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SCENDERE DALLA TIGRE (SENZA FARSI MANGIARE). SVILUPPO, SOPRAVVIVENZA, PLURALISMO NEL PENSIERO DI RAIMON PANIKKAR

Cornelia Dell’Eva

 

 Sopravvivere allo sviluppo: verso un pluralismo economico è il titolo del Convegno che si è tenuto a Città di Castello il 14 ed il 15 settembre. Il tema principale era l’economia, ma il fatto stesso che tra i relatori comparisse il nome di Raimon Panikkar prometteva una discussione che avrebbe spaziato oltre gli angusti limiti tecnici del linguaggio economico.

Panikkar è un filosofo indù-spagnolo, figlio di madre spagnola e cattolica e di padre indiano ed induista. Si può dire che l’incontro tra le culture e la passione per il dialogo tra esse sia in qualche modo iscritto nel suo patrimonio cromosomico. La sua doppia appartenenza all’Oriente ed all’Occidente ha segnato profondamente il suo lavoro teoretico, e gli ha permesso di contribuire con opinioni originali ed inedite alla discussione a proposito delle dinamiche culturali che l’incalzante globalizzazione sta avviando.

 

 Il terrorismo dello sviluppo

È ormai opinione comune che i grossi problemi del mondo non possano trovare soluzione semplicemente a livello politico, perché la politica stessa deve sottostare a leggi e regolamenti dettati dall’economia; essa impregna la nostra vita, ed è a sua volta impregnata dalla nostra cultura e dalla nostra storia.

L’intervento iniziale di Raimon Panikkar ha avuto innanzitutto la funzione di allargare l’orizzonte del convegno: egli non si è preoccupato di definire come funziona l’economia oggi, preferendo piuttosto definire l’oggetto della discussione, ovvero rispondere alla domanda "di che si tratta?". Parlando di economia si è portati a pensare ad un semplice movimento di merce e di capitali, e non ci si accorge che il senso stesso della vita gioca un ruolo importante in questa discussione. Dimenticarsi di questo significa cadere nella schizofrenia.

Storicamente l’economia ed il commercio sono stati importanti motori dei contatti tra le culture; spesso gli scambi economici si sono trasformati in scambi anche culturali, basti pensare al processo di ellenizzazione del mondo romano o agli elementi orientaleggianti di cui si è arricchita l’architettura delle antiche repubbliche marinare.

Oggi tutto è diventato più veloce ed automatizzato, tanto che gli scambi commerciali non favoriscono più l’incontro tra gli uomini1. Inoltre la civiltà occidentale, forte di una fiorente economia, minaccia di assorbire le più deboli culture dell’America Latina, dell’Africa, dell’India, dell’Asia.

La globalizzazione, di cui si sente sempre più parlare, non corrisponde, secondo Panikkar, a nulla di positivo; pensare ad un governo mondiale, ad una moneta mondiale, ad un sistema mondiale, rientra in un fenomeno che Panikkar non esita a definire "terrorismo dello sviluppo".

Veicolo primo del dialogo è la parola; l’analisi culturale di Panikkar fa spesso riferimento all’analisi linguistica, nella convinzione che ogni cultura si esprima innanzitutto nella lingua di un popolo. Ogni lingua sottende un vero e proprio universo di pensiero e di storia; lo studio delle parole porta spesso a constatare che esse dicono molto di più del loro significato. Per fare un esempio: probabilmente non è un caso che il Sole, che splende alto e forte sul Mediterraneo sia di genere maschile in italiano, mentre venga tradotto in tedesco con il termine "die Sonne", di genere femminile, più adatto ad evocare l’immagine del pallido Sole che fa capolino sulla zona mitteleuropea (la stessa differenza di genere si riscontra per il termine Luna, in tedesco "der Mond").

Nell’ambito della sua riflessione sull’economia Panikkar si è soffermato sulle tre parole contenute nel titolo del convegno: "sviluppo", "sopravvivere" e "pluralismo".

Il punto di partenza è stato l’interrogativo riguardo al perché dell’inaudito successo di questa parola. Tutto il mondo è destinato, quasi obbligato a svilupparsi, come mai? Secondo Panikkar si può parlare di mitizzazione dello sviluppo, che affonda le sue radici nella storia del pensiero occidentale. "Lo sviluppo non avrebbe avuto questo successo se non ci fossero stati in Occidente Parmenide, Aristotele, San Tommaso. L’idea centrale di Aristotele sta nel dunameion, l’energia, potenza ed atto. Le cose hanno una potenzialità, che deve essere attualizzata"2 Questo principio si è trascinato attraverso i secoli, e se ne trovano tracce fino nella fisica di Einstein, così come nel pensiero evoluzionista. A livello teologico questo meccanismo ha portato a pensare alla creazione come ad un atto avvenuto nel passato, "tradendo così la migliore tradizione scolastica che sosteneva, invece, l’idea della creatio continua".

Per la cultura occidentale il tempo è lineare, parte da un determinato punto e prosegue sempre nella stessa direzione; e mentre il tempo scorre le civiltà si evolvono, l’homo erectus lascia il posto all’homo sapiens, all’età del ferro succede l’età della pietra, la stampa si sostituisce ai manoscritti, e poi arrivano il telefono, il televisore, il computer, Internet...; la storia del mondo si svolge come un’incessante corsa che porta l’uomo da un punto più basso ad uno più alto, dal caos alla forma. I mezzi che l’uomo ha a disposizione oggi sono più veloci, più semplici, più redditizi di una volta, "ma - ci mette in guardia Panikkar - non sono più fatti per migliorare la vita dell’uomo".

Ciò di cui l’Occidente deve rendersi consapevole è che l’idea di sviluppo è monoculturale; ci sono concezioni, come quella di tempo lineare, che gli occidentali hanno talmente interiorizzato da far fatica ad immaginarsi concezioni diverse da questa. Il fatto che alcune popolazioni facciano uso della medesima parola per esprimere il concetto di "ieri" o "domani" lascia tuttavia intendere che esistono altri approcci alla realtà, altre categorie a cui far riferimento. "L’essenza del colonialismo - dice Panikkar - sta proprio in questa incapacità della cultura occidentale di riconoscere la propria contingenza".

Un altro principio filosofico - esistenziale su cui si fonda la storia del pensiero occidentale è il principio di non contraddizione; cominciando da Parmenide e proseguendo con Aristotele, per giungere sino ai giorni nostri, la filosofia occidentale ha costruito un sistema teoretico basato su questa semplice regola logica, che ognuno di noi non esita a riconoscere come legittima, quasi ovvia. Nella teologia questo pensiero si è tradotto nella concezione di Dio come essere onnisciente; conoscere tutto il conoscibile è il più alto grado di perfezione che l’uomo occidentale può immaginarsi. "E ciò che non è conoscibile?" si chiede Panikkar, e spiega che "nell’uomo esiste una dimensione che sfugge alla logica; la consapevolezza va oltre l’intellegibilità. Quest’altra dimensione, ormai dimenticata dall’uomo occidentale, è ancora molto presente in altre culture".

 

 Dialogo e pluralismo

Ciò che Panikkar propone è un dialogo tra le culture, in una prospettiva di "mutua fecondazione"; deve trattarsi, però di un vero dialogo3, che dia spazio e dignità ad entrambi gli interlocutori. Già in una conferenza del 1983 aveva messo in luce la differenza che esiste tra il dialogo dialettico ed il dialogo dialogale: il primo è un dialogo meramente di vincitori e vinti sul piano della dialettica; il secondo

sarebbe quel dialogo in cui io vado là non tanto per vincere o per convincere, ma per farmi vedere dall’altro, in modo che sia l’altro quello che scopre i miei presupposti (...) Il dialogo dialogale è quello che mi toglie questa specie di ingenuità di pensare che quello che è valido per me è valido per tutti. Scoprire che anch’io, io il cristiano, io il buddista, io il moderno, io lo scienziato, io qualsiasi altro tipo, ha presupposti non analizzati che io non posso vedere e che ho bisogno dell’altro perché me li scopra4.

Non dunque globalizzazione, che significa eliminazione delle differenze, ma incontro tra culture diverse, consapevoli delle proprie peculiarità.

Che cosa accadrebbe se noi semplicemente smettessimo di affannarci a costruire questa tremenda torre unitaria? Che cosa, se invece dovessimo rimanere nelle nostre belle piccole capanne e case e focolari domestici e cupole e incominciassimo a costruire sentieri di comunicazione (invece che solo di trasporto), che potrebbero col tempo convertirsi in vie di comunione, fra differenti tribù, stili di vita, religioni, filosofie, colori, razze e tutto il resto? E anche se non riuscissimo ad abbandonare il sogno del sistema monolitico della Torre di Babele che è diventato il nostro incubo ricorrente, questo sogno di un’umanità unitaria non potrebbe essere soddisfatto costruendo semplicemente strade di comunicazione piuttosto che un gigantesco impero, vie di comunicazione invece che di coercizione, sentieri che possono condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti nello stesso sacco, nello stesso culto, nella monotonia della stessa cultura?"5

Solo partendo dal dialogo dialogale è possibile parlare di pluralismo. Nel momento in cui si accetta la contingenza della propria cultura e ci si rende consapevoli del fatto che non esiste una verità unica, si può aprirsi all’Altro. "Il pluralismo è molto più della tolleranza; nasce dalla consapevolezza dell’inconciliabilità tra le culture e dell’irriducibilità dei sistemi".

Altrettanto importante per Panikkar è puntualizzare che le culture non sono folklore; l’America ed il Quebec si definiscono multiculturali per il fatto che ospitano ristoranti e negozi tipici di altre culture, ma non c’è nulla di più falso: non è pensabile ridurre le culture a queste loro manifestazioni. Ogni cultura ha valori diversi, e questi si traducono in comportamenti diversi nei rapporti tra le persone, in differenti concezioni dell’umano e del divino, in diverse percezioni del tempo e dello spazio e, non da ultimo, in differenti sistemi economici. Pluralismo, multiculturalità, significa tenere in considerazione queste differenze e lasciare loro lo spazio di esprimersi.

Lo stato attuale delle cose è ben lontano dalla prospettiva del dialogo dialogale: l’occidente ha imprigionato il resto del mondo nella logica dello sviluppo, pretendendo da esso un’evoluzione uguale alla propria, e stigmatizzando gli altri paesi con espressioni come "paesi sottosviluppati" o, nella migliore delle ipotesi, "paesi in via di sviluppo". Non c’è scampo: la strada è quella segnata dal mondo occidentale, e tutti ci arriveranno, chi prima chi dopo.

Secondo Panikkar, tuttavia, l’attuale modello di sviluppo è da tempo in crisi. Un sistema economico come quello che va conformandosi denuncia da sé la propria inadeguatezza, per il fatto di prevedere la miseria di gran parte del pianeta come condizione per il benessere di pochi privilegiati. Sembra inoltre che lo sviluppo sia stato investito da un alito vitale, che lo ha reso in qualche modo autonomo dall’uomo; non è più uno strumento di cui l’uomo si serve per migliorare la propria vita, è un essere a sé stante che ha come primario obiettivo la propria conservazione. Panikkar ha definito lo sviluppo come una tigre sulla cui groppa l’uomo è seduto, assolutamente impotente di fronte alle decisioni della belava. "La grande sfida è quella di riuscire a scendere dalla schiena della tigre senza farsi mangiare".

La risposta sta in una trasformazione radicale del senso della vita; sta nel passaggio da una relazione di interdipendenza ad un rapporto di "interindipendenza", in cui il dialogo avviene tra uguali. È inoltre necessario recuperare la dimensione umana, da tempo persa tra gli ingranaggi della tecnica; bisogna rendersi conto dell’impossibilità di conoscere la realtà al di là dell’uomo.

 

Achille Rossi6, personalità centrale per quanto riguarda la diffusione del pensiero panikkariano in Italia, definisce Raimon Panikkar "un autore le cui formulazioni spesso esercitano sui lettori irritazione o fascino, e talvolta tutt’e due insieme. Irritazione, perché il suo pensiero, nutrito dalla frequentazione di mondi che non sono il nostro, provoca una destabilizzazione sconvolgente dei nostri schemi; fascino, perché non si può fare a meno di riconoscere che esprime un patrimonio di saggezza umana carico di speranza"7. Credo che queste poche parole descrivano alla perfezione la posizione di qualsiasi uomo che capisca la necessità ed il valore di un dialogo interculturale: si trova in bilico tra la curiosità e la paura del contatto con l’Altro.

 

Riguardo alla riflessione di Panikkar sulla tecnologia rimando ai seguenti testi: Raimon Panikkar, L’émancipation de la technologie, "Interculture", 5(1984), pp. 22-37; Raimon Panikkar, La vittoria non porta mai alla pace, in Pace e disarmo culturale, L’Altrapagina, Città di Castello 1987; Achille Rossi, Pluralismo e armonia. Introduzione al pensiero di Raimon Panikkar, L’Altrapagina, Città di Castello 1990, pp. 57-59, 206-208.

2 Tratto da una registrazione del convegno di quest’anno; gli atti dello stesso convegno saranno editi prossimamente da L’Altrapagina, Società cooperativa editoriale di Città di Castello.

3 Etimologicamente la parola dialegomai (dialogo - verbo) è formata da lego (dico, parlo) e dalla particella dia (prep. con il genitivo che significa attraverso, per; esprime il complemento di moto per luogo) che aggiunge dinamicità al concetto di logos, e lo trasporta in una dimensione relazionale.

4 Per un dialogo delle civiltà, conferenza di Raimon Panikkar tenuta a Città di Castello il 22 settembre 1983; il testo di questo intervento è contenuto in un fascicolo a cura di "L’Altrapagina".

5 Raimon Panikkar, La Torre di Babele, Ed. Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1990, p. 10.

6 Achille Rossi, nato a Città di Castello (Pg), laureato in filosofia, licenziato in teologia e diplomato in scienze religiose, esercita l’attività di animatore giovanile.

7 Achille Rossi, Pluralismo ed armonia. Introduzione al pensiero di Raimon Panikkar, Ed. L’Altrapagina, Città di Castello 1990.

 

 

Da: http://www.il-margine.it/archivio/1996/g8.htm

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