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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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L'estetica come nuova innocenza nel pensiero di Raimon Panikkar (Roberto Taioli)


 

Sebbene nel vasto pensiero di Raimon Panikkar non esista un’estetica compiutamente elaborata, è possibile rintracciare nella sua riflessione elementi di una sensibilità artistica e poetica, non scindibile tuttavia dalla più organica visione del mondo. Non è possibile separare ed isolare questi frammenti di estetica e di attenzione al bello proprio per rispettare l’assunto di fondo del pensiero di Panikkar, secondo cui tutto è interconnesso, non c’è parte che non rimandi al tutto e di converso non è pensabile il tutto se non nelle sue parti costitutive. Colligite fragmenta è quindi l’atteggiamento etico ed estetico del porgersi e chinarsi nell’atto della visione e della contemplazione di un lampo di verità cosmica riversatosi nel minuscolo continente del quotidiano. Ogni atto è infatti permeato da una complessa visione cosmoteandrica  che non è il disporsi di una astratta gerarchia concettuale né di un ordinamento logico, ma la percezione dell’alleanza e compresenza di divino, cosmico e umano in ogni evento del mondo. Un impasto, entro il quale le tre nature si riversano l’una nell’altra, dando luogo ad una cosmovisione.

     Lo sguardo della nuova innocenza sul mondo si presenta come un protendersi verso le cose. La nuova innocenza  non è il ritorno ad uno stato aurorale, ad un indistinto principio di identità, ma per Raimon Panikkar  disegna un progetto di mondo e di essere-nel-mondo che abbraccia le cose. In questo abbraccio le cose restano cose ma è il nostro modo di abbracciarle che cambia.:

 

     La nuova innocenza non è una seconda innocenza, non è una ripetizione della prima, non è una sua seconda edizione, nemmeno riveduta e corretta. E’ nuova, così nuova che non si ricorda d’essere seconda, perché non lo è; non è l’innocenza perduta recuperata, perché quella perduta è proprio perduta. Ho già detto che la nuova innocenza non è l’aver trovato il paradiso perduto. La nuova innocenza non viene dopo la prima. Viene dopo quello che ho chiamato primo punto, dopo l’ascesi, la purificazione.1

 

      L’intera struttura dell’universo si regge su una sintassi cosmoteandrica come nomos interno che non appare immediatamente evidente perché richiede un decentramento dell’ego, una diversa dislocazione rispetto al piano assiale della prassi orizzontale. Tuttavia non è neppure esibibile come mero versante psicologico, perché in tal modo perderebbe pregnanza riducendosi a  rappresentazione soggettiva. Essa è invece incardinata nel tessuto del reale. La realtà cosmoteandrica è concreta ma in qualche modo nascosta. In essa siamo da sempre e la abitiamo, anche se non ci sono chiari i contorni che la costituiscono perchè non si rivelano ad un’osservazione cartesiana. La visione cosmoteandrica si dà essenzialmente come una intuizione:

 

      La visione cosmoteandrica supera la dialettica, perché scopre la struttura trinitaria di ogni cosa – e la terza dimensione, il divino, non è proprio una “terza” opposizione, ma piuttosto il mysterium conjunctionis. La verità non è semplicemente identificabile come l’opposto dell’errore, quasi esistessero solo questi due estremi. Il continuum corre dall’uno all’altro.2

 

     Questa dimensione c’è già da sempre e si svela se ci disponiamo per coglierla e contemplarla. Occorre una rivoluzione copernicana di tipo kantiano per far sì che il soggetto si apra e  si disponga all’accoglimento della visione. Se restiamo chiusi e arroccati in noi stessi, questa ci è preclusa. Perdiamo il dono della totalità e della relazionalità  in cui siamo immersi, allorché ci pensiamo come isolati e separati dall’intero sistema cosmoteandrico, non più imparentati con il Tutto.

     Possiamo allora percepire il bello come valore estetico autonomo  e non incardinato in un insieme di riferimenti, come la bellezza di un fiore non correlata al campo sui cui cresce e si svela? Possiamo davvero ritagliare uno spazio di esteticità come mera apparizione di un fulgore? Lungi dall’appiattire la specificità di ogni elemento in uno schema trinario di connessioni (Dio-uomo-mondo), la realtà cosmoeandrica esalta di ogni frammento di esistenza la sua complessa tramatura, i tanti fili su cui si dipana la sua vita. Il suo essere trina ma al contempo  una,  fa sì che lo sguardo non sia sufficiente a gustarla.  Ogni filo di vita è infatti intessuto e costituito all’interno di altri fili, organizzato su varie tonalità, profumato di svariati sapori. Tutti ci vengono offerti con il volto dell’uno e del singolare, ma ci parlano di una costituzione plurale. Ogni punto per quanto unito  agli altri in un continuum, è altresì separato e distinto, come i petali ad una corolla, per cui la bellezza si pone nel nexus, nel saper andare oltre e sotto il particolare che ci appare. Bellezza è allora, nel linguaggio di Panikkar, contemplazione che si differenzia dal regno della quantità, che non è misurabile, fruibile, intercambiabile. La contemplazione è un atto in sé, pienamente libero  e spontaneo, che ha in sé la propria luce. Il contemplativo è colui che semplicemente “siede”, semplicemente “è”, vive.

 

      Il contemplativo non è l’asceta che si dispone a lavorare su se stesso, sugli altri o sui fini nobili. Il contemplativo gode la vita perché la vita è gioia e brahaman, ananda e sa scorgere in un singolo fiore un intero giardino: è  capace di vedere la bellezza dei gigli del campo anche se i campi sono improduttivi. Il contemplativo ha spontaneamente il potere di trasformare una situazione per la pura gioia di aver intravisto il segno luminoso nell’intreccio altrimenti fosco degli avvenimenti  umani.3

 

         La Gelassenheit, lo stato di serenità e di bellezza, è l’habitus  nel quale si pone il contemplativo nell’esperienza delle cose, definalizzando la propria visione del mondo. Egli blocca e neutralizza l’accelerazione verso il dopo, come anche il ricorso al prima. Il suo terreno è l’adesso,  ma non come immanenza dell’ora cronologica sul friabile e fragile palpito dell’istante. Si afferma invece un tempo tempiterno che addensa nel presente l’accadere, senza rinviare ad una esterna conclusione. La parte di una sinfonia si afferma e s’impone indipendentemente dalla sua conclusione, come un’ondata di senso che si riversa e che poi il tempo  trattiene (la ritenzione di Husserl) e che continua e permane anche dopo il suo svelarsi. La tempiternità è quindi il tempo che irrompe come pura creatività  e che nel suo porgersi incontra l’uomo. Il tempo che si dà nell’azione contemplativa, nella preghiera e nell’arte, si agglutina nell’atto in sé (il finis operationis degli scolastici) e che  ha vita solo nel suo attuarsi. L’attuarsi è il fine dell’arte e di ogni altro atto umano. Una nuova telelologia si afferma nel quotidiano operare delle cose come intenzionalità che non spezza la connessione tra uomo e natura. Lavoriamo non per un fine esterno, ma per rinsaldare il legame primordiale che abbiamo dimenticato, in un incrostarsi ed sovrapporsi di eterogeneità che è diventato alto come una montagna. L’intenzionalità dell’agente (il finis operantis) è il prolungamento armonioso della natura stessa dell’atto che non si separa dalla propria matrice:

 

  …   si coltiva la pianta non solo perché questa produce bellezza e accresce la vita, ma anche perché fornisce nutrimento. L’alimentarsi appartiene all’ordine cosmico che rappresenta il dinamismo, l’influenza reciproca, la crescita e la trasformazione dell’intero universo. Mangiare non è un atto egoistico; è comunione dinamica con tutto il mondo.4

 

    L’esperienza dell’arte, il dispiegarsi della vita estetica, si plasmano in questa cosmovisione. L’arte è natura in quanto rappresenta, ancor prima delle tecniche  (che in qualche modo  rientrano nel regno del logos), lo sforzo di sintesi di fondazione del mondo. Lo sguardo innocente sul mondo è l’apertura precategoriale attraverso cui il dinamismo della realtà, l’architettura del reale mi appaiono nella loro essenzialità e nudità, come carne viva di un corpo vivo. L’occhio contemplativo è l’occhio dell’incanto che si concentra e si consuma nell’attimo che vale per sempre. Esso è ora ma anche nell’eternità.

     Ma cosa coglie e vede l’occhio contemplativo? Quale paesaggio si offre, quale campo ottico ed estetico subentrano allo sguardo ordinario? Panikkar elabora una ermeneutica del mythos come antro platonico dentro il quale risalendo guadagniamo poco a poco la luce. L’arte nasce da un’oscurità di fondo, da un’ombra che si rischiara in noi e che da particolare diventa universale. Nel piccolo si rinfrange la costituzione dell’universo e il mythos è il fondale di questa apparizione.La rimitizzazione del mondo è in qualche modo necessaria per l’affermarsi di una vita estetica come innocenza sorgiva. Altrimenti anche la bellezza è ripetizione. Il mito è infatti il luogo primario della testimonianza, intesa non in senso giuridico e burocratico, ma come rivelarsi del sé:

 

      Noi rendiamo testimonianza a qualcosa che non possiamo indicare in nessun altro modo né provare attraverso ragionamenti; ecco perché  la testimonianza coinvolge l’intera vita del testimone. Rendiamo testimonianza non seguendo la ragione o i sentimenti, ma con la nostra vita. In definitiva rendiamo testimonianza solo con la nostra vita.5

 

 

     Il mythos è il luogo di fondazione e di rivelazione della visione cosmoteandrica che non appare nel logos. Il logos la ignora perché impegnato in un’impresa di accelerazione verso il dominio della quantità.  E’ nel mythos che compare quella disposizione olistica cui tendiamo, dove i frammenti dispersi e isolati si ritrovano in una armoniosa unità. Ma questa unità non è prima, già data, va costituita e rifondata come compito perenne dell’umanità nell’avvicendarsi del tempo, come un telos interno e, kantianamente, un’idea regolativa. Così l’innocenza perduta va ritrovata nelle modalità dell’incanto, attraverso l’esperienza del bello, della poesia, della musica, della preghiera. Il contemplativo spezza cosi per Panikkar il reticolo su cui si regge l’impianto della società contemporanea, mettendone il luce le distorsioni e le aberrazioni. Occorre quindi una metanoia, una profonda trasformazione che oltrepassi i luoghi comuni entro cui è impigliata la coscienza ordinaria come avvolta in  una profonda amnesia della sua origine. La nuova innocenza risveglia quella nascita e apre un nuovo inzio, come l’opera d’arte sempre diversa e risorgente dalla sua natura.  Panikkar elenca puntigliosamente i nodi del luogo comune e ne fa intravedere il rovescio, a partire dalla religione tradizionale che nel senso comune costituisce “il cielo, in alto, per i credenti”6e  che proietta nell’al di là i veri valori della vita.  Ma è soprattutto la critica alla nozione di progresso che cade nell’ottica della visione contemplativa. Il progresso è il più grande luogo equivoco della civiltà. La storia come accelerazione, come corsa in avanti, scandita da una intrinseca attitudine al miglioramento, al bene, che privilegia del bene una lettura pan-economica, riduttiva di fronte alla complessità della compagine universale e che ha come sua faccia l’homo faber nelle nuove maschere del lavoro e della prassi tecnologica.

     Le basi filosofiche e antropologiche della visione della nuova innocenza vanno rintracciate in quel sapere che non separa l’epistemologia dall’ontologia, la conoscenza dall’essere, come si affermò nella cultura occidentale moderna  a partire dall’illuminismo e ancor prima con la filosofia cartesiana.  La nuova innocenza , nel tempo del primato della ratio calcolante, si porge come guarigione dalla ferita aperta da quella leva separatrice:

 

     La riflessività innocente è quella che senza danneggiare l’oggetto ritorna al soggetto, è quella che non parte dalla dicotomia  tra oggetto, cosa oggettiva, staccata dall’uomo, e soggetto, mente soggettiva che punta il fucile per cacciare l’oggetto- e che pertanto fa esperimenti per vedere come reagirà la lepre.6

 

      Va ripristinato quindi il circolo virtuoso per cui soggetto conoscente e oggetto conosciuto non si separino come termini e terreni contrapposti. Nell’atto estetico quel vallo scompare facendo emergere una entropatia chiasmatica (pensiamo alla simbologia della Croce dove il figlio è nel Padre e il Padre nel figlio) che si manifesta come relazione. Possiamo distinguere nell’opera d’arte la mano dell’artista, i suoi atti singoli, la processualità, dall’intero che s’impone allo sguardo, all’ascolto? Possiamo isolare i frammenti di operatività che compongono l’insieme e che nell’insieme sono fungenti, contenuti, secretati? L’’esperienza estetica si offre come nuova innocenza in quanto recupera una visione olistica e, nel linguaggio di Panikkar, il segno di una cosmovisione  che ricapitoli il reale nelle sue forme essenziali, un una permanenza che ha in sé l’emersione. Ciò che emerge e trova la via della luce (come l’opera d’arte che affiora dal lavoro del suo autore) ha dietro di sé le tracce, le ombre dentro le quali ha abitato come intenzione e travaglio, come vita germinale e aurorale.

      Questa dimensione preriflessiva ha in sé l’elemento simbolico e si decentra continuamente rispetto ad un punto centrale di riferimento. Diciamo che la nuova innocenza rifiuta geneticamente un ordinamento sia causale che spaziale. La sua a-spazialità e immediatezza, la sua gratuità estrema per cui essa non viene finalizzata che all’atto del puro operare, l’avvicina alla tematica fenomenologica dell’epoché non come tecnica filosofica, ma stile etico e disposizione dello sguardo.

La nuova innocenza è allora un vedere non solo le cose stesse ma oltre le cose stesse che restano incagliate nel sapere categoriale. La bellezza è un flusso di vita molto prima di approdare ad un concetto e ad una forma. Dio non esiste in quanto ente che promette il Paradiso, finalizzato ad una visione premiale. Il contemplativo, l’uomo estetico lo cercano e lo vedono non come termine di arrivo, punto di conclusione della vita, come la bellezza non è un risultato ultimo dell’affannoso operare. Panikkar legge così e riporta alcuni penetranti versi, pur se antichi e lontani da noi:

                        no me mueve, mi Dios, para quarerte

                        el ciel que me tienes prometido7.

 

     Il momento innocente, come momento kairologico della coscienza, si manifesta in un atteggiamento di  non-appropriazione del cosmo.  Dopo averlo conosciuto e fatto proprio in una logica di dominanza servitù/signoria codificata nello schema della figura hegeliana  e marxiana,  l’uomo deve perderlo, perché nella perdita si ricompia l’abbraccio in-nocens – che non nuoce -  con il Tutto. Una nuova estetica si porge come ecosofia che non può non misurarsi con questo assunto: uomo e mondo non si contrappongono in uno schema bipolare  dominatore/dominato, ma si riconoscono in una simbiosi feconda per cui l’uno implica l’altro. Non può esserci bellezza, e armonia nell’uomo se esse non regnano nella Terra. Non può l’uomo progredire se peggiora il suo legame con il mondo, se si determina un vulnus nella costituzione  della natura. Un mutamento profondo, una metanoia e conversione radicali devono avvenire nella mente dell’uomo e nella responsabilità morale, raccogliendo  i frammenti delle tante sapienze dispersi e dimenticati del mondo nel ricomporsi di una nuova cosmovisione, che non sia solo lo specchio per l’uomo del suo potere che è anche potere di distruzione. Non solo le guerre, ma anche il continuo affannarsi per un progredire meramente materiale che introietta una cultura di appropriazione. La stessa bellezza non si conquista, ma la si contempla a distanza come volto del mondo. Essa è figlia del momento innocente che sempre deve riaprirsi  come telos del mondo, fragile e irreale e per questo più vero.

 

Per questo motivo nessuna soluzione puramente tecnica potrà essere risolutiva, anche se auspicabile. Dovrebbe risuonare una nota di ammonimento contro la tentazione dittatoriale e totalitaria di reprimere il dinamismo umano e la libertà personale con mezzi puramente esterni, coercitivi e artificiali. Si deve invece trovare un ordine ontonomico che prenda in considerazione il problema nella sua globalità, senza ignorare le esigenze fondamentali delle ontologie regionali.8

 

    

    La bellezza non può configurarsi come mera ontologia regionale, secondo la definizione husserliana di una scienza definita entro un ambito categoriale; essa infatti trascende gli ambiti specifici entro cui sorge e inizialmente si manifesta, porgendosi come idea. L’idea è sempre più grande delle forme e richiede una trasmutazione, un terzo occhio che decentri lo sguardo appesantito dall’abitudine che ci impedisce di vedere l’insieme,  imprigionandoci nel particolare. I fondamenti di un’estetica in Raimon Panikkar sembrano ripercorrere i passi di un cammino fenomenologico: per vedere bisogna in qualche modo aver cancellato o “messo tra parentesi” ciò che si è depositato e sedimentato nella vecchia visione,  ciò che ha perso vitalità, si è cristallizzato. Contempliamo il volo degli uccelli e il fiorire dei gigli, come ci viene ricordato nei Vangeli (Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai,  Mt, 6, 26; osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano, Mt, 6, 28). Essi si offrono a noi in una percezione non strumentale come parti di un universo coesteso e sintetico, icone di uno scenario che li comprende e assieme li trascende. Il solo occhio fisico centrato su di essi ci impoverisce del profumo del mondo. Occorre una fondazione profonda e radicale del vedere ed anche dell’agire, di un’estetica e di un’etica del mondo perché non si può percepire il bello se non in un’anima bella:

 

Contemplare i gigli non è considerarne lo sviluppo e concludere che non occorre far loro nulla. Tanto meno è prenderli soltanto come un esempio. Guardare i gigli può servire per liberarsi da un’angoscia: questo però  in realtà non è guardare. Guardare è, prima di tutto, un atto primario. Per guardare bisogna essere acquietati (samata – calma, riposo .. direbbero i buddhisti), non sentire angoscia di niente, così da essere in condizione di osservare.9 

 

     Estetica ed etica non danno luogo a due saperi separati, perchè lo stesso esercizio etico dell’osservare, liberato dalla incrostazione mondana, è anche atto estetico di purificazione. C’è qualcosa di ascetico nella riduzione fenomenologica, che è ben altro di una tecnica, di un gesto esteriore. Essa configura l’operare di uno sguardo innocente sul mondo e nel mondo che ce lo restituisce come per la prima volta e pur sempre ci chiama a consegnarsi ad esso. La grande distanza man mano si annulla perché verticale e orizzontale si sono incontrati mediante una introiezione:

 

Conoscere i gigli è anche diventare giglio – chiaramente non per transunstaziazione. Già disse Aristotele: “Psychè panta pos” che gli scolastici tradussero: “Anima quodammodo omnia” . Questo non sarà possibile se abbiamo paura di perdere la nostra identità e diventare pianta, anche se si tratta di un bel fiore. Noi siamo più di un fiore, come il testo evangelico ci ricorda. Non parliamo di una “partecipazione mistica”, romantica né di una identificazione prelogica amorfa. Quanto più siamo l’altro, tanto più siamo noi stessi. 10

 

     E’ qui posto, anche se solo sfiorato, il tema dell’empatia su un piano etico ed estetico, prima che gnoseologico11. Siamo ciò che ci apriamo ad essere e a far entrare in noi e tanto più siamo in quanto ci allontaniamo dall’identità, dal combaciare di essere ad essere. Vedere- contemplare-agire non si separano se non come verbi di un processo che è in atto: “Noi siamo spettatori, attori e autori della realtà non quando siamo soli, ma quando siamo in solidarietà, vale a dire quando siamo integrati. Un modo di conseguire questa integrazione e uno dei suoi riusultati (l’upaya, anupaya dello sivaismo del Kashmir) è guardare e osservare i gigli”12.


 


1 R.Panikkar, La nuova innocenza, testi scelti e riveduti dall’autore dalla prima edizione in tre volumi (1993, 1994, 1996), con la collaborazione di Milena Carrara Pavan, Servitium editrice, Gorle (BG), 2003, p. 83.

2 R. Panikkar,  La realtà cosmoteandrica, a cura di Milena Carrara Pavan, Milano, Jaca Book,, 2004 , p. 93. D’ora in poi riportato con la sigla RC.

3 NI, cit., p.  51.

4 p. 49.

5 R. Panikkar,  Mito, Fede ed Ermeneutica, traduzione dall’inglese di Silvia Costantino, edizione italiana a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano, 2000, p. 251.

6NI, cit. p. 40. “ 1. Il cielo, in alto, per i credenti: 2. la storia che ci sta davanti, per i progressisti; 3. il lavoro da fare, per  i pragmatisti; 4. la conquista delle cose grandi, per gli intelligenti; 5. il desiderio di successo per tutti”. Panikkar chiama questi cinque punti,  incentivi posti a cardine della società occidentale  e messi radicalmente in discussione dallo spirito contemplativo.

7 “Non mi muove, mio Dio, ad amarti / il cielo che mi hai promesso”. Il testo in lingua casigliana è anonimo per sfuggire all’Inquisizione. Potrebbe risalire anche a Santa Teresa (Cfr. NI, cit. p. 43, nota 14).

8 RC, cit., p. 76.

9 NI, cit, . p. 107.

10 p. 107.

11 Su questo argomento vedasi l’ampio studio di Edith Stein. Il problema dell’empatia, a cura di Elio Costantini e di Erika Shulze Costantini, prefazione di Angela Ales Bello, Edizioni Studium, Roma, 1998.

12 NI, cit., p. 109.

 

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