Raimundo
Panikkar: Non un’etica globale ma un’etica "condivisa".
Non un’etica "globale", che sarebbe
una sorta di tentazione neocolonialista, ma un’etica dialogica, condivisa,
contemplativa, frutto di un disarmo culturale dell’Occidente e dell’incontro con
le culture e le fedi religiose "altre". È questa, in sintesi, la proposta di
Raimundo Panikkar, teologo e filosofo per metà spagnolo e per metà indiano, da
anni impegnato nel confronto interreligioso.
Ecco alcuni passaggi tratti da una sua relazione intitolata "Dall’etica
globale all’etica condivisa" (Testo integrale riportato da "Adista" 26
febbraio 1994).
"La mia tesi si potrebbe così riassumere: non c’è un’etica globale. E il suo
corollario è che non ci può essere, perché se ci fosse ridurrebbe gli uomini ad
una uniformità totale, e l’etica ad un’etica di deduzione dei principi. L’etica,
invece, è qualcosa di vissuto e non soltanto frutto di una deduzione di
principi. Non si può attuare eticamente costruendo sillogismi e traendone
conseguenze. L’etica è una spinta personale, che viene più dal cuore che dalla
mente. Non è soltanto una deduzione ragionevole di principi sublimi.
Trovare una struttura formale o comune per fondare un’etica è impossibile. Tutti
siamo d’accordo che si deve fare il bene: il problema comincia quando si vuol
delimitare cosa è il bene e cosa è il male.
Un’etica unica, in un mondo multiculturale e multietnico, implicherebbe che
l’etica in quanto tale è sovra-culturale, e sovra-religiosa, mentre il
fondamento che ogni cultura ed ogni religione pongono alle rispettive etiche è
diverso. Per alcune culture le differenze tra quelli che noi chiamiamo uomini e
gli altri animali non sono così essenziali. Ragione per cui un’etica mondiale
dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi altro fondamento etico che hanno le
diverse culture e le diverse religioni.
Ma ciò coincide con il colonialismo che è, appunto, la credenza secondo cui è
possibile avere, con parametri sufficientemente depurati e cesellati, una
percezione e una soluzione a tutti i problemi dell’umanità. Dopo le lusinghe
coloniali occorre passare al disarmo di una siffatta cultura che si autoproclama
universale e che pretende anche di fondare un’etica universale.
L’unica forma di etica che abbia qualche forza, oggi, dev’essere un’etica
interculturale. L’imperativo è pragmatico, perché non è fondato su un "a
priori", ma semplicemente sul fatto che se non ci fosse un’etica alternativa per
il mondo attuale si andrebbe alla mutua distruzione dell’umanità, allo sterminio
tra gli uomini e ai disastri ecologici.
Non ci facciamo illusioni: il mondo, anche politicamente parlando, non tollererà
più per molto tempo queste ingiustizie istituzionalizzate: e se uno dovrà far
ricorso all’incendio dei pozzi di petrolio o al ricatto atomico, lo farà. Quindi
l’imperativo è pragmatico, perché l’alternativa è la distruzione. Non è
l’imperativo a priori: "perché così deve essere". L’etica non può essere
globale: ma deve essere oggi un’etica accettata nel mondo attuale e si
costituisce soltanto – o si scopre – nel dialogo interculturale.
E qui ritengo utile tratteggiare un decalogo dell’etica del dialogo.
Primo: l’altro esiste "per" ciascuno di noi. E l’altro è il musulmano,
l’altro è l’emarginato, l’altro è il marito, l’altro è il bambino, il mondo ecc.
Una specie di superamento inconscio del solipsismo.
Secondo: l’altro esiste come soggetto e non soltanto come oggetto. Esiste
a sé stante e non mi ha chiesto il permesso di esistere. Neanche la pietra, gli
alberi, gli animali. In altre parole: non si possono trasformare le pietre in
pane.
Terzo: l’altro non è oggetto di conquista, di conversione, di studi: è
(s)oggetto con diritti propri, con lo stesso diritto di interpellarmi, di
interrogarmi, che ho io. La relazione è, quindi, biunivoca: il dialogo è dialogo
perché non è monologo. Non è soltanto domandare, ma lasciarsi anche
interpellare. Per questo c’è una necessità di ascolto, di umiltà, di
uguaglianza.
Quarto: anche se io penso che l’altro (e l’altro può essere un sistema
religioso o culturale) sbaglia, devo entrare in contatto con lui, altrimenti non
c’è dialogo e senza dialogo non c’è pace.
Quinto: la disposizione a dialogare è il principio etico supremo. Se ci
si nega al dialogo, si finisce con il divorzio, con la guerra, con la
bancarotta, con il disastro.
Sesto: il dialogo deve essere totale. Come dicono gli inglesi: non c’è
niente di "non-negocial". Tutto deve essere messo sul tappeto, altrimenti non è
dialogo dialogale, non è dialogo umano, è dialogo diplomatico. Si mira a
vincere.
Settimo: l’etica è collegata al politico, dipende dal religioso ed è
frutto di una cultura.
Tutto ciò relativizza l’etica, ma la rende concreta ed efficace.
Ottavo: l’etica scaturisce dal dialogo religioso e allo stesso tempo ne è
la sua causa. È un circolo vitale come tutte le cose ultime.
Nono: nessuno ha il diritto di promulgare un’etica. L’etica non si
promulga. Si scopre. E si scopre nel dialogo.
Inoltre in un contesto mondiale qual è quello di oggi a nessuno viene
riconosciuto il diritto di promulgare un’etica universale ed assoluta.
Decimo: l’etica contemporanea deve confrontarsi con un "novum" che non si
era mai verificato nella storia: il "novum" di tanta gente che muore di fame, di
sete, di stenti, di violenza. E che attende una redenzione concreta: non
annuncio di principî etici, ma un comportamento operativamente salvifico,
purificato di ogni pretesa messianica".
Da:
http://www.saveriani.bs.it/cem/Corsi/materiali/materia2.htm
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