Vedendo il titolo
da lei scelto per la sua Lezione, Fede,
religioni e culture [1],
mi sono chiesto se si mostri con esso un’oscillazione da un principio
più monistico – una fede, e ancor più una sola confessione di fede – ad
uno più pluralistico – vi è più di una religione, e molte più culture.
In questo senso, le domando come si giochi, a suo avviso, il rapporto
tra una confessione di fede e la percezione di un mondo sempre più
pluralistico. Detto in altri termini: come è possibile, oggigiorno,
declinare una confessione di fede in un contesto multiculturale?
Io non vedo nessuna di
queste tre parole al singolare o al plurale, poiché esse sono tre
simboli che rappresentano tre dimensioni proprie dell’essere umano. Ogni
uomo ha una fede, come ogni uomo ha una religione, certo nel senso non
settario della parola, e ogni persona umana vive in un determinato
universo culturale. Benché capisco che sia più elegante graficamente,
trovo anche che nel titolo manchi una “e”:Fede e religioni e culture.
Ho parlato anche di questa “e”, che distingue e unisce le tre cose.
Dunque non c’è alcun monismo.
Le chiedevo
questo perché un problema che si è presentato nella teologia delle
religioni [2] è
stato proprio quello della rivendicazione d’assolutezza delle religioni.
Lei, assieme ad altri teologi come John Hick e Paul Knitter, ha dato
risposta in una direzione pluralistica, una risposta che è di un’estrema
complessità e profondità. Nonostante questo, ancora si avverte
l’esigenza, da parte del magistero cattolico, d’una rivendicazione di
assolutezza, e talvolta ancora con i tratti dell’esclusivismo. Come è
possibile conciliare oggi la rivendicazione di verità con la pluralità
delle religioni mondiali?
Io rispetto molto il
magistero: pluralismo non vuol dire pluralità. Ho scritto anche un
articolo sul pluralismo della verità [3],
dove ho dato una descrizione fenomenologica della verità: la verità è
ciò che si cerca, quindi ogni religione cerca la verità, ogni uomo cerca
la verità. Di più: ogni affermazione ha di per sé una pretesa di verità.
Tuttavia, se da ciò si estrapola che questa verità è unica, si compie un
errore logico, perché ogni affermazione ha un significato all’interno di
un contesto che le conferisce il suo senso. Estrapolare qualsiasi
affermazione al di fuori del suo contesto significa commettere l’errore
logico di assolutizzare qualcosa che ha un senso soltanto all’interno di
un contesto. E
questo vale, naturalmente, anche per la mia filosofia. Ciò significa che
per capire il senso di un’affermazione che ha implicita una
rivendicazione di verità, devo anzitutto capirne il contesto. Oltre a
questo contesto, occorre cercare di comprendere il pretesto che
porta a quella affermazione, un pretesto che può essere meschino o
nobile. E per conoscere quel pretesto, occorre conoscere la persona che
l’esprime. Perciò la verità è sempre incarnata. Il concetto di verità
possiamo definirlo come più piace: vi sono tante definizioni, la
filosofia analitica oggi ha almeno una dozzina di definizioni della
verità. Ma la verità “che ci fa liberi” non ci permette di fissarla in
un concetto. Come afferma l’epistola ai Galati, siete chiamati alla
libertà: έπ’έλευθερία, in
libertatem vocati estis. Alcune traduzioni di questo versetto sono
errate. San Paolo in un altro testo parla anche della legge perfetta della
libertà, ma non si tratta della legge della perfetta libertà. Essere
perfetti si riassume in ciò che non può essere né legge né comandamento,
che è l’amore per il prossimo.
Di fronte
all’affermazione dell’esistenza di molte verità quale quella formulata
dai teologi pluralisti, tuttavia, Hans Küng, poneva un’obiezione,
epistemologicamente molto avvertita, di apriorismo, consistente nel dire
che così si rinuncia «già di partenza al carattere normativo della
propria tradizione, supponendo come risultato ciò che non sarebbe
auspicabile nemmeno al termine di un lungo processo d’intesa»; un
dialogo non sarebbe allora utile e nemmeno possibile, poiché tutti
avrebbero fin dal principio messo in discussione la propria identità [4].
Egli postulava invece la possibilità di un’affermazione di verità che
fosse però anche capace di una “politica estera”, in una “doppia
prospettiva”, dunque, per la quale accanto ad una prospettiva
partecipante, in cui si rimane cristiani, vi sia una prospettiva esterna
in cui si riconosce che però molte sono le affermazioni di verità e si
presentano al dialogare in maniera aperta, senza presunzione le une
verso le altre [5].
Come reagì e come reagisce, lei, a questa obiezione?
Io reagisco
interculturalmente. Per me, lo ribadisco, il pluralismo non vuol dire la
pluralità delle verità. Per me la verità è unica, e con ciò stesso essa
non è matematizzabile, non è quantificabile, non è concettualizzabile.
Con questo atteggiamento sto nel dialogo. Non si può fare un’esegesi del
silenzio di Gesù di Nazareth di fronte alla questione che gli venne
posta, «cos’è la verità?». Egli tacque a quella domanda di Pilato. Se
non capiamo il linguaggio del silenzio, ancora non abbiamo capito il
linguaggio umano. Ogni linguaggio è vero in quanto rivela questasource,
questa ‘sorgente di silenzio’ da cui la verità sgorga. Per questo
occorre sviluppare un po’ di più ciò che abbiamo assai poco coltivato,
la dimensione mistica dell’esistenza. La proposta di Hans Küng quindi,
all’interno della cultura occidentale, mi pare molto sottile, persino troppo sottile
e convincente. Quella di Küng (siamo dottori della stessa università,
come pure Ratzinger), è filosofia squisitamente occidentale. Negli anni
Cinquanta ho scritto, in tedesco, un saggio sull’analisi esistenziale
della verità, e svolgevo la parte filosofica di questo discorso [6].
Per me il problema non si presenta così, perché io non assolutizzo, non
oggettivizzo la verità. Qualsiasi discorso sulla verità non tocca
affatto la verità. La verità non è un concetto, è solo un simbolo che
noi utilizziamo per dire che siamo tutti in pellegrinaggio verso qualche
luogo, e non possiamo indicarne la direzione. C’è un’affermazione di
Gregorio, che commenta la vicenda del padre di tutti i credenti: Abramo
ha sentito la voce di JHWH, se ne va da Ur alla ricerca della terra
promessa che gli verrà data. Abramo se ne va nel deserto, e commenta: «e
adesso sono certo che questa era la voce di JHWH che mi chiamava, perché
non so dove vado».
Abbiamo sempre un fine,
un telos. Era così
già per la causa finale aristotelica, che era l’ultima nella sua
dottrina delle cause. E così è tutta la nostra educazione: si vuole
essere santi, o essere ricchi, o ancora avere successo. Nel sanscrito
classico invece non esiste la parola “volontà”: esiste una parola per
dire desiderio, aspirazione, ma non per “volontà”. Non c’è il Wille
zur Macht, la volontà di potenza. Abramo diceva di sapere che si
trattava della voce di JHWH perché egli non sapeva dove andava.
Vi è nel
Vangelo, come lei ha ricordato, un Gesù di Nazareth che tace davanti
alla domanda di Pilato «che cos’è la verità?», e tuttavia, accanto a
questo Gesù vi è un Cristo giovanneo, che dice: «io sono la via la
verità e la vita»; e nelle Scritture vi sono anche molti passaggi che
indicano la necessità di una confessione di fede, di un’affermazione e
di una rivendicazione di verità. Vi è poi ancora un interprete
privilegiato di quella verità: un magistero, una dottrina…
Cristo ha sì detto
«io sono la verità», ma non ha detto «la verità è quello che voi dite di
me». Egli è la via, la verità e la vita se si cammina per la via, se si
sta nella verità e se si vive, altrimenti quella non è vera vita, è la
vita di altri. Ci manca questa profondità nella comprensione di quelle
parole. Anche nella metafora dell’Apocalisse che esorta a mangiare le
Scritture, è detto chiaramente che la lettera uccide.
Ogni giorno ha la sua
pena. Nell’ordine pragmatico, certo occorre un’agenda su cui si
appuntano le cose da fare. Ma l’ordine della vera vita, dell’esperienza
umana, che è arte di vivere, la grande arte, non si può insegnare nelle
scuole. Si può al massimo contagiare. È come un virus vivo che contagia
l’allievo che si rende conto che là c’è qualcosa di vivo. L’educazione è e-ducere,
da dentro, tirare fuori quello che ardentemente stava dentro il cuore.
Parlando di vita
vissuta, allora, come si avverte questo tema della verità a partire dal
contesto asiatico, al quale lei appartiene? Si può ancora, a suo parere,
e come, essere cattolici, o essere chiesa, oggi, in Asia?
Una volta, Paolo VI,
in un’udienza privata, mi chiese cosa stessi facendo nella mia diocesi
in India, ed io gli risposi: «mi domando se per essere cristiano si
debba essere spiritualmente semita e intellettualmente greco». Allora, e
ancora oggi, se non si è spiritualmente semita e intellettualmente greco
non si capisce nulla del cristianesimo. Il cristianesimo risulta
esterno, artificiale, non connaturale a due terzi del mondo, che devono
essere, per così dire, ‘circoncisi’ nella mente, per essere cristiani;
il loro essere cristiani, cioè, non può essere spontaneo. La grande
sfida del terzo millennio cristiano è dunque quella di essere veramente
cattolici – cioè universali – il che vuol dire non avere una dottrina,
che è talora necessaria, ma non è certo universale. Per avere
l’universalità del cristianesimo, si richiede una kenosi,
uno svuotamento intellettuale, ed è questo che fa paura. Ma, come le ho
già detto, quando Abramo non sapeva dove andare, sapeva però che era la
voce di Dio a guidarlo.
La via della
teologia per il nuovo millennio può essere dunque trovata in una
prospettiva contestualista? Una pluralità di teologie, per così dire,
come una teologia cattolica asiatica, una teologia cattolica
sudamericana, una teologia cattolica africana, che conservino ciascuna
il proprio linguaggio, che siano per una volta tutte diversamente
universaliste nell’affermazione di Cristo?
Anzitutto, io non
userei la parola “teologia”: questa parola è già un po’ tendenziosa. E
lo è, soprattutto, se intendiamo logos come
razionalità. Logos nel
senso più autentico vuol dire parola, vac in
sanscrito, e non vuol dire razionalità né esclusivamente
intelligibilità. La traduzione classica che viene da Aristotele,
dell’uomo come animale razionale non dice tutto quello che dice
l’originale greco. Per Aristotele, testualmente, l’uomo è ton
zoon logon echon [7].
L’animale nel quale il logos transita.
L’uomo non è dunque il possessore del logos,
meno ancora è l’animale razionale. Egli è quell’essere vivente in cui
transita la parola, perché la parola non la si può cogliere, la parola è
tale quando si parla, la parola è tale quando qualcuno la ascolta. Il
ruolo che nella mentalità greca ha la vista, nella mentalità indiana è
assunto dall’ascolto:śruti non
significa rivelazione, ciò che viene rivelato, bensì ciò che viene
ascoltato. Per ciò dobbiamo imparare, penso, gli uni dagli altri. Ogni
affermazione, anche la mia, è limitata. E per capire perfettamente
dobbiamo affrontare questo “salto”, questo capovolgimento, di cui
parlava anche Nietzsche con la propria «transvalutazione di tutti i
valori» (Umwertung aller Werten). Non si deve separare mai
l’amore dalla conoscenza.
Lei vede una
molteplicità di poli, comunque, per questo ascolto della parola, per
questo «imparare gli uni dagli altri» di cui ha parlato?
Neppure, a ben
vedere. Quando si ha ancora una visione monocromatica si vedono il
verde, il blu, il rosso… ma non si gode dell’arcobaleno. Si può forse,
in quel primo caso, scrivere un’intera tesi su ognuno dei colori. Al
contrario, in questo Blick,
in questa visione mistica, del “terzo occhio”, non è questione di fare
una sintesi. In Occidente siamo troppo giansenisti e troppo puritani e
abbiamo perso il godimento della pluralità dei colori; la sinfonia dei
colori non deriva però dalla somma dei colori. Anche nella musica, se si
fa un’analisi puntuale delle diverse partiture, non si gode affatto
della musica. Per avere il vero godimento e la vera conoscenza della
musica la si deve fruire nella sua armonia, non nelle sue singole parti.
Ed è proprio questa visione olistica della
realtà quello che un po’ ci manca.
Un ultimo
aspetto che mi preme è d’impatto molto pragmatico, politico, di utilità
e di esigenza immediata: diversi anni fa, ormai, lei proponeva una
definizione delDharma in
vista della dichiarazione dei diritti umani a partire da un contesto
indiano, locale [8].
Mi domando, e le domando, allora, come può il pluralismo religioso, dato
di fatto della nostra realtà attuale, oltre a non confliggere in uno
scontro di civiltà, farsi via percorribile perché da tutte le culture
provenga un anelito all’uomo, ad un umanesimo, che possa essere in
questo senso una nuova unità, in cui tutti si riconoscano?
Devo dire che ho, al
tempo stesso, una certa allergia verso l’unità: la Trinità non è unità,
e – analogamente – non si tratta di giungere all’unità di tutte le
religioni. Non si tratta neppure di pervenire all’unità di tutta
l’umanità, o dei diritti umani attraverso un loro comune denominatore. È
questione invece di giungere ad un’armonia tra
le diverse concezioni dei diritti umani. Quella della dichiarazione è
una formulazione molto particolare – vecchia di due secoli – della
dignità dell’uomo. Occorre trovare questa armonia, che non è cosa
razionalizzabile. L’armonia non si trova infatti con la ragione; essa
implica altro, che non è nemmeno la soggettività. Il dilemma stesso tra
oggettività e soggettività non è un paradigma universalizzabile. Le cose
stanno qui al di sopra della dialettica soggetto-oggetto. Vi sono altre
forme di conoscenza, tuttavia, che sono al di sopra di questa
dialettica. E questo ancora ci manca. Questa a mio parere è la grande
sfida, che può essere anche una benedizione del momento attuale, il
frutto collaterale della globalizzazione, per cui ci rendiamo conto che
non possiamo più vivere, intellettualmente parlando, con gli strumenti
di una sola cultura.
Intervista rilasciata il 13 settembre 2006
E-mail:
Gianmaria Zamagni