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Il compito della filosofia nel pensiero di Raimon Panikkar (Paolo Calabrò)
Introduzione Raimon Panikkar (Barcellona, il 3 novembre 1918), sacerdote cattolico, è autore di più di quaranta libri e di diverse centinaia di articoli. Laureato in filosofia (Madrid, 1946), chimica (Madrid, 1958) e teologia (Roma, Pontificia Università Lateranense, 1961), ha insegnato, dal 1967, religione comparata ad Harvard e storia delle religioni e filosofia della religione all’università di Santa Barbara, in California. Attualmente vive a Tavertet, in Catalogna, quando la sua attività di studioso non lo porta in tutto il mondo in occasione di convegni e conferenze[1]. Anche se, riguardo a lui, il termine “studioso” va chiarito: Panikkar, la cui filosofia è tutta tesa all’integrazione delle diverse dimensioni della realtà (così si intitola proprio un suo vecchio saggio, recentemente pubblicato in italiano nel volume La realtà cosmoteandrica), ha sempre abbinato la prassi alla teoria, la contemplazione all’azione, lo sforzo intellettuale all’impegno politico (all’interno dell’Unesco[2], o come membro, ad esempio, del tribunale permanente dei popoli[3]). In questo senso per Panikkar la filosofia sfocia direttamente in uno “stile di vita”, in un modo di essere che non si riduce né a “pensare bene” né a rispettare esteriormente un certo codice morale “come se” fossimo buoni, in un “saper vivere” che è saggezza, perché appartiene all’uomo per intero, il quale non è né solo corpo, né solo spirito, né solo intelletto. Concezione che affonda le radici in una ben precisa metafisica ed estende le sue propaggini fino al dialogo come esigenza di una filosofia che non sia illusione di poter abbracciare con la propria mente l’intera realtà e che ha un compito ben preciso: disarmare la ragione. Si tratta – come cercherò di mostrare – di un motivo fondamentale in Panikkar, presupposto dell’intera sua filosofia, nonostante quasi tutta la letteratura che è possibile trovare sul suo pensiero sia concentrata sulle conseguenze: il dialogo tra le religioni e le culture, la pace, la cristologia[4]. Nessuno di noi può infatti eludere l’eterna domanda “che fare?” (anche se spesso posta nella forma del negativo “che ci posso fare?”), e nessun “filosofo” può evitare di confrontarsi con una filosofia che chiama ad uno stile di vita e ad un compito ben preciso, qui ed ora. Lo sviluppo di questi temi, all’interno della cornice dell’intera metafisica di Panikkar, che sola consente di dar loro il corretto ed originale significato che qui acquisiscono, è quanto mi propongo nelle pagine che seguono.
Pensare ed essere Il pensiero occidentale degli ultimi venticinque secoli si è sviluppato a partire dall’identità parmenidea tra pensare ed essere. Questa impostazione, che ha presupposto l’intelligibilità dell’intera realtà, ha affidato alla ragione il compito di esaurire la conoscenza di ogni aspetto del reale. Le premesse c’erano tutte affinché, dopo Bacon e Descartes, la scienza moderna (i cui scopi sono diventati ben presto gli scopi della tecnologia) potesse appropriarsi del mondo come di una riserva di materiale a disposizione dell’uomo. Infatti, se l’intelligibilità è totale, e tutto può essere compreso, abbracciato dal pensiero, tutto diventa “oggetto” di comprensione, ed ogni cosa perde qualsiasi libertà ed iniziativa proprie al di fuori degli schemi del pensiero. Ciò che appare ormai scontato (ma non è sempre stato così, almeno fino al Rinascimento[5]) nel caso della materia (la scienza ritiene infatti di essere talmente in grado di prevedere il comportamento della materia – si può anche dire: la materia ha talmente poca iniziativa e libertà – che l’uomo può costruire ponti e grattacieli secondo i propri calcoli: i quali, a conferma di quanto detto, non cadranno), ma che in maniera più subdola, proprio a causa della pretesa di possedere uno sguardo più penetrante, avviene anche riguardo all’uomo: ciò che si vede nella tendenza a considerare l’altro a partire dalle nostre categorie, trascurando il fatto che così si potrà conoscerlo solo come oggetto della nostra conoscenza e non come soggetto di autoconoscenza, cioè come egli conosce se stesso. La conseguenza della pretesa di totale intelligibilità dell’essere è quindi che tutto è oggetto, e tutto può essere trattato come tale[6]. Si possono riassumere alcuni tra i peggiori risultati di questo indirizzo teoretico (se ne parla soltanto da un punto di vista descrittivo, non è questo il luogo per valutarne le implicazioni morali) in uno sfruttamento intransigente e sfrenato delle risorse naturali[7]. Tuttavia, l’ingenuo ottimismo alla base di questo atteggiamento, incentivato dal successo ottenuto finora nel dominio sulla natura, di fronte alla constatazione che le possibilità di sviluppo non sono illimitate, sta crollando: «Ci sono ormai 300 milioni di macchine sul pianeta, ma 300 milioni su 5.300 milioni di uomini è ancora una proporzione accettabile. Immaginate cosa accadrebbe con 5.300 milioni di macchine o con 5.300 milioni di aerei privati: evidentemente non c’è posto per tutti. Questo mi porta alla formulazione della legge quasi tragica, che qui semplicemente enuncio, dell’incompatibilità tra il progresso tecnologico macrosociale e quello microsociale. Qualsiasi progresso tecnologico positivo a Città di Castello si ripercuote negativamente in qualche altra parte del mondo»[8]. È oggi evidente che la tecnologia non offre a tutti le stesse possibilità, il che è in aperto contrasto con le tendenze all’omogeneizzazione (a volte chiamata globalizzazione) che l’Occidente ostenta in tutti i campi: non passa giorno senza che uno dei portavoce degli Stati Uniti (ma non solo) non dichiari quanto sia bello e giusto e saggio esportare dappertutto democrazia, tecnologia, libero mercato. Tale posizione è dunque piuttosto problematica: la coscienza moderna, secondo Panikkar, sente che non è più possibile trincerarsi dietro i propri confini nazionali o dietro obsoleti sensi di appartenenza razziale, politica o religiosa, e che ogni conquista dell’umanità deve essere realmente globale e umana, nel senso di aperta e accessibile a tutti[9]. Tuttavia, non ci si può limitare all’analisi di questo o quell’aspetto del problema, che è solo una conseguenza. Ed infatti la critica di Panikkar non si ferma qui. Per essere radicali c’è bisogno di ripensare i presupposti di tutto questo. Panikkar comincia con il chiarire che l’essere non ha nessun motivo di seguire il pensiero e di assecondarne le leggi (dal principio di non contraddizione a quelli della fisica): «L’essere, in definitiva, deve essere liberato da regole logiche prestabilite. È vero che il pensare è diretto all’essere, a ciò che è [ma] l’essere o realtà trascende il pensare. Può espandersi, saltare, sorprendere se stesso. La libertà è l’aspetto divino dell’essere. L’essere ci parla: questa è un’esperienza religiosa fondamentale consacrata da più di una tradizione. E sentire l’“essere” è più che pensarlo»[10]. In questa prospettiva, dunque, non solo il pensiero «non può dirci se abbraccia completamente la totalità dell’essere»[11], ma si rende ben conto che «l’Essere non si identifica con il pensiero»[12] e che «la consapevolezza è superiore all’intelligibilità; insomma, io mi rendo conto di qualcosa che non capisco»[13]. In breve: l’ontologia non coincide con l’epistemologia.
Critica dell’universalità Uno dei punti deboli del pensiero filosofico e scientifico moderni, per Panikkar, è dunque l’assunzione acritica ed onnipervasiva dell’identità parmenidea fra pensare ed essere[14]: «L’essere è il pensare: è il pensare che ci dice quello che l’essere è. Questo pensare, quando va in profondità nell’ordine qualitativo, viene chiamato “filosofia”; quando è più in termini quantitativi, si chiama “scienza”»[15]. In base a questa considerazione, in riferimento al pensiero filosofico e scientifico moderni, ove non diversamente specificato, utilizzerò l’espressione “pensiero moderno”. Un altro dei punti deboli del pensiero moderno è l’idea di universalità della ragione, secondo la quale la ragione è uguale dappertutto, perché in ogni angolo della terra vale il principio di non contraddizione, così come dovunque vale l’uguaglianza 2 + 2 = 4. Ma al di là del fatto che, come si è visto, il principio di non contraddizione non può essere estrapolato dal pensare all’essere, Panikkar afferma: «Io contesto anche il fatto che due più due faccia quattro dappertutto: due e due fa quattro soltanto dove il due e il quattro non significano niente»[16]. Ciò che diventa evidente nel caso dei valori culturali: non ci sono valori che valgono universalmente (per tutte le culture) né in eterno (all’interno di una singola cultura)[17]. Esistono certamente valori “interculturali”, cioè valori che sono validi in diverse culture, ma non ne esistono di “trans-culturali”, cioè valori che stanno al di sopra di tutte o di alcune culture, senza appartenere specificamente a nessuna di esse. Ogni valore è legato inevitabilmente quantomeno a una cultura[18]. Del resto, è facile osservare che le diverse culture non si pongono le stesse domande e spesso, alla stessa domanda, danno risposte differenti. Si può concludere con una battuta significativa dicendo che l’universalità non è universale. Panikkar, anzi, diffida della tendenza ad universalizzare e considera l’idea di universalità come l’erronea totalizzazione di un’esperienza parziale[19]. Non si può andare al di là della propria cultura di riferimento: non esistono prospettive che consentano di osservare la realtà “dal di fuori”[20]. L’esistenza di filosofie che, nonostante tutti gli sforzi possibili, continuano a essere mutuamente incompatibili, ci pone allora nel dilemma di censurare tutti gli altri sistemi, eccetto il nostro, o di riconoscere la radicale incapacità della nostra mente ad avere uno schema di intelligibilità universalmente valido e, pertanto, applicabile all’intero spettro dell’esistenza umana. Ciò rafforza il sospetto, prima denunciato, che l’intelletto umano, o forse l’intelletto in quanto tale, non sia lo specchio perfetto dell’intera realtà o, con altre parole, che la realtà non sia totalmente trasparente per l’intelletto, ma possa avere zone d’ombra.
Il mito e il simbolo: l’approccio alla realtà È necessario a questo punto soffermarsi su due nozioni che sono a fondamento della visione che Panikkar ha della realtà e del nostro modo di avvicinarci ad essa: il mito e il simbolo. Cominciamo con il definire la prima: «Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; [...] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati»[21]. Il mito è un sostrato indispensabile al pensiero, solo grazie ad esso è possibile evitare il regresso all’infinito nell’ambito della nostra ricerca dei fondamenti di ogni cosa; più indietro non si può andare[22]. Il mito, dunque, del quale diventiamo coscienti solamente nel corso dell’incontro con l’altro, attesta tutta la limitatezza delle nostre aspirazioni all’universalità[23]. Viviamo nell’epoca dell’oggettività e della democrazia. Questi sono i miti dominanti. La nostra civiltà ha soppiantato il mito della superiorità della razza bianca (che ha sostenuto la schiavitù istituzionalizzata in epoche non lontane da noi: ed allora la cosa non sembrava tanto terribile ai più, così come non appariva scandaloso alla maggioranza dei greci dei primi secoli a. C.) con quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini[24]. La democrazia si fonda su questo. È cambiato il mito, ma non ci siamo liberati del mito in quanto tale. Liberarsi dal mito è un’operazione impossibile[25]. Per questo Panikkar scrive: «Ogni demitizzazione porta con sé una rimitizzazione. Noi distruggiamo un mito – e giustamente, se quel mito non risponde più allo scopo – ma in un modo o nell’altro subentra sempre simultaneamente un nuovo mito. L’uomo non può vivere senza miti»[26]. Che la realtà sia oggettiva, che una parte possa essere isolata dal resto cui è relazionata e considerata “di per sé”, che il tutto sia uguale alla somma delle parti, come voleva Descartes, sono tutti miti[27]. Un certo mito può essere più o meno condiviso (anche, al limite, da tutta l’umanità, in un dato momento storico) ma mai definitivo (chi o cosa, infatti, potrebbe darne assicurazione?). Il che ci porta a concludere che un pensiero onnicomprensivo, puro, libero da qualsiasi pregiudizio… non esiste. Un pensiero che abbracci tutto, che abbracci cioè anche colui che pensa ed il mito stesso che lo rende possibile, non può esistere in alcun modo. Utilizzando per un attimo il linguaggio della matematica, potremmo dire che il mito è un “limite inferiore” per il pensiero. Detto invece con un’espressione più volte utilizzata da Panikkar, la realtà presenta un aspetto “opaco” al pensiero. La realtà non può essere esaurita dal pensiero (il pensiero non può cioè comprenderla interamente, in maniera esaustiva), proprio perché il pensiero – ancorato al mito – non ha una capacità di penetrazione “assoluta”, ma lascia sempre qualcosa al di fuori del proprio abbraccio. L’incontro tra il pensiero e la realtà, da cui scaturisce la conoscenza, rivela l’eccedenza della realtà rispetto al pensiero della quale stiamo parlando, mostrandoci che il pensiero e l’essere non coincidono, perché il pensiero non è tutto ciò che c’è e di questo ci si accorge anche tramite quel “limite inferiore” che il mito costituisce per il pensiero, e che noi con Panikkar chiameremo anche ciò che è “impensato”[28]. Il pensiero non è tutto, quindi. Sottolineando però che Panikkar non criminalizza la posizione appena descritta, né propone un rifiuto totale del logos: «Si tratta precisamente di questo, non d’auto-sacrificio del λόγος, ma sì del bisogno di far scendere il λόγος dal trono dove l’ha messo la parte predominante della cultura occidentale lungo 25 secoli»[29]. Veniamo ora alla definizione di “simbolo”: il simbolo rappresenta l’intera realtà come appare e si manifesta attraverso la sua struttura molteplice. Un simbolo è precisamente la cosa, non la “cosa in sé”, che è un’astrazione mentale, ma la cosa come appare e si esprime. Il simbolo di una cosa non è né un’altra cosa né la cosa in sé, ma la cosa stessa così come si manifesta, com’è nel mondo degli esseri, nell’epifania dell’“è”. Così Panikkar: «Il simbolo non è né un’entità puramente oggettiva presente nel mondo (quella cosa “laggiù”), né un’entità meramente soggettiva presente nella mente (in noi “quaggiù”). Non vi è simbolo che non sia dentro e per un soggetto, così come non vi è simbolo che sia privo di un contenuto specifico rivendicante oggettività. Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l’oggetto e il soggetto»[30]. Questo legame costitutivo è diretto, senza intermediari; non ha bisogno, cioè, di alcuna spiegazione: il simbolo è per me ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione. Se ho bisogno di una spiegazione, vuol dire che per fornirla dovrò appoggiarmi su un’altra cosa ancora più fondamentale (che sarà per me simbolo a sua volta). Non è possibile dare alcuna ermeneutica del simbolo: essa lo trasformerebbe in segno, in concetto[31]. Il simbolo è dunque qualcosa che “invita” alla relazione. Il simbolo è lo strumento del mito così come la ragione è il veicolo del logos[32]; i simboli sono perciò i «mattoni ultimi con i quali è costruito l’edificio della realtà»[33]. Non vi è approccio al simbolo, ma partecipazione. Esso non permette niente altro che il rapporto personale»[34]. Bisogna solo stare attenti a non identificare il simbolo con ciò che esso simboleggia: «Confondere il simbolo con il simbolizzato, equivale esattamente all’avidyā, all’ignoranza che scambia l’apparenza con la realtà. Ma la realtà è tale proprio perché “appare” reale»[35]. Concludendo: mito e logos vanno di pari passo, non si dà l’uno senza l’altro e non c’è modo per l’uomo di conoscere alcunché senza l’ausilio di entrambi: ciò che, come si vedrà nel seguito, costituisce la base del pluralismo[36].
Critica della “cosa in sé” e dell’oggettività La visione del mondo attualmente dominante è ben nota: il mondo è costituito da un insieme di oggetti, ciascuno dei quali è una “cosa in sé”, legato a tutto il resto degli esseri in maniera accidentale. Per Panikkar questa posizione, che egli definisce “criptokantismo”, è sbagliata[37]. Non esiste nessuna “cosa in sé”. Anzi, per chiarirlo ulteriormente: nessuna cosa esiste “in sé”[38]. Il padre è padre perché c’è un figlio, ed è tale nella sua relazione con il figlio; se dalla relazione il figlio viene reciso, il padre cessa di essere tale[39]. Che la mente abbia bisogno di questa astrazione (la “cosa in sé”) per poter pensare e calcolare è fuori discussione, ma che il risultato del pensiero razionale rifletta fedelmente l’essere è non solo dubbio, proprio per quanto detto anche in precedenza, ma anche contrario all’osservazione: infatti, quelle che osserviamo non sono cose in sé, separate da tutto il resto, oggetti che esistono nel vuoto in piena autosussistenza[40]. Osserviamo invece che esistono uccelli e mari; il che non vuol dire che non potrebbero esistere gli uni senza gli altri, ma solo che – di fatto – non esistono. L’astrazione, cioè la separazione delle cose, è dunque quantomeno arbitraria. Ma il problema non è solo questo: se, infatti, a partire da quanto osserviamo nella nostra esperienza, ci rendiamo conto che nella realtà tutto è connesso a tutto, ovvero che l’essere è caratterizzato da una radicale relatività (o radicale relazionalità[41]), e che non esiste niente di assolutamente trascendente, comprendiamo abbastanza presto che non è possibile recidere i legami che una cosa ha con il resto della realtà senza alterare sia la realtà sia la cosa stessa[42]. Infatti, i legami che relazionano ciascuna cosa ad ogni altra costituiscono anche le cose stesse[43]. Ci si permette qui un ultimo chiarimento, data la centralità dell’argomento in questione e dato che il pensiero moderno, basato sull’identità parmenidea tra pensare ed essere, ha una tradizione più che bimillenaria: nel caso, ad esempio, del dialogo tra le religioni, entrambe le parti reclamano l’accesso ad una certa percezione della realtà. Ciò non implica che ci sia una misteriosa “cosa in se stessa”, ma nemmeno che una semplice opinione soggettiva sia tutto ciò che c’è. Implica invece che la mia concezione di una “cosa” appartiene alla realtà e persino alla “cosa” stessa[44]. Ma perché lo stesso sia vero per l’altro è necessario che né la mia visione né l’altra sia la realtà totale[45]. Dunque, la verità non si dà al termine di un’indagine oggettiva delle cose, ma nella relazione che si instaura fra due poli, ciascuno dei quali, “in sé” non è niente[46]. È possibile osservare quanto detto – e cioè che l’oggettività è un’astrazione, che non esiste se non nel pensiero – in ogni ambito. Panikkar è chiaro al riguardo: «L’oggettività è tale per una soggettività. L’oggettività ha un senso perché c’è la soggettività che la scopre come oggettività e come irriducibile alla soggettività. […] Qualcosa è oggettivo (faccio qui pura fenomenologia) quando si presenta, a parecchi soggetti, indipendentemente dalle differenze e dalle discrepanze tra i differenti soggetti. […] Nell’ambito di una certa cultura l’oggettività può apparire come tale quando la soggettività si è mascherata e ciò accade soltanto quando non esiste problema, quando siamo nello stesso mito. […] Il mio sforzo di relativizzare l’oggettività non è per distruggerla ma per dirigere la nostra attenzione al polo di soggettività che la costituisce»[47]. Non esistono fatti oggettivi, indipendenti da un’interpretazione degli stessi: essi possono essere visti come oggettivi solo dalla prospettiva del mito dominante, che è il mito dell’oggettività. Non si tratta solo di avere interpretazioni diverse della stessa cosa; questo è ciò che Panikkar chiama criptokantismo: la “stessa” cosa non esiste. Il fatto non è scisso (l’intelletto può operare distinzioni, ma non separazioni) dall’interpretazione[48]. Noi non veniamo a conoscenza dei fatti se non mediante le interpretazioni: non c’è altro modo di esprimerli. Anche quando si immagina di star dando conto “oggettivamente” di un certo fenomeno, magari esprimendolo secondo parametri quantitativi e formule matematiche, in realtà non si sta facendo altro che interpretare quello stesso fenomeno nell’ottica del mito della scienza[49]. Non si può saltare al di là della propria ombra.
Pluralismo «Se prendiamo sul serio l’interculturalità, non è che gli indiani, gli aztechi, i maya abbiano un’altra concezione del mondo – del nostro mondo, naturalmente, quello che è cominciato col big-bang e finirà non so come –; vivono addirittura in un altro mondo. Non è una diversa concezione dell’universo, è un universo differente. Se non si arriva fino a questo punto, credo che si rimanga ancora prigionieri delle nostre prospettive monistiche o del criptokantismo che domina in tutta la cultura moderna e tecnocratica attuale, e non solo occidentale: c’è una “cosa in sé”, cioè il mondo, sconosciuto evidentemente, di cui ciascuno ha poi la sua visione. Questa concezione è falsa: ci sono mondi diversi, universi differenti. Questo conflitto di kosmologie è la causa ultima della crisi attuale. Con una sola cosmologia, una sola concezione dell’universo, e quindi dell’uomo, non si può far fronte alle sfide attuali, non perché la mia concezione dell’uomo (l’essenza uomo, ancora una volta l’astrazione platonica) sia falsa, ma perché la realtà, in se stessa, è ancora più reale. E per il fatto di essere reale io non la posso cogliere. Se la potessi cogliere dovrei situarmi fuori della realtà, ma questa sarebbe allucinazione»[50]. Dire che esiste una sola realtà e che poi ognuno la “vede” come vuole, non è altro che una forma di prospettivismo, che lascia intatta la “cosa in sé”. Panikkar nega risolutamente questa posizione, e non perché dica non che esistano molte verità, bensì perché la realtà non è oggettiva, ma simbolica, per cui ne fanno parte anche l’altro polo della relazione e la relazione stessa[51]. La verità non è qualcosa che sta fermo in qualche posto in attesa della scoperta da parte della coscienza umana; la verità è piuttosto qualcosa che nasce dall’incontro, dalla relazione tra i due poli della stessa: la verità è «quella qualità o proprietà della realtà che permette alle cose di entrare in un rapporto sui generis con la mente umana»[52]. Al di fuori di questo rapporto, non esiste verità. Non esiste la verità di un oggetto “in sé”, proprio perché, come abbiamo visto, non esiste alcun oggetto “in sé”: la realtà è simbolica, e la conseguenza diretta di questo fatto è che la verità è pluralistica. La verità può essere condivisa solo all’interno dello stesso mito. Nel caso ad esempio del dialogo tra le religioni (di cui parlerò in dettaglio nel prossimo paragrafo), il fatto che entrambe le parti reclamino l’accesso ad una certa percezione della realtà, non implica che ci sia una misteriosa “cosa in se stessa”, ma nemmeno che una semplice opinione soggettiva sia tutto ciò che c’è. Implica invece che «la mia concezione di una “cosa” appartiene alla realtà e persino alla “cosa” stessa. Ma perché lo stesso sia vero per l’altro è necessario che né la mia visione né l’altra sia la realtà totale»[53]. Questo primo aspetto del pluralismo riguarda il profilo teoretico. Se quanto appena detto è vero (cioè se la mia concezione di una cosa appartiene alla cosa stessa e se altrettanto vale per l’altro, che vede, percepisce, concepisce la cosa in maniera diversa da me), allora sarà consequenziale concludere che nessuno può rivendicare un accesso esclusivo ed esaustivo alla verità: «Il pluralismo non consiste nel trovare un posto per tutti, ma piuttosto nell’esperienza della mia finitudine, della mia contingenza, dell’impotenza di una lingua e di una filosofia pretestuosamente universali e di una comprensione comune. Nel fare questa esperienza della nostra limitatezza, lasciamo uno spazio aperto per altre concezioni della realtà»[54]. Non si tratta semplicemente di una “debolezza” nella nostra mente – così che se noi fossimo più intelligenti potremmo pervenire ad un’unica verità teoretica sulla quale tutti gli uomini sarebbero d’accordo – ma di una caratteristica della realtà, oltre che del nostro intelletto. Né si tratta, è opportuno sottolinearlo ancora una volta) di “prospettivismo”, nel qual caso potremmo sempre arguire che, nonostante il fatto che vi sia un’altra prospettiva che vede le cose in modo differente, la nostra è quella adatta per quel particolare scopo – che è lo scopo “reale”: ammettere prospettive diverse su una questione sposta solo il problema, perché allora dobbiamo ricominciare daccapo a discutere quale sia la prospettiva giusta per quel caso particolare, e così via. Il pluralismo non è la mera giustificazione di una pluralità di opinioni, ma la percezione che il reale è più della somma di tutte le possibili opinioni»[55]. Il pluralismo parte dal riconoscimento del dato di fatto di una pluralità di sistemi di vita e di pensiero tra loro incompatibili. Lo sforzo deriva dal fatto che il pluralismo non ha dalla sua parte l’intelligibilità totale pretesa dal monismo[56]: il pluralismo è, dal punto di vista logico, impossibile[57]. Tuttavia, esso trova appoggio in uno slancio di onestà intellettuale, a partire dalla considerazione che io non posso ergermi a norma assoluta, non posso negare che, se qualcuno sostiene di vedere il mondo in un certo modo, egli non lo veda effettivamente in quel modo, e non posso neanche affermare che si sbagli: «Io non posso dire cos’è l’uomo, senza sapere quello che l’uomo pensa di sé. Ma se io penso che l’uomo sia una cosa e poi trovo l’ultima donnetta dell’ultima isola dell’ultimo arcipelago che ne dice un’altra, la mia antropologia è falsa, perché lei pensa di sé una cosa diversa e lei è tanto uomo quanto lo sono io e, a meno che io non abbia già codificato l’uomo e dica “l’uomo è questo” anche quella voce deve essere ascoltata. Questa è la base filosofica del pluralismo, che ogni essere umano, e molto di più ogni cultura, essendo autori della propria autocoscienza, ci dicono quello che l’essere umano è»[58]. Si può concludere dicendo che «il fondamento filosofico del pluralismo risiede nel pluralismo della verità: esiste la verità, ma non è unica nel senso in cui la intendiamo, perché l’uomo non la esaurisce e non ne ha il monopolio. Il monolitismo della verità non trova riscontro nella realtà, che è intessuta di una dimensione di opacità, di coscienza, di infinità. La realtà stessa è trinitaria e pluralistica. In altri termini, il pluralismo è fondato se la realtà ultima non è pura coscienza, ma vi è di più. Solo la presenza di dimensioni diverse dalla coscienza sostiene e giustifica l’atteggiamento pluralista»[59]. Tuttavia, secondo Panikkar, l’aspetto pratico del pluralismo è preminente rispetto a quello teoretico fin qui discusso[60]: «Il pluralismo non è l’accettazione, e tanto meno l’armonia, di diverse visioni; il pluralismo è trovare un ambito di tolleranza fra differenti visioni irriducibili della realtà e fra prassi incompatibili. Qui è il punto dove teoria e prassi si incontrano. Il pluralismo si dà quando si prende coscienza del fatto che ci sono due (o più) visioni assolutamente incompatibili: o l’una o l’altra»[61]. Panikkar precisa che una pluralità di stati sovrani chiusi in se stessi, che cercano di non interferire gli uni con gli altri, vivendo come se non esistesse nessun altro al di fuori di loro, non è pluralismo: il pluralismo comincia invece quando non si può fare a meno di prendere posizione di fronte all’effettiva presenza dell’altro, quando è impossibile evitare la reciproca interferenza ed il conflitto – che si delinea inevitabile – non può essere risolto dalla vittoria di una parte o partito. Problema tanto più acuto oggi, in quanto la prassi contemporanea ci getta l’uno nelle braccia dell’altro[62]. La questione non risiede quindi nel trovare un accordo razionale che accontenti un po’ tutti, nella creazione di un supersistema intellettuale all’interno del quale ognuno venga ricompreso nonostante le differenze[63]: il pluralismo non è una visione del mondo, né un concetto. Il pluralismo è un mito[64]. Che fare allora quando la situazione di fatto rende impossibile evitare la reciproca interazione e il conflitto non può essere risolto dalla vittoria di una delle parti? Questo problema va risolto con un metodo specificamente pluralistico, che per Panikkar non consiste nello sforzo per convincere l’altro e nemmeno nel procedimento dialettico, ma in un “dialogo dialogale”[65], che conduca ad una vicendevole apertura agli interessi dell’altro, alla ricerca di partecipazione in qualcosa di comune, pur senza conoscere in anticipo le soluzioni, avendo fiducia nella possibilità di ricercarle congiuntamente[66].
Dialogo È qui che si affaccia quella che Panikkar definisce “esperienza cattolica”: «Essa rappresenta la convinzione, sulla quale l’uomo moderno sta al presente aprendo gli occhi, che non possiamo trattare in modo adeguato alcun problema umano (e, in ultima analisi, alcun problema di qualsiasi genere) nell’isolamento, che il contesto adatto di ogni problema reale non si trova all’interno dei confini tracciati dalla segregazione culturale, ma nella trama universale dell’esperienza umana»[67]. L’impossibilità di stabilire un punto di vista assoluto (dato che la cosiddetta “oggettività della ragione pura”, appartenente al mito della scienza, non è condivisa da tutte le culture) ci rende consapevoli dell’insufficienza dei nostri approcci singoli alla realtà. Si forma in noi la convinzione che l’altro abbia la nostra stessa capacità di accedere a una certa percezione della realtà, altrettanto vera pur se diversa dalla nostra: «Non esiste certo una prospettiva globale. Ogni prospettiva è limitata, ma esiste sempre la possibilità di uno scambio e anche di un ampliamento di prospettive e il dialogo interculturale mira proprio a questo»[68]. È chiaro quindi che una condizione preliminare del dialogo è la fiducia nell’altro, ma non solo in quest’ultimo: più precisamente, il dialogo interreligioso «non implica solo fiducia nel vicino (impossibile senza amore e comprensione), ma anche la fede in qualcosa che ci trascende entrambi»[69]. Conseguenza diretta della convinzione che la realtà supera talmente tanto il pensiero da non poter essere racchiusa né in un singolo sistema né nella somma di tutti i possibili sistemi, per cui si può dire che «il dialogo dialogale […] va affrontato con fiducia nel desiderio comune di approfondire una Verità, una Giustizia o una Intesa che ci supera»[70]. Panikkar utilizza, per descrivere questo “qualcosa” che ci supera, il termine “trascendenza”: «C’è pneuma, spirito, dietro ogni logos. Un termine classico per questa apertura è trascendenza. E trascendenza sperimentata nel corso ordinario del dialogo. Nessun singolo partecipante, e neppure tutti i partecipanti assieme, hanno a loro disposizione l’interezza della realtà. Dialoghiamo di qualcosa che ci trascende, qualcosa di cui non possiamo disporre a piacere. C’è sempre qualcosa che fa sorgere il dialogo. Questo “qualcosa” è sotteso al potere di ogni partecipante. Si potrebbe dire che entrambi i partecipanti sono trascesi da un terzo, che lo si chiami Dio, Verità, Logos, karman, provvidenza, compassione o in qualunque altro modo. Questo “terzo”, intorno al quale il dialogo fiammeggia, impedisce ogni manipolazione da entrambi i fronti. Non siamo i signori assoluti del dialogo religioso. E la situazione è ancor più singolare in quanto qualsiasi giudice esterno è fuori discussione. Il dialogo non è una disputa cerimoniale di fronte a dei giudici»[71]. Panikkar propone di sostituire la fiducia alla certezza, la quale ultima non è altro che «la fiducia della ragione in se stessa che essa stessa avalla»[72] e che, a partire da Descartes, ha costituito l’ideale della filosofia occidentale moderna[73]. La fiducia invece sorge «quando ci rendiamo conto del fatto che la nostra stessa natura ci spinge ad affidarci a qualcosa che, pur non essendo noi, sta in noi, del fatto che non siamo soli, ma collegati con il tutto. […] L’interculturalità non può basarsi sulla certezza poiché, anche se si è certi che l’altra cultura è in errore, coloro che vi appartengono sono a loro volta certi del contrario»[74]. La fiducia è indispensabile a un dialogo genuinamente interculturale: «Senza fiducia nelle altre culture […] l’interculturalità degenera nel multiculturalismo, che è una strategia, per lo più a livello inconscio, per assorbire altre visioni del mondo e perpetuare così la sindrome dell’ideologia di una cultura superiore. Non tutto è negativo nelle altre culture, dice il “multiculturalismo”, ma non ce ne possiamo fidare troppo; prendiamo quindi ciò che hanno di buono integrandolo nella nostra cultura, che è superiore e che in questo modo si arricchisce ulteriormente»[75].
Dialogo dialettico e dialogo dialogale Come accennato prima, Panikkar distingue il dialogo “dialettico” dal dialogo “dialogale”. Il primo si basa sulla convinzione che, esclusivamente tramite la ragione, è possibile ottenere un accesso alla verità che sia universalmente condivisibile: la lotta tra le visioni razionali della realtà è provvisoria, e conduce inesorabilmente alla vittoria di una delle parti in causa. Si tratta di uno scontro – tramite il linguaggio dialettico – per la supremazia e l’unificazione, e non di un incontro finalizzato al conseguimento dell’armonia e all’allargamento dell’orizzonte di comprensione; certo, ciascuno può più o meno modificare la sua idea, ma ciò non toglie che l’obiettivo è quello di raggiungere una sola conclusione razionale valida per tutti i contendenti. Il dialogo dialogale presuppone invece che la ragione non esaurisca l’ambito dell’essere, come abbiamo fin qui ripetuto. Poiché la ragione non è arbitro esclusivo di questo dialogo, non potranno esserci regole valide in generale, sempre e a priori: le regole dell’incontro andranno stabilite di volta in volta all’interno dell’incontro stesso e da entrambe le parti in causa. Del resto, se la ragione esaurisse l’ambito degli strumenti del dialogo nonché l’orizzonte dei suoi obiettivi, a stretto rigore il dialogo stesso sarebbe superfluo (un uomo sufficientemente dotato di capacità speculative potrebbe infatti giungere da solo a srotolare la catena delle conseguenze razionali fino a giungere alla “verità tutta intera”), o al più sarebbe una utile scorciatoia verso un sentiero segnato in anticipo dalla ragione universale (o, in ultimo, sarebbe uno strumento “politico” e basta: l’obiettivo non sarebbe più solo quello di giungere alla verità, ma al contempo di convertire ad essa tutta l’umanità, con-vincendola con la forza della dialettica). Così Panikkar: «Il dialogo dialogale è radicalmente differente da quello dialettico: non cerca di con-vincere l’altro, cioè di vincere dialetticamente l’interlocutore o, per lo meno, di ricercare con lui una verità sottomessa alla dialettica. Il dialogo dialettico presuppone l’accettazione di un campo logico impersonale al quale si attribuisce o riconosce una validità o giurisdizione puramente “oggettiva”. Il dialogo dialogale, invece, presuppone una fiducia reciproca in un comune avventurarsi nell’ignoto, giacché non si può stabilire a priori se ci si capirà l’un l’altro né supporre che l’uomo sia un essere esclusivamente logico. Il campo del dialogo dialogale non è l’arena logica della lotta fra le idee, ma piuttosto l’agora spirituale dell’incontro di due esseri che parlano, ascoltano. [...] Le conclusioni saranno valide solo “fin dove il dialogo ci porta”. Possiamo scendere nell’arena, ma dobbiamo mantenere sempre aperto l’invito all’agora e non rimanere intrappolati nell’arena. Nell’agora si parla, nell’arena si lotta. Queste affermazioni non intendono affatto difendere una posizione irrazionale che, in quanto tale, non sarebbe neanche possibile formulare»[76].
Filosofia Panikkar caratterizza il dialogo dialogale come “metodo” proprio della filosofia[77]: «Il filosofo autentico dialoga sempre. La solitudine del filosofo non è l’isolamento dell’individuo chiuso in se stesso. Il filosofo conversa con l’altro, un altro che in un certo senso rappresenta un altro mondo o per lo meno un altro punto di vista. [...] Il filosofo vuole conoscere perché sa che non conosce – altrimenti sarebbe soddisfatto di quello che conosce. Questo desiderio di conoscere è già un’apertura alla trascendenza. In questo senso, ogni filosofia che abbia superato l’ossessione analitica dell’epoca moderna è già un tentativo transculturale, in quanto noi filosofiamo dialogando con l’altro e la filosofia diviene quindi interculturale – perché parlando con l’altro io oltrepasso l’ambito della mia cultura individuale ed entro già nel campo interculturale che a volte contribuisco a creare»[78]. È evidente infatti che, se io credo che una certa trascendenza mi superi e che l’altro, fonte di consapevolezza, vi acceda secondo un mito diverso dal mio, il respiro della mia filosofia sarà tanto più ampio quanto più essa avrà appreso dall’“altro”. È questo che conduce Panikkar alla sua definizione di “filosofia imparativa”: «Ho definito questo atteggiamento filosofia imparativa, cioè una filosofia che, come ogni filosofia autentica, partendo dalla propria prospettiva è pronta ad apprendere (imparare) dagli altri»[79]. Il dialogo non è quindi un epifenomeno del filosofare, ma qualcosa che appartiene costitutivamente alla filosofia stessa[80]. La quale, in nessun caso, può essere ridotta a qualcosa di “puramente razionale”, in quanto una tale nozione di filosofia presuppone già ciò che dovrebbe essere in questione. Infatti, «se io cerco di filosofare esclusivamente con la mia pura ragione, sarò in grado di scoprire solo la struttura razionale dell’Essere. La “realtà” sarà razionalità e nient’altro che razionalità perché il mio strumento non è sensibile a nient’altro. Così, se presuppongo che la ragione è la sola fonte di conoscenza, riconoscerò come reale solo ciò che potrò scoprire con la mia ragione e, così facendo, io abolirò semplicemente ed ignorerò la natura specifica di ogni altra specie di realtà supra (infra o extra) razionale possibile»[81]. Ma poiché, come dicevamo all’inizio, l’uomo è più della sola ragione[82], ogni filosofia che – limitandosi alla ragione – rinunci a prendere in considerazione l’uomo nella sua interezza rinuncia per ciò stesso anche ad essere ciò che tradizionalmente si è inteso con questa parola, cioè quella conoscenza che ha come funzione l’ordinamento della vita e la direzione dell’azione[83]. Ovvero, saggezza. In questo senso Panikkar dice che la filosofia è uno “stile di vita”: «Questa filosofia primordiale sfocia in uno stile di vita, o meglio, è l’espressione della vita stessa, così come essa è scritta o parlata nella realtà tramite uno stile, lo “stilo” della propria vita[84]. Una filosofia che si occupa soltanto di strutture, teorie, idee e non si interessa alla vita, evita la prassi e reprime i sentimenti, mi sembra non solo parziale, in quanto ignora deliberatamente certi aspetti della realtà, ma anche cattiva filosofia. La realtà non può essere conosciuta, compresa, realizzata con un solo organo, o soltanto in una delle sue dimensioni. Ciò trasformerebbe la filosofia in un‘altra scienza, qualcosa di simile all’algebra, ma la distruggerebbe in quanto sapienza e ne impedirebbe l’espressione in uno stile umano di vita»[85]. La filosofia non è una “scienza speculativa”, ma una prassi, un modo di essere, che non si limita né al solo retto pensare né solo al retto agire. Essa, quando è vera filosofia, cioè quando è realmente la bussola grazie alla quale il filosofo attraversa il mare dell’esperienza, appartiene a questi completamente, né si dà senza di lui: è l’espressione intellettuale della sua stessa vita, in nessun modo separabile da lui (caratteristica attribuibile invece al pensiero e alla norma morale che si ritiene possano valere “in generale”)[86].
Il compito della filosofia Vista la connotazione così eminentemente “pratica” che la filosofia ha nel pensiero di Panikkar, non ci sorprenderà scoprire che essa ha anche un compito ben preciso, anzi, un triplice compito: accettare il logos, riesumare il mito, accogliere il pneuma[87]. Il logos, infatti, va in primo luogo accettato. Sarebbe una ingiusta tentazione quella di reagire alla assolutizzazione del logos operata dall’Occidente con la sua soppressione o la sua subordinazione; ciò non farebbe altro che spingere in direzione dell’irrazionalismo o del fideismo, ovvero verso lo stesso errore che si cerca di combattere, cioè lo squilibrio tra i pesi da assegnare a ciascuna delle facoltà dell’uomo[88]. Invece (secondo il principio che Panikkar denomina “ontonomia”) è necessario che ogni cosa trovi il suo giusto posto nell’economia del tutto, senza prevaricazioni (eteronomia) e senza smanie di indipendenza (autonomia). Bisogna dunque riconoscere il ruolo di spicco che il logos ha all’interno della filosofia, ruolo che consiste da un lato nell’illuminare e nel chiarire, dall’altro nel controllare e criticare: non è possibile accettare ciò che contraddice il logos (ciò che è contrario al principio di non contraddizione); in questo senso il logos esercita un diritto di veto su ciò che viene ad esso sottoposto. Il logos, a sua volta, dovrà però riconoscere ed accettare i suoi limiti, quello inferiore (il mito, il “non-pensato”) e quello superiore (il pneuma, l’“impensabile”, di cui si parlerà tra poco): accettare il fatto che la realtà si estende sia al di sopra sia al di sotto del pensabile e del dicibile. La filosofia deve anche riesumare il mito: essa non ci introduce solo nel pensiero, ma anche nel non-pensato. È il logos stesso a prendere coscienza della sua provenienza dal fondo oscuro del mito, dal fondo dei pre-giudizi sui quali si fonda ogni possibile giudizio. Il mito fa quindi parte a buon diritto della filosofia: non come ulteriore elemento pensato (quando io penso il mito, esso non è più mito: comincia a diventare giudizio, qualcosa che la ragione esamina e che io non do più per scontato), ma come terreno al di sopra del quale il logos cammina. A questo punto entra in scena il dialogo: perché solo nel dialogo è possibile portare alla luce i propri presupposti mitici e dar luogo a una demitizzazione che permetta di allargare i propri confini. È sempre l’altro, infatti, ad accorgersi che io do certe cose per scontate, così come è sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento; da qui la nascita di quella che, come abbiamo visto, Panikkar chiama filosofia imparativa. Per rimanere nell’ambito della metafora che abbiamo utilizzato, poiché il mito è il terreno nel quale ogni singolo pensiero germoglia, è sui terreni diversi che bisogna operare se si vuole ottenere una mutua fecondazione tra le rispettive piante (i pensieri). Oggi, un pensiero che non venga fecondato tramite l’apporto interculturale è destinato a rimanere sterile, nella teoria come nella prassi[89]. Alla filosofia spetta infine il compito di accogliere il pneuma. Panikkar definisce il pneuma “impensabile” per distinguerlo sia dal “pensato” (logos) sia dal “non-pensato” (mito)[90]. Anch’esso, come il mito, non è mai completamente pensabile: scaturisce infatti dalla libertà ed è il risultato di un atto creativo il quale, avendo le sue radici nel logos, non si esaurisce in esso. È quel passo in avanti che non si dà mai come conclusione logica di un certo procedimento rigorosamente razionale, ma che trae origine da un’ortoprassi nutrita (ma non composta) dal sostrato intellettuale come da quello mitico. È ciò per cui il mondo non è interamente calcolabile, come voleva Laplace, che ci permette di conservare una speranza nella infinita capacità che la realtà – che noi non produciamo, perché essa ci precede – ha di sorprenderci, di superare ogni nostra fantasia. L’apertura al pneuma non è altro che la fiducia di cui si è già parlato. Si tratta di un’esperienza molto diffusa: ad esempio, ciascuno di noi sa bene che, per imparare a nuotare, è necessario prima o poi lanciarsi in acqua, con un salto di fede, di fiducia, pur dopo aver appreso tutto ciò che è possibile sotto il profilo tecnico. Nuotare è un’operazione impossibile se prima si pretende di essere sicuri di conoscere ogni aspetto del nuotare. Allo stesso modo, le soluzioni, le alternative messe a punto “a tavolino” sono spesso insufficienti, proprio perché mancano di quell’audacia che consentirebbe loro di conformarsi in maniera adeguata a una realtà che non è né solo razionale né completamente prevedibile. Insomma, tanto per prendere ad esempio il dialogo, è necessario rompere il circolo vizioso che porta all’immobilità (se infatti ogni regola, compreso il linguaggio da utilizzare, va definita all’interno del dialogo, con quale linguaggio sarà possibile iniziare il dialogo stesso?) dando vita ad un “circolo vitale” che, partendo da un atto di fiducia in ciò che, secondo la ragione, è impossibile, giunga alla creazione di qualcosa che prima non era (e nemmeno era pensabile[91]), e adesso è. Questo triplice compito assume, nel nostro kairos, una ben distinta fisionomia: «Il compito della filosofia nel momento attuale è tanto semplice da enunciare quanto difficile da realizzare; consisterebbe, a mio parere, nel disarmare la ragione armata. Però la ragione armata non si disarma da sola, né per mezzo di un’altra ragione ancora più potente. Di qui la mia convinzione che la filosofia non sia esclusivamente razionale né, di conseguenza, meramente teoretica»[92]. La nostra ragione è armata non solo perché dedica le sue migliori risorse all’industria bellica[93], ma anche perché ce ne serviamo per lottare e vincere (convincere) gli altri; insomma, la usiamo come un’arma[94]. Non si tratta di un compito qualunque, di una velleità da pacifisti: il disarmo culturale è oggi il compito più urgente della filosofia[95]; proprio perché il disarmo culturale è una condizione imprescindibile per la pace tra gli uomini[96] e, come abbiamo già detto, la pace è probabilmente ciò di cui oggi l’umanità ha più e più urgentemente bisogno: come scrisse Gandhi parecchi decenni fa, l’alternativa non è più tra pace e guerra, ma tra pace da un lato e distruzione totale dall’altro[97].
Conclusioni Saggezza è saper vivere in armonia con l’ordine della realtà, che è un ordine ontonomico[98]. Come gli antichi samurai, il filosofo si assume il compito di preservare il giusto equilibrio tra mito, logos e pneuma: solo tornando a dare alla ragione il suo giusto peso la si può «disarmare», riconducendo la nostra cultura su un binario che non sia quello dell’attuale guerra di tutti contro tutti, fondata sul bisogno cartesiano di certezza assoluta, ispirata dall’individualismo, supportata dalla teoria del deterrente, alimentata dal neoliberismo[99]. Perché non è demagogia ma osservazione immediata che, nell’era dei viaggi spaziali, l’uomo non sia ancora in grado di assicurare a più di un miliardo di suoi simili né cibo né acqua potabile a sufficienza per sopravvivere[100]. Per Panikkar si tratta di un sistema culturale, prima che economico e politico, che si confuta da solo, e che si mantiene ancora in piedi, seppur barcollando, soltanto perché non si riesce ad uscire dal vicolo cieco dell’apparente mancanza di alternative[101]. Problema insolubile se si rimane confinati nell’ambito della sola ragione; è evidente che (di fatto) non ci sono alternative, anche perché qualunque tentativo di sovvertire il sistema esistente verrebbe impedito, per motivi di autoprotezione, dal sistema stesso: è ovvio ad esempio, che la democrazia può accogliere al suo interno qualunque partito che rispetti le regole democratiche, ma non quello che pretenda di modificarle. Ciò significa escludere a priori qualunque possibilità di mettere in discussione i presupposti della democrazia stessa (individualismo, liberismo economico, ecc.). L’unica strada è dunque, per Panikkar, emanciparsi da questa sicurezza blindata costruita con le armi e con il dominio sull’altro (basta prendere un aereo per rendersi conto della materia prima di cui è costituita questa “sicurezza” che proprio ai nostri giorni è lo slogan più alla moda) e gettarsi con fiducia tra le braccia della realtà[102]. Il che può sembrare utopia, o ingenuità; tuttavia, se riusciamo a prendere per un attimo le distanze da ciò che siamo abituati a considerare normale (si pensi agli eserciti, alla bomba atomica, ai servizi segreti), potremo forse cogliere tutto il realismo della risposta di Goss all’intervistatore che riaffermava il diritto alla sicurezza dell’uomo, della famiglia, della nazione: «Nel 1981, secondo il Sipri, l’Istituto per la pace di Stoccolma, abbiamo speso 600 miliardi di dollari per gli armamenti, per la nostra cosiddetta sicurezza. I paesi del patto di Varsavia e della Nato hanno la capacità di distruggere ogni vita umana, 50 volte. Come se una sola volta non fosse sufficiente! […] Quante volte si dovrà essere capaci di distruggere la vita umana per sentirci sicuri? Ma si tratta della sicurezza di chi? Della sicurezza di quelli che muoiono di fame, che non hanno una goccia di latte per sopravvivere, che non hanno nemmeno un metro quadrato di terra per dormire, che vedono morire i loro figli perché non hanno nulla per curarli? No! Si tratta della nostra sicurezza. Della sicurezza dei ben pasciuti, dei soddisfatti, degli istruiti. Noi non siamo in grado nemmeno di dare un chilo di pane o di riso a testa agli abitanti della terra, ma siamo stati capaci noi, i potenti, di accumulare due tonnellate di esplosivo per ogni uomo»[103]. Se il disarmo culturale è, per Panikkar, il compito più urgente della filosofia, la pace è il suo obiettivo, il dialogo il suo strumento ed il pluralismo il suo sostrato mitico. La filosofia, che si nutre di considerazioni teoriche, ha dunque delle implicazioni pratiche che alimentano nuovamente la teoria nei suoi sviluppi. Questo, che dal punto di vista razionale può sembrare un circolo vizioso, nella realtà è un circolo vitale, per usare ancora un’espressione di cui Panikkar si serve spesso. Come abbiamo visto, un problema insolubile nell’ambito razionale spesso non si rivela più tale nella pratica della vita: è per questo che noi possiamo imparare a nuotare pur senza sapere in che modo reagirà ogni singola molecola del mare al nostro tuffo. Ed è così che Panikkar supera l’impasse dell’intellettuale che si trova costantemente a dover scegliere se salvare dalla casa in fiamme un manoscritto insostituibile contenente un messaggio di pace e di salvezza per l’intera umanità oppure una famiglia che sta per morire soffocata[104]. Solo rifiutando l’aut aut della ragione ci si può tuffare nel circolo vitale di una teoria veramente integrata in una prassi corrispondente. Come accennato nell’introduzione, non è stato possibile rintracciare opere espressamente dedicate al compito della filosofia e ai suoi aspetti filosofici fondanti, la metafisica della relazione, la critica dell’universalità e dell’oggettività, il pluralismo della verità. Quasi tutte le opere esaminate sono dedicate esclusivamente agli aspetti cristologici del pensiero dell’A., oppure al dialogo interreligioso, o si soffermano sui temi poc’anzi elencati in maniera marginale e poco approfondita. Per questi motivi ho ritenuto opportuno dedicarmi all’esposizione delle nozioni sopra citate, non tanto perché il linguaggio di Panikkar dia luogo a un’impressione di oscurità, come Panikkar stesso pur ammette[105], ma perché esso appare talora troppo conciso, implicitamente ricco di cose da rendere esplicite. In ogni caso, anche se è vero che «non è agevole discutere con chi afferma che ciò che intende veramente dire è oltre ciò che di fatto dice»[106], sarebbe sbagliato fare l’analisi logica dei testi di Panikkar per verificarne la correttezza[107]; piuttosto, bisogna tener presente che la filosofia di Panikkar non è un “sistema concettuale” volto a spiegare questo o quell’aspetto della realtà, ma un dito puntato verso il cielo: ed è verso il cielo che il saggio volge lo sguardo mentre gli stolti rimangono a guardare il dito.
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[5] All’epoca in cui Marsilio Ficino scrive ha ancora pieno vigore la teoria dell’anima mundi, che ci parla della terra come di un organismo vivo; mito per il quale non solo pure le pietre hanno un’anima (ciò che qualcuno chiama energia, come Panikkar non manca di annotare), ma la terra nel suo insieme è un animale, un essere animato. Cfr. ad esempio Platone, Timeo, XXXIV ed anche Plotino, Enneadi, IV 3, 4, cit. in Breviario, p. 32: «L’anima dell’universo è simile all’anima di un grande albero che, senza fatica e in silenzio, governa la pianta». Per Marsilio Ficino il mondo è «un animale, anzi il più perfetto» (Sulla vita, III, 2, p. 193), è «ovunque vivo» perché «da ogni parte genera da sé esseri viventi» (Sulla vita, III, 3, p. 197) e questa vita non risparmia le pietre, i metalli, i denti e le ossa (Sulla vita, III, 11, pp. 220-221). Del resto, «chi è sì semplice che dica la parte vivere, e il tutto non vivere? Vive adunque tutto il corpo del Mondo. [...] Chi negherà viver la Terra, e la Acqua, le quali danno vita agli animali generati da loro?» (Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, p. 92). [6] Non è un caso che, ai nostri giorni, lo slogan più alla moda del neoliberismo (che non conosce nient’altro che “produttori” e “consumatori”) sia “bisogna sapersi vendere”, che, come osserva Bellet (“L’economia in un vicolo cieco”, p. 16), è il motto della prostituzione. [7] Panikkar non demonizza né rifiuta senza appello la scienza moderna e tutti i suoi risultati, e al tempo stesso non indulge ingenuamente all’idealizzazione di un fiabesco mondo orientale – contrapposto a quello occidentale – in cui tutti si amano e sono felici: «La cultura dell’Occidente deve essere ammirata per la ricchezza, la varietà e il senso di autocritica che la contraddistingue e che autorizza molte speranze. [...] Anche l’Oriente è in crisi». A. Rossi, sintesi dell’intervento di Panikkar al convegno “Pensare la scienza”, p. 25. Panikkar aveva già messo in evidenza la reciprocità del senso di insoddisfazione a livello planetario: «Le direzioni emergenti sono complementari in modo sorprendente: il ricco cerca la povertà e il povero la ricchezza; colui che è tecnicamente progredito cerca la salvezza spirituale, e colui che è spiritualmente progredito cerca soluzioni tecniche. Il Salvatore, il Messia è sempre una figura esogena, viene sempre da fuori. Interpreteremmo in modo errato l’attrattiva esercitata dalle religioni orientali sull’Occidente se trascurassimo l’attrattiva che le religioni occidentali rappresentano per l’Oriente». R. Panikkar, “La visione cosmoteandrica: il senso religioso emergente del terzo millennio”, p. 543. [8] R. Panikkar, “Politica e interculturalità”, pp. 19-20. [9] «La democratizzazione della coscienza moderna, il livellarsi della struttura gerarchica dell’universo distrugge il credo che la salvezza o la realizzazione sia un privilegio. L’Uomo vuole il compimento della vita non solo qui ed ora per pochi eletti, ma per tutti. Questo significa che sta ora emergendo un nuovo mito per cui la pienezza della vita o, più semplicemente, il suo significato, deve essere raggiunto non solo in questo mondo, come i mistici hanno sempre proclamato, ma per tutti, in senso egualitario. Questa salvezza, intesa come compimento umano, non può essere legata, o appartenere, a una razza, a una cultura, o a una religione. La coscienza moderna sente che il raggiungimento della salvezza deve essere universale, alla portata di ognuno». R. Panikkar, “La fine della storia: la triplice struttura della coscienza umana del tempo”, p. 85. Un ulteriore esempio, tratto da un’esperienza personale che Panikkar riporta spesso, e che potrà aiutarci a chiarire la questione, è il seguente: «Il cugino di un mio studente, negli anni ’70, da buon rivoluzionario andò in Africa a insegnare ai bambini. Siccome era già sufficientemente prevenuto dai suoi professori, non voleva essere colonialista, insegnare a quella gente tutte le nostre scienze, le nostre conoscenze. L’unica cosa veramente neutra era la ginnastica. In questa maniera non si sentiva colonialista, tutti erano contentissimi e anche lui era felice. Un bel giorno arriva con una scatola di cioccolatini in un gruppo di 9 o 10 bambini, spiega loro che al “tre” devono correre per arrivare all’albero che si trova a 150 metri. Lui conta: uno, due, tre… e tutti i bambini spontaneamente si danno la mano e corrono insieme. Questa è la solidarietà, questa è la vita normale, questo è il cuore umano, questa è la natura dell’essere umano, quando non è caduto nell’isolamento dell’individualismo che ci obbliga ad essere egoisti per sopravvivere». Id., “Economia e senso della vita”, p. 21. [10] Id., La torre di Babele, p. 140. [11] A. Rossi, Pluralismo e armonia, p. 22. Val la pena soffermarsi sul fatto che se si pone la ragione come lo strumento più adeguato alla conoscenza della realtà, l’unico risultato sarà che, al termine dell’indagine, la realtà apparirà come qualcosa di esclusivamente razionale. Non potrebbe essere diversamente: con questa impostazione, tutto ciò che eccede la limitata sensibilità dello strumento scelto non potrà essere da questi rilevato. Tutto ciò che vedo con chiarezza è certamente vero. Questo è un criterio corretto, ma non va assolutizzato: «Perché devo infatti affermare che la verità è solo ciò che io posso accettare come vero? Chi ci dice che la verità non ci sorpassa o che la nostra mente (mens) è la misura di ogni cosa invece che lo specchio (la riflessione) della “misurabilità” dell’essere? E perché, poi, dovrei accettare solo ciò che mi si presenta in modo chiaro e distinto? Forse che la mia mente è sensibile solo all’evidenza razionale? Io devo – naturalmente – accettare come chiaro e distinto ciò che io vedo chiaramente e distintamente; né d’altronde sono tenuto ad accettare come evidente ciò che non mi appare come tale; ma perché dopo tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto, per esempio, o ciò che vedo con minore evidenza? Non lo accetterò come “chiaro”, ma potrò sempre accettarlo nel modo in cui mi viene offerto. E non può darsi il caso che precisamente le cose “supreme” e le più importanti siano al di là del campo visivo proprio al mio occhio nudo e limitato? Se io identifico la verità con ciò che vedo chiaramente come vero, io escludo con questo atto tutto quanto sta al di sopra o al di sotto o al di là di un elemento particolarissimo della mia facoltà conoscitiva, della mia ragione». R. Panikkar, Maya e Apocalisse, pp. 56-57. [12] R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, p. 94. [13] Id., “Economia e senso della vita”, p. 20. [14] «to gar auto noein estin te cai einai». CLEM. ALEX. strom. VI 23, [II 440, 12], in H. Diels, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, p. 271. [15] R. Panikkar, “Per una lettura transculturale del simbolo”, p. 56. [16] Id., trascrizione della conferenza “Ambiguità della scienza”, p. 7. Cfr. Id., La pienezza dell’uomo. Una cristofania, p. 38: «Il tutto non è la somma delle sue parti. E ci dobbiamo guardare bene dal dire “uguali”, perché cadremmo allora nel pensiero algebrico o meramente calcolatore. Per esempio, 3 = 1 + 1 + 1, ma questa equazione non può essere applicata alla Trinità». Questa critica di Panikkar non implica un rifiuto netto e totale del metodo scientifico, né il disconoscimento dei suoi risultati positivi o della sua validità per scopi particolari; se pur Panikkar critica la gravitazione come “legge”, prescrittiva per la realtà, non propone certo una filosofia che neghi la caduta dei gravi. Su questo tema, cfr. Radhakrishnan, La filosofia indiana, vol. II, pp. 817-818: «Logica e scienza, filosofia e religione sono in intima relazione. [...] Anche se la fisica e la metafisica sono chiaramente distinte e non possono essere confuse, tuttavia uno schema filosofico deve essere in armonia con i risultati della scienza naturale. Ma estendere all’universo in genere ciò che vale nel mondo fisico equivarrebbe a commettere l’errore della metafisica scientifica. [...] I mezzi della natura non possono generare la coscienza. Non possiamo ridurre la natura alla coscienza e viceversa, come tentano di fare la metafisica scientifica e psicologica. La realtà non appare soltanto nella scienza e nella vita umana, ma anche nell’esperienza religiosa. [...] Nessuno schema dell’universo può essere considerato completo se non comprende i diversi aspetti della logica e della fisica, della psicologia e dell’etica, della metafisica e della religione. [...] La nostra conoscenza dell’universo è cresciuta enormemente sotto la guida delle scienze naturali, e non possiamo permetterci di essere soddisfatti di una visione ristretta della vita. I futuri sforzi di costruzione filosofica dovranno riferirsi ai recenti progressi della scienza naturale e della psicologia». [17] R. Panikkar, “Politica e interculturalità”, pp. 9-10. [18] Id., L’esperienza filosofica dell’India, pp. 109-110. [19] Id., Il daimôn della politica, pp. 26-27. [20] «Se la realtà è realtà non permette che io mi stacchi da essa per vederla o per ritornarci sopra». Id., “Politica e interculturalità”, p. 25. [21] Id., Mito, fede ed ermeneutica, pp. 34-35. [22] Ivi, p. 292. [23] Problema ben noto, ad esempio, anche all’ermeneutica che, con Panikkar, possiamo formulare in questi termini: «Poiché il testo è tale sempre e soltanto in funzione di un determinato contesto, in che senso è possibile avere affermazioni universali nel momento in cui non esistono contesti universali?». Id., La realtà cosmoteandrica, p. 35. [24] «Quando, dopo la vittoria di Lepanto contro i turchi, don Juan de Austria recò 500 schiavi al papa, egli gradì il dono e non lo considerò immorale». Id., “La fede non è un’ideologia”, p. 48. [25] E con ciò Panikkar risponde alla domanda che M. Cacciari pone in “Credere di non credere. Paradossi della filosofia e del cristianesimo”, p. 24: «Nella filosofia invece, secondo il grande insegnamento husserliano, non si può presupporre nulla, nessuna parola, nessun linguaggio: ogni forma del presupporre deve essere epochizzata. Ma – ciò è possibile?». [26] R. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica, p. 337. [27] Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, pp. 60-61. [28] «Il criterio della realtà è precisamente di essere “a prova di pensiero”, cioè resistente al pensare. Quando qualcosa non obbedisce al nostro pensiero, quando offre resistenza, mostra la sua realtà per mezzo di questo stesso fatto». R. Panikkar, La torre di Babele, p. 114. [29] Id., “Logomitìa e pensiero occidentale”, pp. 63-64. [30] Id., Mito, fede ed ermeneutica, p. 23. [31] Id., “Per una lettura transculturale del simbolo”, pp. 60-61. [32] Ivi, p. 62. [33] Ivi, p. 60. [34] Ivi, p. 68. [35] Id., Mito, fede ed ermeneutica, p. 22. [36] Id., “Logomitìa e pensiero occidentale”, p. 77. [37] Id., “Politica e interculturalità”, p. 21. [38] Id., La realtà cosmoteandrica, p. 159. [39] Id., Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, pp. 78 ss. Suggestiva l’eco di questo pensiero in un romanzo del filosofo Maurice Bellet: «Il grosso marito di Martine è morto: troppo vino rosso, troppi aperitivi, troppe sigarette e poltroneria. Il cuore. Presto fatto: in tre giorni, sparito. Jean Périer va al funerale. Abbraccia Martine, tutta in nero e in lacrime: è pur sempre la sua vita di moglie che se ne va con quell’uomo». I viali del Lussemburgo, p. 93. Knitter osserva d’altro canto che in psicologia l’affermazione “Noi siamo le nostre relazioni” è divenuta quasi una frase stereotipa; egli sottolinea tuttavia che «è difficile prendere alla lettera un’affermazione del genere, perché vediamo ancora le cose come sostanze più che come eventi, ci riteniamo primariamente individui più che partner». P. Knitter, Nessun altro nome?, p. 26. [40] «Il pensare razionale e ancor più il calcolo (anche razionale) possono operare solamente mediante l’astrazione. E l’astrazione è proprio questo: astrazione, separazione di quella parte della realtà che non si sottopone all’analisi o al calcolo. Ciò che non è razionale o ciò che non è calcolabile viene automaticamente eliminato dall’ambito di queste due operazioni. Ma queste parti della realtà non sono come le “quantités nègligeables” del calcolo infinitesimale. Non possiamo più capire ciò che non è intero». R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, p. 94. [41] A. Rossi, Pluralismo e armonia, pp. 28-29, il quale ritiene che il termine “relatività” vada evitato per il suo implicito richiamo ad un relativismo agnostico e scettico, dal quale Panikkar – che non perde occasione per criticarlo – è assolutamente alieno. Cfr. ad esempio R. Panikkar, La torre di Babele, p. 134: «Non sto proponendo un atteggiamento scettico o agnostico, che si contraddice nel momento stesso in cui viene formulato: se non possiamo essere sicuri di niente, allora non si può essere nemmeno sicuri della nostra incertezza!». Panikkar, che ha sempre mantenuto in italiano l’utilizzo dell’espressione “relatività radicale”, propone “relatività” e “relazionalità” come sinonimi in Id., Pace e interculturalità, p. 58. [42] Si sottolinea che se una cosa “assolutamente trascendente” esistesse davvero, non saremmo neanche in grado di accorgercene, quindi essa non avrebbe alcuna rilevanza per la nostra vita e per la nostra riflessione: «Un Dio esclusivamente e assolutamente trascendente non trascende soltanto l’orbita del pensiero umano, ma fugge addirittura le galassie dell’Essere; cessa di essere pensabile, cessa di essere tout court». R. Panikkar, “La visione cosmoteandrica: il senso religioso emergente del terzo millennio”, p. 530. [43] Id., La realtà cosmoteandrica, p. 106. [44] Così Panikkar rilegge e supera il principio di Heisenberg: «L’osservatore modifica l’osservazione. Ma io vado molto più in là: il pensatore modifica il pensato. Questo sarebbe il mio principio». Id., “Verità-Errore-Bugia-Esperienza psicoanalitica”, p. 26. Cfr. l’idea di Teilhard de Chardin sulla “visione” e sulla “coscienza” che l’uomo può avere delle cose, per la quale una crescita della coscienza relativa alla relazione tra un uomo e una certa cosa corrisponde ad una crescita ontologica, in quanto aumento della complessità dell’intero universo: «Soggettivamente, anzitutto, siamo inevitabilmente centro di una prospettiva, in rapporto a noi stessi. Sarà stata un’ingenuità, probabilmente necessaria, della Scienza alle sue origini, immaginare di poter osservare i fenomeni in sé, quali sono e si verificano al di fuori di noi stessi. Istintivamente, i fisici e i naturalisti hanno prima di tutto operato come se il loro sguardo si tuffasse dall’alto su un Mondo che la loro coscienza poteva penetrare senza subirlo né modificarlo. Essi cominciano oggi a rendersi conto che le loro osservazioni più oggettive sono del tutto impregnate di convenzioni scelte all’origine, e anche d’abitudini o forme di pensare sviluppatesi durante lo sviluppo storico della Ricerca. Giunti all’estremo limite delle loro analisi, essi non sanno più se la struttura cui pervengono è l’essenza della Materia che studiano, oppure il riflesso del loro stesso pensiero. E simultaneamente s’accorgono che, per contraccolpo delle loro scoperte, essi stessi si trovano impegnati, anima e corpo, nella rete di relazioni ch’essi pensavano di gettare dal di fuori delle cose: presi nella propria rete. [...] Oggetto e soggetto si trasformano mutuamente nell’atto della conoscenza. Bene o male, allora, l’Uomo si ritrova e guarda se stesso in tutto ciò che vede. [...] Vedere è essere di più». Teilhard de Chardin, Prologo del Phénomène humain, in C. Cuenot, Teilhard de Chardin, pp. 126-127. Si è riportato l’intero brano anche per sottolineare – pur nelle numerose differenze – le evidenti assonanze tra il pensiero di Teilhard e quello di Panikkar, soprattutto riguardo al mito, alla relazione, alla “cosa in sé”. [45] R. Panikkar, La nuova innocenza, vol. 3, pp. 232-233. [46] Id., La torre di Babele, p. 59. Cfr. Id., Il silenzio di Dio, pp. 234-235: «La relazione non è ‘qualcosa’ che mette in relazione ‘altre’ cose precedentemente date o esistenti, ma è la costituzione stessa delle cose in quanto tali. [...] Non ci sono cioè sostanze che entrano poi in relazione le une con le altre, ma quelle che noi chiamiamo ‘cose’ non sono se non semplici relazioni». [47] Id., “Deità e riflessione filosofica”, pp. 61-62. È ancora una volta l’ermeneutica a ricordarci che «l’informazione oggettiva non esiste, così come i fatti puri non esistono. Ogni fatto è già un’interpretazione e quindi ogni informazione è già orientata in una determinata direzione, in un senso o in un altro». Id., “L’arte dell’impossibile”, pp. 128-129. [48] Cfr. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, pp. 25-26: «Il fatto puro non esiste; ma ogni esperienza, per quanto possa sembrare obiettiva, viene inevitabilmente inglobata in un sistema di ipotesi non appena lo scienziato tenta di formularla». [49] Neanche la più “dura” scienza moderna può più sostenere l’oggettività dei risultati sperimentali o l’intercambiabilità degli sperimentatori. Ogni esperimento prende infatti le mosse da una ben precisa teoria che lo ispira e che attende di essere verificata o smentita da una opportuna interpretazione dei dati ottenuti; ed è noto che non esiste alcun metodo oggettivo per determinare la forma di un certo esperimento (dovuta piuttosto alla creatività del singolo ricercatore), né la maggiore o minore opportunità di una certa interpretazione. Sul pluralismo delle posizioni presenti nel mondo scientifico cfr. A. Drago ed al., “Scienza, tecnologia, potere” in Pensare la scienza, l’altrapagina, Città di Castello (PG), 2004, pp. 79-149. Si potrebbero inoltre moltiplicare i semplici esempi di Einstein che rifiuta le conseguenze della meccanica quantistica in base alla sua convinzione che “Dio non gioca a dadi”, o di Hawking (come lui stesso racconta nel libro Dal Big Bang ai buchi neri) che – dopo aver costretto di malavoglia i colleghi ad accettare la sua teoria tramite l’“inoppugnabile” dimostrazione del suo teorema – cambia idea e prova a convincere gli stessi della teoria opposta. Insomma, neanche il più freddo luminare può ritenere il proprio pensiero tanto oggettivo da non subire l’influenza delle sue più personali inclinazioni. Per Bellet, che indaga il rapporto tra la coscienza razionale e l’inconscio (Cfr. Jin Si Yan-M. Bellet, Il sogno, p. 200), «anche l’uomo di scienza scopre di essere abitato da ciò che gli sfugge». Del resto, anche la più rigorosa delle filosofie non è altro che l’esplicazione dei presupposti del filosofo. Il che non ci sorprende se è vero, come scrive Fichte, che la scelta di una certa filosofia piuttosto che d’un’altra dipende dalla propria personale inclinazione e, in definitiva, dal tipo d’uomo che si è (Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, pp. 17-19). [50] R. Panikkar, “Politica e interculturalità”, pp. 20-21. Panikkar distingue il termine “kosmologia” da “cosmologia” per sottolineare che esistono visioni del kosmos, dell’universo, diverse da quella della scienza moderna (che spesso estende, come in questo caso, la sua pretesa di universalità anche alla lingua). Ivi, p. 20. [51] Affermare che esistono molte verità è contraddittorio: va tenuto ben fermo il principio che al pensiero spetta il diritto di veto su ciò che è ammissibile e ciò che invece non lo è. Cfr. Id., Mito, fede ed ermeneutica, p. 311. Cfr. inoltre Id., La torre di Babele, p. 137: «Ci sono allora molte verità? No. Una pluralità di verità (a proposito della stessa cosa e sotto lo stesso aspetto) è contraddittoria. La verità è pluralistica». [52] Id., La torre di Babele, p. 121. Cfr. Sap 7, 7; 7, 15. Cfr. anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, 108, 144. Cfr. infine, sempre in ambito cattolico, la caratterizzazione della verità di mons. Giuliano, il quale parla di domanda «universale e insieme personale». “Sulla verità”, p. 7. [53] R. Panikkar, La nuova innocenza, vol. 3, pp. 232-233. [54] Id., La torre di Babele, p. 56. [55] Ivi, pp. 115-116. [56] Ancorché monopolizzato storicamente dal materialismo, il termine monismo può essere attribuito a quelle filosofie che ammettono un unico genere di sostanza, che riconducono «l’insieme della realtà a un principio unitario sottostante all’apparente molteplicità e discontinuità dei fenomeni, negando (sia pure per diverse ragioni) qualsiasi dualità tra materia e spirito, tra mondo e Dio». Questa definizione è stata sintetizzata a partire da quelle date in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia e nell’Enciclopedia di filosofia. [57] R. Panikkar, La torre di Babele, p. 62. [58] Id., “Politica e interculturalità”, p. 146. [59] A. Rossi, Pluralismo e armonia, p. 107. [60] Del resto, «Un problema che ha una risposta teoretica non è un problema pluralistico». R. Panikkar, La torre di Babele, pp. 75-76. [61] Ivi, p. 61. [62] Ivi, pp. 77-78. Cfr. a proposito del conflitto inevitabile Id., Conferenza tenuta all’Università di Milano Bicocca il 4 marzo 2004: «Per citare Gandhi, l’alternativa non è tra violenza e nonviolenza, tra guerra e pace, ma tra nonviolenza e pace da un lato e distruzione totale dall’altro». [63] «Non c’è sistema pluralista. C’è una pluralità di sistemi». R. Panikkar, La torre di Babele, p. 62. E più avanti, p. 113, aggiunge: «Non siamo pluralisti se integriamo tutto in una visione del mondo “pluralistica”. Siamo pluralisti se riteniamo che nessuno di noi possiede [...] la chiave per il segreto del mondo». [64] Ivi, pp. 75-117. Il che risolve il problema sollevato da G. J. Larson (“Contra Pluralism”, pp. 72 ss.), e cioè che la nozione di pluralismo teoretico enunciata da Panikkar diventa inintelligibile in una logica a due valori (“vero” e “falso”), in quanto comporta una violazione del principio del “terzo escluso” (per il quale una certa cosa può essere soltanto vera o falsa, e non è data una terza possibilità): per Panikkar, infatti, il pluralismo è qualcosa che non appartiene solamente all’ambito del logos, ma anche a quello del mito (di cui si può essere coscienti, ma sul quale non si riflette, perché ciò comporterebbe l’uscita dal mito stesso e l’ingresso nell’ambito razionale). Insomma, il pluralismo non è una tra le tante “visioni del mondo”, ma un atteggiamento umano che deriva da un convincimento del quale non ci si può dare conto del tutto. R. Panikkar, “A Self-Critical Dialogue”, pp. 249-250. [65] Altrove (ad esempio, in R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, oppure in Id., Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book s.p.a., Milano, 2000) Panikkar ha utilizzato, come sinonimo di “dialogale”, il termine “dialogico”: «Devo qui confessare che ho usato indiscriminatamente gli aggettivi “dialogico” e “dialogale”». (Id., Pace e interculturalità, p. 24). La distinzione tra i due, continua Panikkar alla stessa pagina, «sta nella connotazione più accademica del primo e nel sapore più personalistico del secondo». [66] R. Panikkar, La torre di Babele, p. 105. [67] Id., “La visione cosmoteandrica: il senso religioso emergente del terzo millennio”, p. 523. [68] Id., Pace e interculturalità, p. 9. Dialogo che, per quanto sia per Panikkar un elemento costitutivo dell’uomo stesso, e non un lusso da intellettuali, non è esente da difficoltà, né nasce già “interculturale”; al contrario, si arriva all’incontro tra culture diverse lungo un percorso preciso (e non senza rischi e scontri anche violenti) che per Panikkar va dall’isolamento e dall’ignoranza totale dell’altro al dialogo genuino, nel quale l’altro si costituisce ormai come altro polo di una relazione “nostra”, attraverso l’indifferenza, il disdegno, la condanna, il tentativo di conquista. Ivi, p. 121. [69] Id., La nuova innocenza, vol. 3, p. 250. Panikkar distingue fra alius e alter: mentre il primo è per me uno straniero, un estraneo, qualcuno da temere e da cui difendersi, o semplicemente di cui diffidare, il secondo è invece un’altra parte di me stesso, qualcosa che mi completa perché in un certo modo mi coappartiene. Così Panikkar commenta Mt 22, 39, “Amerai il prossimo tuo come te stesso”: «Come il tuo stesso io, non come un altro io». R. Panikkar, Pace e interculturalità, p. 63. [70] Id., Pace e interculturalità, pp. 44-45. [71] Id., L’incontro indispensabile – dialogo delle religioni, pp. 72-73. [72] Id., Pace e interculturalità, p. 102. [73] Non è possibile soffermarci qui sui motivi della sfiducia che Panikkar ripone invece nella ragione. Per una trattazione degli insuccessi della ragione nella storia dell’uomo rinviamo a Id., Mito, fede ed ermeneutica, pp. 196 ss. Cfr. anche Id., “Deità e riflessione filosofica”, p. 32, dove Panikkar parla esplicitamente di fallimento della ragione: «In un mio corso abbiamo studiato gli ottomila trattati di pace che l’umanità conosce: è il monumento più fantastico all’ingenuità umana. “Questa è la guerra con la quale si finiscono tutte le guerre; ‘in nomine sanctae et indivisae trinitatis’ abbiamo risolto tutte le cose”. L’inchiostro è ancora fresco quando si ricomincia un’altra guerra. Qualche cosa non va in questa civiltà se in 5000 anni ci sono stati 8000 trattati di pace. È il fallimento della ragione, sia essa divinizzata come nella rivoluzione francese, sia intronizzata come logos nella teologia cattolica. Se siamo ragionevoli non possiamo più fidarci della ragione». [74] Id., Pace e interculturalità, p. 102, dove Panikkar aggiunge che la fiducia «riposa sulla fedeltà delle cose, cioè sulla loro autoidentità». Non avendo qui la possibilità neanche di accennare alla centralità che hanno nel pensiero di Panikkar il riferimento alla terza dimensione e la struttura trinitaria della realtà (visione che egli denomina “cosmoteandrica”), ci limitiamo a segnalare l’interessante approfondimento circa l’“identità delle cose” rintracciabile in T. Merton, Semi di contemplazione, pp. 32 ss. [75] R. Panikkar, Pace e interculturalità, p. 106. Cfr. la critica di Merton, nell’ambito del confronto tra il cristianesimo e lo zen, a questo atteggiamento da “uccelli rapaci”: «Quando si fa molto chiasso intorno alla “spiritualità”, all’“illuminazione”, o magari all’“accensione”, il più delle volte è perché ci sono delle poiane che si librano sopra un cadavere. Questo librarsi, questo volteggiare, questo calare, questa celebrazione di vittoria, non sono ciò che si intende per studio dello zen». T. Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, p. 7. Cfr., a questo proposito, la posizione della Chiesa Cattolica: «Il dialogo non nasce da tattica o interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo spirito, che soffia dove vuole». Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Redemptoris missio”, § 56. [76] R. Panikkar, Pace e interculturalità, p. 44. Va notato che, nel testo Id., Il dialogo intrareligioso, molto precedente a quello appena citato, Panikkar utilizza (pp. 96-97) il termine “arena” nello stesso senso in cui ha utilizzato qui il termine “agora”: tuttavia, il contesto permette di evitare qualsiasi equivoco. [77] Id., Pace e interculturalità, p. 41. Al di là della citazione, l’intero testo tratta della relazione tra filosofia e dialogo. [78] Ivi, p. 20. [79] Ivi, p. 62. [80] Presupposto di un dialogo genuino è che nessuno si senta superiore all’altro, disponendosi ad esso per apprendere e non per insegnare: «Apprendere è diventare discepolo e non maestro». Id., La nuova innocenza, vol. 3, p. 145. Per questo motivo non ci sembra di poter concordare con Tugnoli, il quale afferma che «Panikkar assegna alla cultura occidentale un compito che riconferma in qualche modo la grandezza e la superiorità della sua matrice cristiana. Infatti solo nei Vangeli si fa scienza e carne quella forza dello Spirito che affronta e supera l’inerzia della storia». (“Pace e interculturalità”). Non è stato possibile rintracciare in Panikkar alcuna idea del genere; la quale, a dir la verità, sembra in completo contrasto, se non con tutto il suo pensiero, certamente con la sua idea fondamentale di pluralismo. In definitiva, a nostro avviso Panikkar non assegna nessun compito particolare alla cultura o alla filosofia occidentale, né tanto meno al cristianesimo; la sua filosofia è imparativa, nasce dal dialogo dialogale (che è sempre paritetico), e punta ad un arricchimento che è sempre reciproco (abbiamo parlato in precedenza di mutua fecondazione). Insomma, non ci sono né migliori e peggiori, né primi tra gli uguali. Né ancora – ci si passi la battuta, che ha soltanto lo scopo di rendere evidente e definitiva questa conclusione – ci sono tra gli uguali alcuni che sono più uguali degli altri. [81] R. Panikkar, Maya e Apocalisse, p. 59. [82] Id., Pace e interculturalità, p. 47. [83] Radhakrishnan, La filosofia indiana, vol. II, p. 818. [84] Abbiamo trascritto “stilo” tra doppi apici per mettere in risalto il gioco di parole che Panikkar fa in spagnolo, sfruttando la somiglianza tra estilo (stile) ed estilete (stilo, con il quale, nell’immagine di Panikkar, ciascuno di noi scrive la propria vita). [85] «Esta filosofía primordial cristaliza en un estilo de vida, o mejor, es la expresión de la vida misma inscrita o hablada en la realidad por el estilo, el estilete de la propia vida. Una filosofía que sólo se ocupa con estructuras, teorías, ideas y se aparta de la vida, evita la praxis y reprime los sentimientos, es para mí no sólo unilateral porque deja aspectos de la realidad sin considerar, sino también mala filosofia. La realidad no puede aprehenderse, comprenderse, ser realizada con un solo órgano o sólo en una de sus dimensiones. Esto convertiría a la filosofía en otra ciencia, en un tipo de álgebra, pero destruiría a la filosofía como sabiduría e impediría su expresión en un estilo humano de vida». R. Panikkar, “La filosofía como estilo de vida”, p. 12. [86] Cfr. il lungometraggio The Addiction di A. Ferrara che, oltre a tematizzare l’idea per la quale «l’essenza della filosofia è rivelata dalla prassi, mentre la filosofia di per sé non è altro che propaganda», mostra in maniera immediata e suggestiva i meccanismi tramite i quali prassi e teoria si alimentano a vicenda. [87] R. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica, p. 335. Del superamento della dicotomia tra teoria e prassi come compito della filosofia (Id., La torre di Babele, p. 49) non è possibile parlare in questo scritto, nemmeno accennandone; esso merita una intera trattazione a parte. [88] Cfr. E. Cacchione, “Intervista-Colloquio con Raimon Panikkar”: «Non si tratta di menomare i diritti della ragione, ma si tratta di non assolutizzarla. Ma non si tratta nemmeno di dire: “poiché a me, essere razionale, non pare che sia così, allora per dispetto divento irrazionalista, o sentimentalista”». [89] R. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica, pp. 336-338. [90] Ivi, pp. 338-339. [91] Da cui la scelta di Panikkar per l’utilizzo del termine “impensabile” riferito all’ambito del pneuma. [92] R. Panikkar, La torre di Babele, p. 47. [93] Id., “Economia e senso della vita”, pp. 30-31: «Nel mondo si spende 70 volte di più per un soldato che per uno studente. [...] Il 50% dell’economia mondiale è risucchiato dalle spese per la difesa, il 60% degli psicologi statunitensi lavora per la propaganda». [94] Id., “La vittoria non porta mai alla pace”, p. 22. La ragione armata è quella che rende impossibile un dialogo che sia veramente dialogale (e quindi paritario). Panikkar lo spiega così: «Quando una formica – dice un proverbio del sud dell’India – tira un elefante, l’elefante non va verso la formica, ma la formica verso l’elefante. La cultura occidentale predominante è un elefante e, qualsiasi cosa noi facciamo, agli altri non resta che dire di sì, mentre noi non ci smantelliamo affatto. Abbiamo sempre realizzato il dialogo in questa maniera: io a cavallo, tu a piedi e scalzo; io con il denaro, tu forse con le miniere che poi io sfrutterò; io con la croce sopra la spada, tu popolo infedele, ecc. Questo rapporto diseguale ancora esiste e credo che per un dialogo possibile questo passo previo di uno smantellamento, di un disarmo, sia necessario». Id., “La formica e l’elefante”, p. 148. [95] Id., La torre di Babele, p. 51. Alla pagina successiva Panikkar aggiunge che «la ragione non si disarma da sola. Deve incontrare la funzione dello spirito e il compito del mito. La mia filosofia va in questa direzione». [96] Id., “La vittoria non porta mai alla pace”, pp. 22-23. [97] M. K. Gandhi, Antiche come le montagne, p. 76: «Non mossi muscolo quando seppi che una bomba atomica aveva distrutto Hiroshima. Al contrario, dissi tra me: “A meno che il mondo non adotti ora la non-violenza, questo significherà certamente il suicidio dell’umanità». E più avanti, a p. 167, aggiunge: «Una cosa è certa. Se la folle corsa agli armamenti continua, dovrà necessariamente concludersi in un massacro quale non s’è mai visto nella storia. Se ci sarà un vincitore, la vittoria vera sarà una morte vivente per la nazione che riuscirà vittoriosa. Non c’è scampo alla rovina incombente se non attraverso la coraggiosa e incondizionata accettazione del metodo non-violento con tutte le sue mirabili implicazioni». [98] Al di là della formulazione teorica data da Panikkar (l’ontonomia è la «regola interna di ciò che esiste, secondo la quale il singolare concreto è allo stesso tempo indipendente e integrato nella totalità dell’essere». Saggezza stile di vita, p. 186), nella quale è qui impossibile addentrarsi, si può esemplificare dicendo, con Bellet (il quale, pur non utilizzando questo termine, ne esprime meravigliosamente il significato), che essa è quella mano dolce e materna che rimette ogni cosa al suo giusto posto, che fa venire al mondo e crescere (M. Bellet, Il corpo alla prova, p. 9). Per la sua bellezza, oltre che per chiarire ulteriormente, si riporta uno stralcio dell’esperienza in Giappone di Luciano Mazzocchi, missionario saveriano, tratto dal libro L. Mazzocchi e A. Tallarico, Il vangelo e lo zen, p. 71: «Vicino alla casa della missione abitavano due vecchietti e nel loro orto c’era un albero di cachi. Qualche giorno dopo il mio arrivo, i vecchietti, marito e moglie, raccolsero i cachi, ma ne lasciarono una trentina sulla punta dei rami. Io interpretai che non avevano potuto raccoglierli, perché era pericoloso per due persone anziane salire così in alto. Pensai che quella era l’occasione buona per far vedere loro quanto fosse generoso il missionario cristiano appena arrivato. Con una scala di legno sulle spalle mi recai da loro e offrii la mia generosità per raccogliere i cachi. “Signor straniero (mi chiamarono così, perché ancora non sapevano che il titolo dato ai missionari cattolici è ‘Signor Padre spirituale’), se li raccogliamo tutti, che cosa mangiano i corvi?”» Ontonomia è preoccuparsi che i corvi stiano bene come noi, amando il nostro prossimo come noi stessi. [99] La teoria del deterrente ha mostrato ancora una volta ai nostri giorni la sua stessa insostenibilità, nella maniera più brutale, sfociando nella cosiddetta “guerra preventiva”. Così Panikkar: «Non dimentichiamo che la cultura della certezza, inaugurata in Occidente da Descartes, porta coerentemente all’ossessione della sicurezza, ideologia predominante nella società moderna» (Pace e disarmo culturale, p. 147). Esempi di una tale ossessione, in quest’epoca sconvolta nuovamente e alla base dal terrorismo, si possono moltiplicare; ne cito soltanto due presi dall’ambito pubblicitario, a mio avviso rivelatori della mentalità in esame (perché è proprio sulle convinzioni – e sulle paure – più radicate, di cui siamo spesso inconsapevoli, che fa leva la pubblicità): se da una compagnia assicurativa come la RAS ci aspetteremmo uno slogan come “costruttori di certezze”, sicuramente ci aspettiamo meno dalla Kerastase l’affermazione che il suo olio garantisce un “controllo totale sui capelli ribelli”. E, probabilmente, neanche la scelta del termine “ribelli” è casuale. [100] Come anche Rossi mette in evidenza, «sono diagnosi scontate che viene quasi a noia ripetere, se non servissero a ricordarci il baratro nel quale lentamente (e lucidamente) stiamo precipitando». A. Rossi, “Una cultura violenta”, p. 2. [101] Cfr. lo studio sulla globalizzazione di Rossi, che utilizzando la prospettiva ed il linguaggio di Panikkar (ma senza esaurirsi in essi) svela la funzione dell’economia come mito nel mondo odierno, mostrandone la natura antropologica, prima che tecnica o politica. Id., Il mito del mercato. [102] Ma in realtà basta anche molto meno che prendere un aereo: l’idea della pericolosità a priori di attraversare il cielo in uno spazio “di nessuno”, unita a quella di oltrepassare dei confini nazionali, ancora un po’ attutiscono l’impatto del “check-in” ed in qualche modo irriflesso lo giustificano. Sarà invece sufficiente visitare, ad esempio, il castello di Chambord, in Francia. [103] J. et H. Goss, La nonviolenza è la vita, pp. 15-16. [104] R. Panikkar, I Veda. Mantramanjari. Testi fondamentali della rivelazione vedica, vol. 1, p. XXXVII ss. [105] Id., “Instead of a Foreword: An Open Letter”, p. IX; Id., prologo a J. M. Velasco, Il fenomeno mistico, vol. 2, p. 14. Su ciò si soffermano anche Knitter (Nessun altro nome?, p. 215), Prabhu (“Lost in Translation: Panikkar’s Intercultural Odyssey”, p. 3) e Veliath, che parla di stile criptico, più evocativo che esplicativo («The interrelated issue of a growing experience and the need to express it adequately has resulted at times in a cryptic style which is more evocative than explanatory». Theological Approach and Understanding of Religions, p. 84). Calza non concorda con questi giudizi, trovando al contrario il linguaggio di Panikkar sempre chiaro, purché analizzato all’interno del suo specifico contesto. Cfr. S. Calza, La contemplazione, p. 183. Del suo stesso parere D’Sa, per il quale la difficoltà nel seguire il discorso di Panikkar spesso non deriva né dai neologismi utilizzati né dall’originalità delle idee, ma piuttosto dal suo sforzo di forgiare un linguaggio nuovo che possa essere compreso altrettanto bene da esponenti di culture diverse (“The notion of God”, p. 27). [106] Come rileva Calza, La contemplazione, p. 181. Cfr. R. Panikkar, Il silenzio di Dio, p. 20: «Quello che l’autore vuole veramente dire, lo tace» e Id., “Instead of a Foreword: An Open Letter”, p. VIII: «The only thing I have endeavoured to voice is obviously ineffable» («La sola cosa cui mi sono sforzato di dar voce è, evidentemente, ineffabile»). [107] Come fece Carnap nel ’32 con l’opera “Che co’è metafisica?” di Heidegger.
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