confessioni religiose sono e devono rimanere
confessioni religiose.
E questo è il
principio della laicità dello stato.
No, perché lo stato reclama autorità sopra tutte le manifestazioni esterne
dell’individuo.
Lo stato
assoluto, non lo stato contemporaneo!
Se in Francia tu metti in dubbio il processo di Norimberga commetti reato. In
questo senso, quindi, non si può parlare di laicità dello stato. Tutte le cose
si spiegano attraverso la loro evoluzione storica: dopo il cesaropapismo e le
teocrazie era ovvio, naturale e sano che arrivasse questa reazione della laicità
dello stato. Ma oggi, dopo due secoli, possiamo cominciare a pensare che questo
non sia un dogma incontrovertibile.
Come viene
recepito l’Islam in India, in un differente contesto culturale? Anche lì non
dovrebbero essere state sempre rose e fiori. Quali difficoltà incontra nella
società indiana?
I musulmani, a differenza degli inglesi che vi si sono introdotti dolosamente,
sono entrati in India come conquistatori, quindi già con il piede sbagliato. La
storia del rapporto fra India e Islam non è stata mai troppo pacifica, a
cominciare dall’instaurazione del sultanato di Delhi fino all’enorme trauma
della divisione con il Pakistan, che è costato due milioni di vittime. Tuttavia
le relazioni umane fra indù e musulmani sono sempre state in genere molto buone.
In India non c’è una chiesa, ma ci sono il popolo e le tradizioni; e siccome
tutto resta a livello di relazioni interpersonali, la convivenza pacifica è
molto più semplice.
Quando si
parla di fondamentalismo in Occidente si pensa subito agli islamici, quindi agli
uomini-bomba palestinesi, ai terroristi algerini e adesso ai talebani. In cosa
consiste esattamente per lei, come storico delle religioni, il fondamentalismo:
è un’espressione tipica dell’Islam oppure una degenerazione dell’atteggiamento
religioso universale?
Fondamentalismo significa avere alcuni fondamenti, punti fermi imprescindibili,
senza i quali si pensa che la vita non abbia senso. Bisogna vedere però a che
livello uno ponga questi fondamenti, quale importanza attribuisca loro. Tutti
siamo dunque in qualche modo fondamentalisti. Personalmente mi sento più
minacciato e sono più critico nei confronti del fondamentalismo cristiano che
non di quello islamico.
Perché?
Perché è più sottile, più intelligente, più pericoloso e ha più denaro.
Invece che di fondamentalismo però preferirei parlare di fanatismo, che è l’assolutizzazione
di una sola religione, di una sola cultura, di una sola forma di vita. Proprio
per questo chi non conosce altre religioni all’infuori della propria ha la
tendenza ad assolutizzare e a diventare fanatico. E quando un popolo vive per
lungo tempo in isolamento tende a considerare la propria forma di vita come
assoluta.
Lei è un
sostenitore del dialogo fra le culture e della fecondazione reciproca. Altri
studiosi teorizzano invece lo scontro fra le civiltà e gli avvenimenti di questi
ultimi giorni sembrano dare ragione a loro. Quale atteggiamento bisognerebbe
assumere per realizzare un dialogo vero?
Gesù non ha escluso nemmeno Giuda dall’ultimo banchetto. Perché allora non
allestire un banchetto a cui invitare anche gli islamici per dialogare? Per me
il dialogo non è una strategia diplomatica, ma appartiene semplicemente alla
natura umana.
Come evitare
lo scontro di civiltà di cui parla Huntington?
Dialogo e interculturalità costituiscono l’imperativo morale più importante
della nostra epoca. Ognuno deve cominciare a capire che l’altro, il quale è
portatore di idee per lui incomprensibili e inaccettabili, costituisce la
rivelazione della sua contingenza, della contingenza di tutti gli individui e di
tutte le culture.
Quali sono le
condizioni per realizzare un fecondo dialogo interculturale?
Innanzitutto non bisognerebbe sentirsi autosufficienti. Se io mi
considerassi autosufficiente, che sarebbe il primo passo verso l’assolutismo o
l’assolutizzazione delle mie idee, non avrei bisogno dell’altro: ti rispetto, ti
amo anche, dunque ti lascio percorrere indisturbato il tuo cammino. Questa è la
concezione del Dalai Lama, il quale ritiene che le religioni siano linee
parallele che procedono senza incontrarsi mai. Io penso invece che le religioni,
come dimostra la storia, si incrocino continuamente, non necessariamente in
maniera violenta; certamente però non sono linee parallele. L’esperienza deve
farmi capire che io non sono autosufficiente e che in qualche modo ho bisogno
dell’altro per completare o riconoscere meglio me stesso. In questo senso il
dialogo è necessario.
Sul principio
molti sono d’accordo, ma come tradurlo in pratica?
Come prima condizione, non sentirsi autosufficienti, né individualmente né
come popolo. In secondo luogo, scoprire se stesso nell’altro: scoprire nello
straniero parte di me stesso. Se io scoprissi nell’altro una parte di me, sarei
più curioso di scoprire cosa pensa, cosa sente, proverei una forte spinta a
conoscerlo. E non si conosce se non si ama e viceversa. Da tutto questo
ovviamente nascerebbe il dialogo, la conversazione, lo scambio. Vorrei ricordare
ancora un altro atteggiamento fondamentale: l’arte di saper ascoltare, che non è
facile. Per capirti devo capire ciò in cui credi, e se non credo in qualche modo
a ciò in cui credi non ti capisco veramente. Prendo un esempio dall’attualità di
quest’ultimo periodo. Se io pensassi che i sostenitori del libero mercato sono
solo esseri cattivi, egoisti, in malafede, non arriverei mai a comprenderli, a
incontrarli. Anche in ciò che apparentemente ci ripugna c’è qualcosa da capire,
su cui dialogare, con cui arricchirsi, a cui andare incontro.
Da:
http://www.il-margine.it/archivio/2002/t3_4.htm
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